Il Torture come cifra stilistica

Spesso confuso con il revenge-movie, ma lo stile torture ha dei paradigmi ben definiti...
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Dall’epoca del suo boom, il tema della tortura ha spesso finito per coincidere con quello del revenge-movie, elevando quindi il prodotto a qualcosa di diverso dalla semplice esposizione di sangue e budella nei modi più bizzarri e variegati possibile. Ne è un esempio il piccolo film australiano di Nathan Hill, Tomboys (2009), in cui un gruppo di ragazze rapisce e sevizia uno stupratore che la polizia non era riuscita ad assicurare alla giustizia. Una variante torture di Sporco Weekend (Dirty Weekend, Michael Winner, 1993) e di L’angelo della vendetta (Mr. 45, Abel Ferrara, 1981), che permette di evidenziare la natura camaleontica del torture. Cioè di un genere che funge da agente patologo per altri generi e che è quindi capace di infettare e prolificare all’interno di film di tutt’altra natura. Perché il torture-porn rimane anche e soprattutto una cifra stilistica. Un insieme di elementi caratterizzanti capaci di plasmarsi attorno a qualsiasi storia. Basta un luogo isolato e chiuso, qualche pinza o altri ameni strumenti capaci di incutere dolore, e il gioco è fatto. L’importante è che ci sia una vittima e un carnefice, anche quando il gioco delle parti risulta invertito, come nel caso delle donne stuprate che si trasformano in sadiche vendicatrici nei due remake di I Spit on Your Grave. Film nei quali l’altrettanto scellerato filone del rape & revenge si fonde armonicamente con quello del torture, in un matrimonio di interesse che offre l’alibi ideale allo spettatore-guardone. Spettatore che prima si trastulla con lo stupro delle giovincelle e poi si redime nel testimoniare le più sadiche efferatezze che queste consumano sui loro aguzzini per vendetta. Del resto, la vendetta è un piatto che si serve freddo, e magari con un fucile piazzato tra le chiappe.

Ma fin quei è troppo facile. Più interessante è invece riscontrare il germe del torture in film di altre aspirazioni, quale, ad esempio, Dread (2009) di Anthony DiBlasi, tratto dal racconto Paura di Clive Barker, contenuto nella raccolta Ectoplasm (Books of Blood vol. 2) del 1984. Tre studenti di cinema vogliono realizzare un documentario sulle fobie recondite dell’uomo e usano come cavie alcuni compagni di scuola. Quello che inizia come un gioco, si trasforma ben presto in una crudele manifestazione di violenza psicologica, quando il più alienato dei tre costringe gli altri ad affrontare le loro inconfessate paure. Definire Dread, lucido e spietato studio sulla cattiveria, un torture porn sarebbe quanto mai riduttivo e superficiale, ma è innegabile che la pellicola di DiBlasi ricorra agli stilemi del genere in più di un occasione. Quando, ad esempio, la bella e vegetariana Cheryl, rinchiusa in una stanza vuota, viene costretta a digiunare al cospetto di una cruda e sanguinolenta bistecca di manzo. La ragazza prima resiste, poi si dispera, poi, dopo giorni di crampi allo stomaco, addenta l’indigesto boccone ormai brulicante di vermi. Qualcosa c’è anche in Le colline sanguinano (The Hills Run Red, Dave Parker, 2009), un omaggio cinefilo al cinema slasher uscito direttamente in dvd. Quando una ragazza viene costretta, impotente, ad assistere alle sevizie inflitte all’amico-amante da una coppia di fratello e sorella fuori di melone. Ma anche qui, nonostante l’efferatezza delle torture, si tratta di poca cosa. Non è un torture porn neanche Shadow (2010) di Federico Zampaglione, eppure la scena di Ottaviano Blitch legato e grigliato come una salamela per il piacere perverso del mefistofelico Nuot Arquint, sembra proprio essere figlia dei tempi che l’hanno partorita.

Certo, poi ci sono i nipotini bastardi di Saw, che del genere rivendicano spudoratamente ed ingenuamente le origini. È il caso dell’inutile Kill Theory (2009) di Chris Mooret, in cui sette studenti in vacanza in una villa isolata vengono costretti da un misterioso psicopatico ad ammazzarsi l’un l’altro. Le regole del gioco, come nella miglior tradizione jigsawiana, vengono dettate da alcuni registratori strategicamente posizionati nei luoghi dei delitti. In questo caso, più che la tortura di per sé, sono i meccanismi stessi dell’azione a essere chiaramente derivati da una serie che ormai, si può dire, ha fatto scuola. Il killer invisibile, che non agisce mai direttamente, diventa anche qui deus ex machina dei destini altrui, stabilendo principi di sopravvivenza che costringono sempre ad una solo scelta. Quella tra la vita e la morte. Peccato che questo gioco, tanto surreale quanto efficace nella costruzione della complicità tra pubblico e narratore nella serie di Saw, qui diventi talmente pretestuoso e improbabile da smorzare subito ogni entusiasmo. Questo a indicare come la formula del torture già alla fine del primo decennio fatichi a replicare se stessa. Lo stesso valga per The Collector (2009), scritto e diretto da quel Marcus Dunstan già responsabile degli ultimi copioni delle gesta di Jigsaw. La storia è quella di un ladruncolo improvvisato che, nottetempo, si infratta in una villa fatiscente per arraffare qualche spicciolo e riscattare i debiti della compagna. Peccato che nella magione si aggiri un deficiente con il volto mascherato che si diverte a disseminare trappole improbabile un po’ ovunque e stia con soddisfazione maciullando tutti gli abitanti della casa. Invece che scappare e, al limite, avvertire la polizia, il nostro intrepido topo d’appartamento si limita a spiare le mosse del “collezionista”, finché finirà pure sotto i “ferri del mestiere”. Non c’è limite alla demenza. Quella di Dunstan, in primis. Quale sia il gioco e soprattutto il senso del gioco del “collezionista”, non ci è dato saperlo. Ma perché mai uno dovrebbe passare il tempo a riempire le stanze di assurde trappole e marchingegni che manco MacGyver, con l’unico scopo di vederci le persone cadere dentro? Dunstan si concentra sull’effetto, sulla costruzione machiavellica del trabocchetto, e si dimentica che una storia, anche la più cazzona e commerciale, ha bisogno almeno di un motivo. Chiede allo spettatore un’impossibile sospensione della realtà, senza concedergli il ben che minimo pretesto per giustificarla. Non è questo il torture porn che vale la pena considerare anche se pure The Collector ha goduto almeno di un seguito, The Collection (2012) sempre di Dunstan che, incredibilmente, risulta migliore dell’originale. Cioè, è sempre la solita solfa – l’assassino mascherato, i giochi di ruolo mortali, le macchine di torture più estreme – ma, perlomeno, c’è una divertente scena iniziale con il collezionista a cavalcioni di una gigantesca trebbiatrice che trasforma una comune discoteca in una piscina di sangue. Il film però non l’ha visto nessuno.

Ormai il genere aveva esaurito le sue cartucce e, mentre la serie di Saw chiudeva comunque in bellezza con il suo capitolo in 3D (il settimo) nel 2010, quella di Hostel avrebbe resistito giusto un anno di più, approdando però al solo terzo episodio (non più diretto da Eli Roth) direttamente in home video. Finiva un’epoca, ma non il sangue. Gli Studios ormai si erano impossessati della ricetta e non l’avrebbero più abbandonata, come dimostrano, ad esempio, gli sprechi di adrenalina nella saga di Final Destination. Come dire? Mentre altri generi soppiantavano il torture porn con un inaspettato ritorno al classico – e qui basti pensare a quanto fatto da Jason Blum e dallo stesso James Wan con i vari Insidious (2010) e L’evocazione – The Conjuring (2013) – la cifra stilistica di quel filone scellerato avrebbe continuato a riproporsi sotto mentite spoglie in altre situazioni. Ma il vero torture porn era definitivamente tramontato e non sarebbero serviti certo piccole epifanie come l’americano Reversal (2015) di J. M. Cravioto o il messicano Luna de miel (2015) di Diego Cohen a riportarlo in vita. Del resto, il canto del cigno l’ha intonato proprio lui, l’uomo al quale, se non proprio tutto, gran parte gliela si deve, Eli Roth, che nel 2015 se ne esce con quella che è forse una parodia del torture, Knock Knock, storia di due bellissime teenager che rapiscono e tormentano un’infedele Keanu Reeves. Non c’è una goccia di sangue, le sevizie sono solo psicologiche e quasi sempre c’è da ridere. Come dicono quelli che hanno studiato? Che la fine di un genere la si decreta quando si cominciano a fare le parodie… Hanno ragione.