Il thriller gotico negli anni Settanta

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Il giallo-gotico forma una zona peculiare nella frastagliata geografia del thriller anni Settanta e storicamente deriva da pellicole del decennio precedente che avevano giocato a zigzagare sul discrimine tra logica e assurdo (Un angelo per Satana, di Camillo Mastrocinque, è il primo esempio che si affaccia alla mente), o che si erano avvalsi di ambientazioni tradizionalmente consacrate a storie dell’orrore: da Horror, al Boia scarlatto, a La lama nel corpo ad A come assassino, al Mostro di Venezia l’elenco è nutrito. Maledizioni ataviche, spettri vendicatori, nebbie e atmosfere gotiche (che alla fine evaporano rivelando terrene macchinazioni criminali) tornano così, nell’età razionalmente irrazionale (o irrazionalmente razionale) di Dario Argento, a macchiare le trame con un colore più cupo del giallo. Gli sceneggiatori acuti – la minoranza – sperimentavano così una variazione rispetto al tipo di cinema che la trilogia “zoologica” aveva affermato, frapponendo ai moventi abituali (traumi infantili, eredità o questioni di sesso) lo schermo di un occulto posticcio; gli altri – i più – probabilmente non coglievano del tutto il valore di cesura del nuovo thriller di Argento rispetto al passato e pensavano di ricopiarne il successo semplicemente usando i vecchi modelli che conoscevano. Tralasciando Qualcosa striscia nel buio, diretto da Mario Colucci nel 1970, in cui Farley Granger braccato dalla polizia finiva in una sorta di “Haunted House” – tralasciandolo perché derivava da un vecchio soggetto mai realizzato negli anni Sessanta con una spiccata componente metafisica e perché resta cronologicamente al di qua dello spartiacque dell’Uccello dalle piume di cristallo –, è Fernando di Leo il primo a inseguire (su commissione e controvoglia) la voga argentiana ricorrendo, però, a degli stilemi gotici molto marcati e iniettando forti dosi di erotismo nella vicenda, con La bestia a sangue freddo (il verbo “uccide” nel titolo fu inserito solo sui manifesti; curiosamente, datosi che spezza il sintagma “alla Argento”). L’elemento rétro, di riporto dagli horror degli anni Sessanta, è costituito da un castello-clinica (un simile teatro d’eventi si era visto nel film di Elio Scardamaglia e Lionello De Felice La lama nel corpo) per donne affette da patologie psico-sessuali, tra i cui corridoi e le cui stanze ciondola la sagoma di un assassino che – la ricercatezza e la creatività nei delitti riflettono perfettamente la nuova estetica del crimine – trucida le pazienti a colpi d’arma d’epoca: alabarde, balestre, spade e picche. Di Leo gioca con l’equivoco di Klaus Kinski suggerito come “mad doctor” e probabile assassino, e solo negli ultimi, feroci, fotogrammi scarica la risoluzione del tutto su un marito avido, il quale ha fatto strage nella clinica soltanto per potersi sbarazzare della moglie ricoverata e intorbidare le indagini. Impossibile immaginare qualcosa di più lontano da Argento – basti solo lo spazio lasciato alle scene di sesso, alcune delle quali hard nelle versioni per l’estero –, eppure La bestia a sangue freddo non può prescindere da L’uccello dalle piume di cristallo e almeno come genesi lo presuppone.

Aperta, così, una via collaterale al giallo, mentre tutti cucinano spaghetti in “salsa d’argento” e Mario Bava, dal canto suo, è già allo slasher totale e alla disgregazione del thriller con Ecologia del delitto, escono tra l’agosto del 1971 e quello dell’anno successivo due capisaldi dell’indirizzo cripto-gotico: La notte che Evelyn uscì dalla tomba e La dama rossa uccide sette volte, entrambi di Emilio Miraglia e sceneggiati dalla coppia di giallisti Massimo Felisatti e Fabio Pittorru. Nel primo, le suggestioni orrorifiche sono evocate grazie ad un castello inglese dove il baronetto uxoricida Anthony Steffen si apparta con donne dai capelli rossi che ha rimorchiato (e che gli ricordano la moglie morta) per seviziarle e poi – lui ne è convinto, ma così non è – farle fuori. C’è persino il brivido oltretombale di un (falso) fantasma, prima che si chiarisca il disegno criminoso soggiacente, ordito da un cugino in combutta con la nuova fiamma di Steffen (scioglimento tipo complotto familiare quindi, detto “alla Lenzi” o “alla spagnola). Il titolo è azzeccato, ottimo il cast, con Erika Blanc in stivaloni a coscia di pelle nera, e Marina Malfatti in seducenti trasparenze, immancabile la sexploitation dalle sfumature s/m; e trovata degna di nota nello script (forse improntata all’animalismo in voga nel genere) una gabbia piena di volpi, che Steffen si tiene in giardino e che vengono nutrite con i resti delle ragazze uccise. La dama rossa uccide sette volte sceglie invece un’antica maledizione (legata al personaggio del titolo, una killer fantasmatica che ogni secolo si manifesterebbe in un castello tedesco per uccidere sette cristiani) come paravento a una catena di delitti perpetrati da Marina Malfatti in preda all’esecranda fame di oro e avversa alla cugina – protagonista della storia – Barbara Bouchet. Giallo ereditario e stilemi orrorifici si amalgamano piuttosto bene con l’immancabile contorno di bizzarrìe (nel finalissimo la Bouchet rischia di annegare in una segreta del maniero, tra decine di schifosissimi ratti e c’è Ugo Pagliai versione nature che amoreggia con Sybil Danning). Se qualcosa zoppica nel meccanismo sono i troppo repentini colpi di scena con cui, nel finale, viene strappata la maschera alla verità soggiacente all’intrigo.

Le scenografie dal fascino lugubre e minaccioso garantite dalla Villa Borghese di Artena, vicino Roma – un luogo spesso e volentieri sfruttato come palcoscenico di caserecce ghost stories – rappresentano l’elemento gotico di Un bianco vestito per Marialé, diretto da Romano Scavolini (e apparso sul finire del 1972): quanto al resto, si tratta di un “dieci piccoli indiani”, farcito di erotismo malato e di sangue e governato da una mente omicida per via di un trauma infantile: solita solfa. Sulla carta almeno (soggetto e sceneggiatura appartengono, non a caso, a due vecchie penne: Remigio Del Grosso e Giuseppe Mangione), perché la tensione psichedelica e l’indiscutibile talento di Scavolini – che rinnegò il film –, attori adeguati (bravissima Evelyn Stewart come pazza Marialé) e un’ambientazione giustissima cooperano alla ricetta di un film che trasuda un fascino malsano e decadente come le mura tra cui si svolge; il regista è consapevole di stare più dalle parti dell’horror che del giallo e ci scherza anche sopra, col primo psicodramma allestito dalla sciroccata protagonista, tra fulmini di repertorio ed ectoplasmi posticci. Qualcuno ne ha parlato come di un clone di Cinque bambole per la luna d’agosto, ma non è da prendere sul serio, perché in questo caso Scavolini trascende Bava e se lo lascia dietro.

In tutto e per tutto gialli gotici sono anche le due pellicole firmate da Sergio Martino nel 1972: Tutti i colori del buio e Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave; storia di una donna psicolabile, risucchiata nel gorgo di una setta di adoratori del demonio, il primo, e riuscita rilettura del Gatto nero di Edgar Allan Poe l’altro. La classificazione per “movente” induce a porli nel capitolo “faide familiari”, ma come si possono ignorare i forti legami che Tutti i colori del buio intrattiene con la tradizione del satanismo cinematografico (vi è anche rappresentata, con buona coreografia, una messa nera)? Tanto che la spiegazione conclusiva di tutto l’intreccio come di un piano ordito dalla sorella della protagonista per farla impazzire ed ereditare, risulta la parte più debole del film. Il tuo vizio… egualmente scritto da Ernesto Gastaldi e Sauro Scavolini, filtra Poe alla luce dei Diabolici, ma come elemento di quinta – atipico e ben escogitato – aggiunge il Veneto delle ville palladiane, pieno di insidie dietro una facciata silenziosa e quieta, e cala l’asso di una Edwige Fenech in variante canagliesca e bisex, che va a letto sia con lo zio Luigi Pistilli (grande) che con la zia Anita Strindberg. Quasi una versione riveduta e corretta delle contemporanee commedie sexy familiari. Anche un maestro del fantastico classico come Antonio Margheriti ha lasciato traccia di sé nel thriller, tentando ovviamente di mettere in comunione i due regni. La morte negli occhi del gatto (1973) equivoca, infatti, fin quasi all’ultimo fotogramma sulla possibilità che nel casato della povera Jane Birkin esista una maledizione in virtù della quale i morti uccisi da consanguinei resuscitano come vampiri. L’ammazzasette, in realtà, è un prete di famiglia (Venantino Venantini, inverosimile), e fa quasi rabbia scoprire che tutto l’arcano, ben congegnato a partire da una novella di Peter Bryan e narrato con tenebrosa mano felice da Margheriti, precipiti nella prosaicità di un killer seriale per questioni ereditarie: sarà che il mélange di giallo e di gotico finisce per sembrare più spesso un declassamento e un sacrificio del secondo elemento che un accrescimento del primo. Non è questo il caso di La morte scende leggera, di Leopoldo Savona e scritto da Luigi Russo, del 1972 (ma uscito soltanto nel ‘74) in cui l’idea di un losco personaggio rifugiatosi con l’amante in un albergo deserto, dopo aver trovato la moglie con la gola squarciata, diventa il pretesto di un remake, su scala minore ma per nulla dissimulato, di Danza macabra. La ripetizione sovrannaturale di un delitto si rivela soltanto un messinscena teatrale per smascherare l’assassino (anzi l’assassina, l’amichetta), ma né il lato logico né quello (pseudo) irrazionale della vicenda esercitano il minimo fascino e, alla resa dei conti, niente di più resta della bella Patrizia Viotti e del suo candido incarnato. Da nominare en passant La casa della paura (1973) di William L. Rose, un intruglio a base di ragazze rapite e sacrificate da una setta di sadici, con a capo Raf Vallone e Rosalba Neri. I prestiti gotici – senza bisogno di scomodare ascendenze da Il boia scarlatto – deriveranno dai giornaletti porno-sadici del periodo e le ambientazioni sono le stesse di La bestia uccide a sangue freddo. I loro estimatori apprezzeranno la Neri, bieca aguzzina, e Daniela Giordano, languida vittima; ma il mistero più intrigante riguarda chi abbia realmente diretto il film: l’americano Rose oppure il direttore della fotografia Mario Mancini o l’attore-produttore Dick Randall o Ramiros Oliveros che firma la sceneggiatura?

Fuorvianti titolo e manifesto di Una tomba aperta… una bara vuota (Il cadavere di Helen non mi dava pace), una produzione italo spagnola del 1973 diretta da Alfonso Balcazar Granda (su soggetto di José Ramon Larraz), dove di gotico non c’è assolutamente nulla, trattandosi dell’abituale “gruppo di famiglia in un inferno” con al centro un uomo concupito dalla matrigna gelosa e assassina. E già che ci siamo segnaliamo anche un’altra coproduzione iberica bordeggiante l’horror, a firma Francisco Lara Polop, Quando Marta urlò dalla tomba – due donne capitavano in una casa infestata da fantasmi e vampiri, ma era tutta una finzione, a celare il solito inghippo ereditario. Seguendo la cronologia (1974), incontriamo L’assassino ha riservato nove poltrone, di Giuseppe Bennati, che incrocia Agata Christie con rimandi al Fantasma dell’Opera e del thriller gotico declina tutte le caratteristiche: la maledizione ancestrale e il décor sinistro da un lato – il vecchio teatro di Fabriano in cui restano intrappolati un gruppo di aristocratici a varia campionatura: la lesbica, il cornuto, il playboy… – e dall’altro l’omicida seriale e inventivo nelle eliminazioni, con caratteristiche quindi “alla Argento”. La sceneggiatura di Biagio Proietti non rischiara tutta la faccenda al lume della ragione, dal momento che presenze e forze non di questo mondo aleggiano effettivamente nel luogo dei massacri e l’excipit reca il sigillo insoluto del paranormale. Buon film e per nulla scontato. Con l’ingannevole titolo orrorifico La sanguisuga conduce la danza alla metà del 1975 esce uno degli ultimi esempi di giallo con venature crepuscolari, per la regia di Alfredo Rizzo. Che il film sia un horror camuffato stanno a dimostrarlo sia la location, il castello di Balsorano, nella Marsica, abituale proscenio di eccessi stregoneschi e vampiristici, ma che in questo caso è la trappola per topi dove si vanno a ficcare alcuni teatranti, ospiti di un signorotto locale; sia le presenze tipicamente sepolcrali di Luciano Pigozzi e Giacomo Rossi Stuart; sia il belluino modus operandi del maniaco, tagliatore di teste (in realtà una maniaca, sobillata da un’altra donna). L’ispettore che indaga è – non accreditato – il regista Paolo Solvay, e la pellicola sovrabbonda nell’aspetto erotico (se ne conoscono versioni spinte a vario grado e persino una hard), anche perché il materiale umano non mancava (Femi Benussi, Patrizia De Rossi-Webley, Krista Nell al suo ultimo ruolo, Barbara Marzano e Marzia Damon). Più o meno lo stesso si può dire di I vizi morbosi di una governante, di Peter Rush alias Filippo Walter Ratti, che nel 1977 cucina in un unico calderone il luogo spettrale, una vicenda poliziesca in cui c’entra, oltre all’assassino degli ospiti di una villa, anche un traffico di droga, e situazioni erotiche assai truci – la versione nota del film è piuttosto casta, ma in origine la sodomizzazione con un cero inflitta a Patrizia Gori e gli amplessi di Isabelle Marchall rasentavano la luce rossa. La soluzione dell’enigma è rivelata fin dal titolo e se si escludono le nominate attrici, entrambe con un look biondo platino, e Karol Edel che macchina dietro le quinte, le attrattive del film si riducono al fascino del brutto.