Il senso di Von Trier per il porno

Il regista di Nymphomaniac e il sesso senza filtri: un antico amore che risale ai tempi di Idioti e prosegue, oltre che nei propri film, nelle produzioni Puzzy Power e Zentropa...
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Non si può introdurre Lars von Trier in maniera accademica. Non in Nocturno. Non in un dossier che si intitola Fallo davvero e tratta del sesso esplicito nei film normali – che quindi diventerebbero anormali per la virtù transitiva della rappresentazione del sesso senza censura, senza limiti, senza reticenza, che la maggior parte della gente (interrogate e vedrete) considera pratica fuori dalla norma, aberrante e degna di coercizione. Inutile specularci e aprire dibattiti: è così. Nel 2014, come era nell’anno Mille, come probabilmente sarà nel 3021, è così. Non si può introdurre Lars von Trier in maniera accademica. E forse non si può introdurre von Trier in senso assoluto. È il teorizzatore del Dogma 95, che taluni sostengono abbia fatto disastri, ma partiva da una nobile causa: levarci dai coglioni quel cinema insopportabile degli effetti speciali, dei miliardi, del grosso e grande: il genere che ha figliato i più grandi orrori sulla faccia del pianeta.

Stipularono nel ‘95 questo patto decennale, a Copenaghen. E a Copenaghen nel marzo del 2005 si ritrovarono per scioglierlo, perché – dicevano – la sperimentazione era durata abbastanza. Al netto di tutte le sciocchezze che il decalogo conteneva, c’è da appuntarsi che il Dogma era detto anche Voto di castità. E che era un Manifesto. Quand’era stata l’ultima volta che nella cultura Novecentesca qualcuno aveva stilato un Manifesto? Chi erano stati, i futuristi? Marinetti? Era bella come idea, intendo quella del Manifesto, gliene va dato atto: una pratica ricercata e di élite, altro che cinema ecumenico. Tra i 35 film registrati ufficialmente nel Dogma, c’è anche Idioti, del 1998, il secondo appartenente al canone dopo Festen.

Von Trier lo scrisse in quattro giorni, poi lo girò da solo, macchina a spalla, senza scenografie e senza luci – Massaccesi e Cavallone avevano fatto di meglio. Andava in sequenza, cioè  realizzava le scene nell’ordine in cui erano in sceneggiatura, per facilitare l’immedesimazione degli attori nei ruoli. Si incartò soltanto in una scena di orgia, sebbene lui e il tecnico del suono girassero nudi in mezzo agli interpreti, per rendere il tutto più naturale e spontaneo. Dovevano mostrare una penetrazione ma nessuno ce la faceva. Le erezioni c’erano, ma al dunque, crollava il palco.

Così fu giocoforza ricorrere ai buoni servigi di un attore hard. La scena è istantanea, è questione di pochi istanti, la ragazza sopra e lo stallone sotto, si vedono la schiena e le terga di lei e l’arnese umido e stantuffante di lui, giocoforza anonimo. Chi non avesse voglia di sorbirsi l’intero film, la trova ovunque nelle library in rete. Fa effetto. Faceva effetto e continua a farlo – e non solo perché vicino ai due in azione vediamo la povera Trini Michelsen: detto a solo beneficio di chi sa chi era Trini Michelsen. Il punto è sempre quello: che il sesso è una verità di primo grado posta all’interno di una verità, comunque sia – Dogma o non Dogma –, di secondo grado.

Estremizzando il concetto, è la stessa cosa che se avessimo visto Umberto D. ricevere un blow job da qualcuno; o Silvana Mangano in abito da mondina andare su e gù lungo il perno di carne di un amante. Qualsiasi forma di realismo viene immediatamente spazzata via dalla forza dell’atto sessuale riprodotto senza infingimenti – e lasciamo ora da parte il fatto che il pene utilizzato da Lars von Trier fosse, facendo i sofistici, una sorta di organo posticcio, una res nullius che non appareteneva a nessuna delle forze vere in campo. Quindi un artificio. Quindi qualcosa di contrario al Dogma…

La Zentropa, la casa di produzione fondata da von Trier insieme al produttore Peter Aalbæk Jensen, nel 1992, ha presieduto all’emanazione di un altro manifesto, oltre il Dogma: quello del Puzzy Power, Puzzy sta per Pussy, passera, vagina o figa/fica in italiano. Il Potere della passera, nel 1997, metteva nero su bianco le coordinate astratte che si sarebbero trasformate in applicazioni pratiche sullo schermo, per realizzare film con scene di sesso esplicito a uso e consumo di un’utenza femminile. “We intend to produce a series of films that present sensuality (or sexually explicit material, if you like) in a way that appeals to women. To serve this end, a group of women have drawn up a statement on what women would like to see and what they would not like to see in sensual/pornographic movies. This statement is intended to be the “dogma” for Puzzy Power’s productions”.

La cosa si fa interessante – noi abbiamo costruito un dossier per capire cosa sia il desiderio femminile e in cosa si distanzi, se in qualcosa si distanzia, da quello maschile, nel cinema erotico. Concludevamo con una formula dubitativa, andatelo a rileggere. Mentre le cinque tizie (una sociologa, una giornalista, una modella, una produttrice, una psicologa) che hanno steso il Manifesto del Puzzy Power, avevano le idee molto chiare di cosa piacesse, in un film erotico, alle donne: deve esserci una trama (“Le singole sequenze devono essere legate in una catena logica di emozioni, fantasie, passioni”). Piacere e desiderio femminile devono governare il film, i sensi stimolati da un gioco di “titillamento”, distanza e vicinanza.

Il resto va trascritto: “The woman must be turned on, and her anticipation be built up into insurmountable lust, as the joys of anticipation are and will always be the greatest”. Il capitolo sul “visual style” è un po’ una fumisteria: gradite le immagini di corpi accarezzati, il nudo va bene e anche i dettagli dei genitali, ma il seminudo è più eccitante, “more erotic”. Nessun limite riguardo alla collocazione temporale delle storie; benvenuto lo humour (però ridere è una cosa e fare sesso un’altra). Niente è censurato – salvo che la donna sia rappresentata come oggetto di violenza contro la sua volontà.

Una sola cosa non va: “… oral sex scene where the woman is coerced to perform fellatio, her hair pulled hard, and come is squirted into her face”.

 

PUZZY POWER

Il canone del Puzzy Power si incarna per la prima volta in un film nel 1998: è Constance – in Italia in dvd: Constance il diario segreto –, diretto da Knud Vesterkov, la cui bio ci fa sapere che è del 1942, che ha studiato arte in mezzo mondo, Roma compresa, e che ha fondato un gruppo che lavorava nei video sperimentali, chiamato Trekanten. Constance è il resoconto in flashback delle avventure che capitano alla protagonista omonima (Anaïs, classe 1978, fino a quel momento ignota modella di nudo) una volta entrata nella casa e nella sfera d’azione di Lola, una bionda valkiria che ha evidentemente fatto le sue guerre, affidata ai mezzi di Katja Kean (classe 1968), la maggiore pornostar scandinava degli anni Novanta. Il film è un hard-core a tutti gli effetti, per chiamarlo col nome che ha, e quindi in quanto tale ci interessa solo fino a un certo punto.

Ma esiste Constance perché è esistito (o esistita?) Puzzy Power; e Puzzy Power esisteva in funzione della Zentropa; e la Zentropa c’era perché c’era Lars Von Trier, del quale oggi tutto il mondo torna a parlare per via di Nymphomaniac, in cui la dialettica tra porno e non porno è sugli scudi. E von Trier c’entrava col porno. Quindi Constance c’entra. Chiamasi: circolo vizioso.

Ora, è interessante considerare che la strategia del Puzzy Power, rispetto al porno tradizionale, si pone quasi all’opposto di quello che il Dogma predicava e razzolava rispetto al cinema normale. Se questo intendeva con un voto di castità rinunciare alla cancrena degli effetti superspeciali e alla tabe degli investimenti pantagruelici, il Puzzy Power voleva elevare di rango l’hard con degli standard più professionali, al netto di tutta la filosofia-fisiologia del piacere elencata nel manifesto di cui abbiamo dato conto. Insomma, affrancare il porno dallo squallore realizzativo, formale, che gli sarebbe connaturato, per sublimarlo – non sottilizziamo quale cinema porno: evidentemente questi danesi pensavano ai blue-movie nordici, al marcio che ci poteva essere in Danimarca.

Sta di fatto che Constance esita in qualcosa di molto simile a un film di Playboy channel e i manzi che esercitano le forze dei propri lombi con Anaïs e la Kean sono gente che arriva direttamente da quel milieu, vedi il protagonista Mark Duran, sirenetto di qualcosa legato appunto a Playboy.

Ma davvero un arnese come Constance dovrebbe arrivare a titillare le sinapsi femminili ripercuotendosi, per dirla grevemente con Benigni, sullo stimolo dell’ovaia?! Benedetti dal crisma Puzzy Power escono altri due hard, Pink prison, del 1999, e HotMen CoolBoyz del 2000, figlio a sua volta di un’ulteriore sottocasa, la Hot Men, varata con lo scopo di produrre film porno di carattere gay per un pubblico maschile. Il primo è un MIP (men in prison), con la Kean sempre protagonista, che scommette con un suo amante di riuscire ad entrare in un carcere di massima sicurezza – lei è una reporter – per intervistarne il misterioso direttore.

Non è al di là dell’immaginabile che tipo di servizio porti a casa. Nella scena migliore, alcuni erculei detenuti albini le fanno un mazzo tanto in un bagno di luce blu elettrica. C’è anche un lesbo alla fine, con tale Eva. L’artefice (sceneggiatura e regia) è Lisbeth Lynghøft, classe 1962.

HotMen CoolBoy lo ha diretto di nuovo Knud Vesterskov e l’expertise di chi ha pratica del settore conclude che no sia affatto male, anzi, dei tre hard discesi da Zentropa, è il migliore. Nonché quello che ha avuto i maggiori problemi di visibilità, perché fino al 2004 nessuno lo voleva: troppo eterodosso rispetto ai canoni tradizionali del porno-gay. Nello spazio di questi tre film, praticamente, si è aperta e conclusa la rivoluzione nell’hard che avrebbe dovuto avere come base la Danimarca, Copenaghen, la Zentropa e, in ultima analisi, von Trier. Puzzy Power, però, non ha chiuso i battenti…

 

ALL ABOUT ANNA

All about Anna, l’ultimo film prodotto da Puzzy Power nel 2005, è ciò che dà un senso all’esistenza del canone. Non c’entra niente con i tre porno-arty che abbiamo appena elencato e che sono e restano film da ghetto. Qui, l’esigenza di un plot con uno sviluppo, come da punto specifico del Manifesto, viene soddisfatta. Viene soddisfatta anche la necessità di restituire piacere e desiderio femminile in una narrazione articolata – frase che può darsi non voglia dire assolutamente nulla, ma nel film si percepisce che qualcosa del femminile avanza in primo piano e si fa apprezzare.

Banalmente, osserviamo che la regista è una donna, Jessica Nilsson, che le sceneggiatrici sono donne, Anya Aims e Loretta Fabiana, come la produttrice, Marcella Lindstad. L’intera forza creativa ha il segno della femminilità. E si avverte.

Gry Bay, la protagonista Anna, è una disegnatrice di costumi, danese, che ha scelto di vivere senza gli impicci dell’amore. Col sesso sì, ma senza la pietra di macina al collo del sentimento. Anche perché il suo ex, una specie di Apollo biondo, un giorno si è imbarcato su un battello ed è sparito non si sa dove nel mare del Nord. La prima scena di sesso interviene mentre Anna sta dipingendo i muri del suo nuovo appartamento insieme al suo attuale boyfriend: una sveltina, in piedi, che però fenomenologicamente non ha nulla del tecnicismo hard.

Ecco il punto: i rapporti sessuali, questo come quelli successivi di Anna con l’Apollo che riapparirà sulla scena o della coinquilina, mezza sciroccata, Camilla (Eileen Daly), riescono a non sembrare il fine ma naturali momenti di passaggio, punteggiature della frase in un discorso che va oltre l’avec ou sans penetration. Stiamo dicendo che il film non è male, che lo si vede con piacere – poi, per il piacere femminile passiamo la mano: per quello maschile la mano sta bene dove sta. La drammaturgia prevede anche uno spostamento dalla patria di Amleto a Parigi, dove la Bay atterra per un importante lavoro in un allestimento teatrale e si ritrova sempre qualcuno attaccato all’inguine, prima un attore e poi un’attrice della compagnia – ottimo cunnilungus: lo interpreta Ovidie, la pornostar femminista francese, autrice nel 2002 di un Porno Manifesto su cui sarebbe bello diffondersi ma ci sbanderebbe troppo dal seminato.

La morale finale è che ambire a vivere facendo a meno del sentimento, lascia insoddisfatti. Ma che l’insoddisfazione fa parte del gioco dell’esistenza e che la frase ultima non deve essere per forza “e vissero felici e contenti”, perché nessuno ha vissuto, vive e vivrà felice e contento. C’è il rischio – è chiaro e bisogna che si eviti il fraintendimento – di far passare per un compendio di Schopenhauer un dramma erotico – però dramma è troppo come dicitura, va smorzato – che mette comunque sul tavolo argomenti degni che ci si perda tempo a rifletterci e li sviluppa con senso della misura, dibattendosi tra legge del desiderio e quell’horror vacui che è connaturato all’Essere.

Gry Bay, biondina flessibile di fisico e con buone argomentazioni interpretative, va elogiata come scelta, perché spontanea, anche e soprattutto quando fa sesso: e la parola spontaneità riassume un po’ tutto il senso di All about Anna. Poi, naturalmente, tra simili prove orbitanti nella sfera di Von Trier e i grandi film – senza remore: i capolavori – in direzione dei quali ci stiamo muovendo per arrivare infine a penetrarli: Nymphomaniac e Antichrist, non va nemmeno perso il tempo di pensare e di scrivere che non c’è di mezzo il mare ma l’Oceano.