Il giallo in acido

Il giallo sessantottino, la variante “marinara”, le emulazioni di Clouzot e di Hitchcock
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La temperie sessantottina invade lo schermo tingendo anche il giallo di psichedelia e svariati sono gli esemplari che risentono in maniera sostanziale di quest’atmosfera. Escalation di Roberto Faenza, Vergogna schifosi di Mauro Severino o Colpo rovente di Piero Zuffi sono solo alcuni dei titoli che esplicano con chiarezza l’idea di questo cinema, venato di contestazione e influenzato dall’arte pop; ma non ci pare che attengano più di tanto al discorso da noi trattato, nonostante la loro saltuaria inclusione nelle panoramiche gialle. Più consona, invece, quella di un film come Col cuore in gola (1967) di Tinto Brass che, sull’onda di Blow Up di Michelangelo Antonioni, ne riprende ambientazione e spirito (con almeno una citazione esplicita: la seduta fotografica che si conclude in festa di sesso tra i due protagonisti) per dare vita a un film, se non completamente riuscito, di sicuro interesse. Si respira l’aria della nouvelle vague francese e Brass alterna piani fissi insistiti a un montaggio serrato e frammentario, a volte ricorrendo allo split-screen per scomporre l’immagine e contribuire a una visione caleidoscopica dell’intreccio. I due protagonisti, Jean-LouisTrintignant e Ewa Aulin, sono presenti (affiancati da una rediviva Gina Lollobrigida) anche nel coraggioso film di Giulio Questi dell’anno successivo, La morte ha fatto l’uovo, meno giallo del precedente ma più interessato a tracciare un amaro apologo sociale sulla società del consumo per mezzo di un intreccio che incuriosisce e non svela tutti i suoi misteri. Impossibile, infine, non includere in questa breve rassegna quel 5 bambole per la luna d’agosto che Mario Bava amava poco ma che rappresenta l’anello necessario tra il precedente Sei donne per l’assassino e il successivo Reazione a catena. I personaggi sono ancora una volta marionette di un macabro gioco a eliminazione che sa di risata nera, perfettamente accompagnato dal motivo vagamente dissonante che ritma il penzolare oscillante dei corpi nella cella frigorifera dopo ogni nuovo omicidio. Mentre altri registi riciclano storie e si adagiano su canovacci che traboccano noia e luoghi comuni, Bava si diverte a giocare con gli stilemi e i canoni del genere, per rovesciarli e sovvertirli in maniera irriverente e beffarda. Certo l’opera non è tra le sue migliori ed entrambi i film sopra citati gli sono da preferire, ma il regista dimostra di essere in grado, per mezzo della sua geniale creatività visiva, di risollevare le sorti di un giallo che in altre mani sarebbe facilmente riuscito disastroso.

Uno spazio a sé meritano quella manciata di pellicole che vedono un ristretto gruppo di persone raccolte su uno yacht spinto verso una deriva tanto geografica quanto morale. Si tratta, anche in questo caso, non tanto di gialli quanto di intrighi più o meno morbosi, inevitabilmente destinati alla conclusione drammatica – per lo stesso motivo riteniamo che debbano essere trattati in altra sede film solo marginalmente attinenti al genere come L’isola delle svedesi di Silvio Amadio o La stagione dei sensi di Massimo Franciosa, anch’essi caratterizzati da un ambientazione solare e balneare (un po’ come Istantanea per un delitto di Mario Imperoli nel decennio successivo). Come spesso accade all’interno del nostro cinema di genere, anche questo mini filone deriva con ogni probabilità da un prototipo estero di successo che ci pare possa essere identificato nel polanskiano Il coltello nell’acqua che, benché del ’62, arriva in Italia solo diversi anni dopo, in seguito al successo delle altre pellicole del regista di origine polacca. Sono almeno tre i titoli da fare: Top Sensation (1968) di Ottavio Alessi, Interrabang (1969) di Giuliano Biagetti e Ore di terrore (1969) di Guido Leoni. Il primo ha soprattutto il merito di vedere affiancate due regine del nostro cinema come Rosalba Neri e Edwige Fenech (celebre la scena lesbo a tre in cui le due “svezzano” la timida Eva Thulin): girato in due versioni, il film è, almeno in quella estera, piuttosto spinto per i tempi e pochi altri gialli del periodo osano tanto. Si veda anche solo la prolungata scena in cui la Fenech si lascia leccare tra le gambe da una capra selvatica, dove benché tutto (o quasi) sia lasciato all’immaginazione si ha comunque la sensazione di assistere a uno “spettacolo” oltre i limiti. Interrabang è senz’altro un film più riuscito (originale la soluzione finale che ribalta le attese dello spettatore), ma la pretenziosità di certi dialoghi e l’uso smodato dello zoom da parte del regista (come nemmeno Jesus Franco nei momenti più allucinati) lo rendono datato e poco digeribile a più di trent’anni di distanza. Da segnalare anche qui lo stuolo di belle attrici intente a prendere il sole con Umberto Orsini sulla prua della barca: Haydée Polytoff, Beba Loncar e Soshana Koen. Poco da dire invece sul meno noto dei tre, Ore di terrore, coproduzione italo-tedesca che merita di essere ricordato solo per la presenza di Karin Shubert. Resta da segnalare, a mo’ di curiosità, il fatto che anche il grande Orson Welles, proprio nello stesso periodo, si fosse interessato a un intreccio di questo tipo per il suo The Deep, tratto dal medesimo romanzo di Charles Williams (Dead Calm) che ha ispirato Ore 10: calma piatta di Philip Noyce. Non ci risulta che il film, con Jeanne Moreau e Michael Bryant, sia stato visto se non da pochi fortunati ma, ugualmente, non dubitiamo che il risultato sia di gran lunga superiore agli esemplari sopra elencati.

Due sono le scuole che dettano legge nel giallo degli anni’60: quella francese e quella hitchcockiana. Già altrove ci siamo dilungati sulle influenze rivestite da i capolavori del geniale maestro inglese e da un film seminale come I diabolici di Clouzot e in questa sede ci interessa solo tracciare una panoramica il più ampia possibile delle pellicole italiane che, più o meno esplicitamente, a quelle opere si rifanno. Dietro Il terzo occhio (1965) di Mino Guerrini si coglie chiaramente lo spettro di Hitch e del suo Psycho. I riferimenti al capolavoro del regista inglese sono molteplici: dalle modalità delle morti alla personalità del protagonista impersonato da Franco Nero, novello Norman Bates, impagliatore necrofilo succube di una possessiva figura materna. Per non dire del duplice ruolo interpretato da Erika Blanc, memore tanto di Psycho (l’attrice compare prima come vittima e poi nelle vesti della sorella della defunta), quanto di La donna che visse due volte. Guerrini è un regista di talento, ancora ingiustamente trascurato, e il film si eleva dalla media e merita di essere annoverato tra le cose migliori prodotte all’interno del genere in questo periodo. È risaputo che Joe D’Amato più avanti rileggerà la vicenda nella forma del più sanguinolento Buio Omega. Altrettanto partecipi di queste influenze sono il primo giallo di Lucio Fulci, Una sull’altra (1969), girato in trasferta americana in quel di San Francisco (medesima location del Vertigo hitchcockiano), e A doppia faccia di Riccardo Freda, dello stesso anno. Si tratta in entrambi i casi di buoni film, caratterizzati da adeguate interpretazioni (Jean Sorel, Marisa Mell e Elsa Martinelli nel primo, Klaus Kinski, Margaret Lee e Annabella Incontrera nel secondo) e girati con mano esperta. Venati da un sottile ma esplicito aspetto morboso (specie in senso lesbico), i film si fanno tuttora guardare con interesse, testimoni di una transizione verso il giallo sexy del decennio seguente. Inevitabili, poi, le filiazioni dal marchingegno tanto semplice quanto geniale di I diabolici. Il primo a raccogliere l’eredità del capolavoro francese è Romolo Guerrieri con Il dolce corpo di Deborah (1967), ma il regista non sfrutta appieno le potenzialità di partenza e il risultato è un giallo blando, diretto in maniera piuttosto ovvia e scontata. Il merito è soprattutto quello di stabilire Jean Sorel e Carrol Baker come protagonisti di primo piano all’interno del genere e la formula dell’ambigua relazione a tre come vincente anche in Italia. Il film ottiene un clamoroso successo e il primo a seguire la fortunata scia è Umberto Lenzi con una triade di pellicole dalla riuscita altalenante. Si parte con Orgasmo (1968) e il film non ha un attimo di cedimento per tutti i novanta e passa minuti della sua durata. La regia di Lenzi è accorta e sempre pronta a dare vita a inquadrature ricche e movimentate, in perfetta sintonia con le accurate scenografie della villa che ospita la triade di protagonisti, Lou Castel, Colette Descombes e Carrol Baker, vera carta vincente del film, in grado di creare una perfetta alchimia e splendidi nel favorire il clima di morbosa attrazione che impregna il film. Si tratta di una delle opere migliori del decennio all’interno del genere, sicuramente la più riuscita tra quelle partorite da noi sull’onda del classico francese. La stessa cosa non si può dire per il film successivo: Così dolce, così perversa (1969) perde per strada la compattezza del precedente e Lenzi, nonostante la partecipazione di ottimi attori (la “solita” Baker, Trintignant e Erika Blanc), sembra non disporre della stessa ricchezza espressiva che ha favorito gli ottimi risultati di Orgasmo. Si torna su alti livelli con il terzo e ultimo componente della “trilogia”, Paranoia (titolo che il regista avrebbe voluto già per il primo film), ennesima variante “alla francese” e ulteriore veicolo per il rilancio della bionda attrice americana che in questi film ha dato alcune tra le prove migliori della sua carriera. Ma i tempi sono maturi per un cambiamento: tutte le possibili variabili sono state percorse, i moventi esauriti e i colpevoli sono sempre più prevedibili. Non resta che stravolgere tutte le regole.