Il ciclo del Giustiziere della notte

Non fate incazzare Charles Bronson
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Per quale motivo Il giustiziere della notte (Death Wish), film del 1974 del veterano del b-movie Michael Winner, suscitò alla sua uscita reazioni tanto violente e disgustate da parte di una porzione non trascurabile di critica e opinione pubblica? Quale nervo scoperto era stato toccato? Quale ansa nascosta della cattiva coscienza di un Paese? Durante un incontro di presentazione dello splendido volume dedicato al cinema di David Wark Griffith, l’autore Paolo Cherchi Usai ha risposto alle domande circa l’ambiguità politica del regista, ritenuto un reazionario e un razzista, affermando che si trattava di un uomo incline a fidarsi della comunità piuttosto che della società. Ovvero di un cittadino incapace di riconoscersi nella cornice sociale (imposta) ma legato al proprio nucleo identitario: famiglia, quartiere, villaggio. Iniziare una riflessione su Il giustiziere della notte citando uno dei padri del cinema non deve sembrare un vezzo, perché il film di Michael Winner – un inglese trasferitosi negli Stati Uniti che finì a scrivere recensioni di ristoranti sul Sunday Times – sembra rilanciare un’ambiguità che da Griffith in poi percorre e incrocia l’identità del cinema popolare americano. L’ambiguità di cui si parla sembra discendere dalla ricerca di un’innocenza sfuggita di mano col progresso. Se Griffith, da uomo del proprio tempo, poteva rivendicare la nostalgia per un’America di frontiera, conquistata e fondata sulla comunità, l’analoga riflessione condotta da Winner (e di altri prima e dopo di lui, dai western di Boetticher a Rambo) sembra rimestare il fondo sedimentato della coscienza americana.

Il giustiziere della notte è dunque un film squallidamente retrogrado e intrinsecamente fascista come ce lo presentano le recensioni dell’epoca? È, come suggerisce Franco La Polla nel suo Il nuovo cinema americano (Marsilio, 1978), un’opera nata su di un «terreno reazionario»? Inutile nascondersi dietro il mantra ingenuo e spesso malfidato (lo si dice tanto di 300 quando di August Underground…) delle variazioni sul tema “un film è solo un film”. Un film rappresenta una prospettiva, uno sguardo anche politico sul mondo che è parte inscindibile della sua ricchezza e della sua importanza. In quest’ottica, Il giustiziere della notte – si parla, ovviamente, del primo capitolo della saga, perché per gli altri, come vedremo, il discorso cambierà radicalmente – è un film capace di colpire al cuore un’idea nostalgica più che reazionaria del vivere civile. Nella sua diffidenza circa l’efficienza della società (i poliziotti sono idioti, i cittadini distratti, le città claustrofobiche e pericolose), il film di Michael Winner rappresenta l’attualizzazione – non priva di forzature exploitation, s’intende – di una logica giustizialista (i buoni hanno il dovere morale di sconfiggere i cattivi) che ha ascendenze nobili, ad esempio, nel western fordiano. Il ricordo straniato, scomodo e ambiguo di un tempo in cui si poteva far da sé. D’altronde, in Sentieri selvaggi, Ethan Edwards non si aspetta che la polizia salvi la sua piccola Debbie dagli indiani.

Paul Kersey (Charles Bronson) è un ricco architetto di New York. Lavora in un importante studio e si è appena trasferito con la famiglia nella Grande Mela, dove spera di conquistare la propria fetta di sogno americano. Un giorno, però, un gruppo di malviventi assale la moglie e la figlia di Kersey, uccidendo la prima e lasciando la giovane Carol in uno stato di completa afasia. Dopo un viaggio in Arizona Kersey decide di vendicarsi e comincia a uccidere rapinatori, stupratori, scippatori e malviventi di ogni genere. Catturato dalla polizia durante l’ultimo dei suoi inseguimenti, viene rilasciato da un commissario che, pur riconoscendo di avere per le mani il vigilante che stava seminando morti in città, decide di non incarcerare un uomo messosi al servizio della comunità. Come accennato in precedenza, Paul Kersey è nel primo capitolo della saga tanto il conquistatore (di un west che non esiste) quanto il vigilante (di una città che lo ha emarginato). L’anno, il 1974, è lo stesso di La conversazione di Coppola, mentre Taxi Driver uscirà due anni più tardi. L’idea dello scontro insanabile tra la città e l’individuo è nell’aria nel cinema americano e Il giustiziere della notte ne è una declinazione brutale; il personaggio di Bronson, sul quale la narrazione si concentra in modo ossessivo e praticamente monofocale, è il corpo dell’ambiguità politica e morale del film. Da un lato, come detto, è il fantasma di un rough rider, che conquista la città (andandoci a vivere) per poi perderla (quando perde la moglie), dall’altro è, nascosto tra i fumi di New York, la scheggia impazzita di un’urbanizzazione incontrollabile. La risoluzione di questa tensione tra giustizialismo represso e nevrastenia urbana è costituita dal viaggio in Arizona di Kersey, che si reca nello stato di frontiera per sovrintendere a un progetto di edificazione. Ancora scosso dalla morte della moglie, Kersey sembra trovare nel paesaggio antico dei canyon («Qui ci piace avere spazio», gli confida il suo socio in Arizona), centrale nell’immaginario non solo cinematografico americano, una risposta alla perdita della propria identità: decide, come un rough rider, di riprendersi ciò che gli appartiene, riconquistando idealmente New York.

La seconda metà del film vede dunque Kersey caracollare instupidito per le strade di New York alla ricerca di malviventi da uccidere; la scelta è eminentemente operativa (uccidere per riempire il proprio vuoto), ma la disperazione dell’uomo lascia intendere una volontà di rimozione dalla società (un death wish, un desiderio di morte, appunto), raramente evidenziata in sede critica, laddove spesso ha prevalso l’interpretazione nettamente giustizialista. Insomma, per tornare alla domanda di apertura, Paul Kersey è davvero l’emanazione algida di un giustizialismo cieco e spietato? Alla luce della riflessione fin qui fatta, ci sembra di leggere nelle critiche riportate all’inizio della trattazione una nettezza controproducente ed eccessiva in tal senso. Kersey (e dunque il film, dal momento che Il giustiziere della notte è Kersey e Kersey è Charles Bronson) rappresenta qui una contraddizione tra l’America vecchia e l’America nuova. In senso cinematografico, perché è tanto Ethan Edwards quanto il Travis Bickle di Taxi Driver. In un’ottica più ampia perché ridurre a stereotipo reazionario il personaggio interpretato da Bronson significa evitare la questione posta dal film di Winner circa il disallineamento tra un progresso che divora e un passato che non accenna a passare.

Quasi dieci anni dopo il primo capitolo della saga, nel 1982, Michael Winner rimette mano al personaggio creato da Brian Garfield per dare due seguiti a Il giustiziere della notte, dando vita così a un franchise che avrà altri due episodi negli anni successivi. In Il giustiziere della notte 2, Paul Kersey si è trasferito a Los Angeles, dove ha trovato una compagna. Carol, la figlia traumatizzata dallo stupro subito nel primo episodio della serie, sta lentamente riacquistando fiducia in sé e capacità di comunicare con il mondo esterno. Un gruppo di criminali di strada, però, si introduce in casa di Kersey, uccidendo la governante messicana e rapendo Carol. Nel tentativo di sfuggire ai suoi rapitori, la ragazza precipita da una finestra, morendo. Kersey è dunque costretto a rivestire i panni di giustiziere per cercare gli assassini della figlia. Con Il giustiziere della notte 2 si consuma la frattura ideologica, politica, estetica e iconografica che condizionerà il resto della saga. Se, come visto, il primo capitolo ritraeva Kersey come un americano alienato, sospeso tra nostalgia per un’epoca che non aveva vissuto e manie claustrofobiche, con il secondo episodio tutto cambia. Sebbene ipotesi di rispecchiamento sociologico siano sempre azzardate, il fatto che nel 1982 il presidente americano sia Ronald Reagan, un ex cowboy (nei film, s’intende!) piuttosto propenso a propagandare la politica del pugno duro, sembra aver costituito un’influenza notevole sul lavoro di Winner. Kersey diventa un giustiziere, laddove prima sembrava subire questa condizione. Ne è prova il fatto che ne Il giustiziere della notte 2 l’uomo, come una specie di super eroe vendicativo, acquista degli abiti che indosserà solo quando si trova a pattugliare le strade. Paul Kersey subisce una trasformazione brutale e irreversibile finendo per impersonare quello stereotipo reazionario e nemmeno troppo velatamente fascista tratteggiato dai detrattori del primo capitolo. Qui ha una tagline per ogni omicidio commesso (la più famosa: «Credi in Gesù? Stai per incontrarlo…») e una risolutezza inattesa. Ha deciso: la vendetta è giusta (e giustificata).

Il giustiziere della notte 3 non cambia di molto le carte in tavola, se non nella direzione di un’ulteriore estremizzazione della nuova natura di supervigilante di Kersey. Qui l’uomo viene accusato dell’omicidio di un amico, ucciso invece dai soliti malviventi. Kersey viene presto scagionato, ma in prigione si è fatto dei nemici, una pericolosa gang di sbandati che terrorizza un quartiere periferico di Los Angeles. Con la complicità di un poliziotto accondiscendente l’uomo riuscirà a sgominare la banda di criminali e a riportare la tranquillità nell’isolato. La trasformazione è compiuta: Paul Kersey è un Superman iperviolento e decisamente reazionario. La trama si riduce a pretesto per le uccisioni e il film si trasforma presto in una specie di war movie urbano con palazzi divelti dalle granate e raffiche di mitra che falcidiano schiere di motociclisti. Se il secondo episodio conteneva momenti effettivamente disturbanti (la violenza sessuale sulla cameriera, parzialmente tagliata in alcune edizioni), Il giustiziere della notte 3 è invece prossimo al delirio da fumetto ipercinetico. I cattivi sono sempre più archetipi stilizzati delle paure dell’America in pieno edonismo reaganiano (il nero dei sobborghi, il drogato, lo sbandato), i buoni sono comuni cittadini sobillati da Kersey, il cui scopo sembra quello di armare ogni famiglia contro l’offensiva dei criminali. Con il terzo capitolo la saga di Death Wish sembra dunque intraprendere la deriva tendenzialmente ludica del cinema di Bronson dell’epoca (si pensi a Professione giustiziere, 1984, o La legge di Murphy, 1986), allineandosi a un cinema popolare certamente efficace dal punto di vista spettacolare ma incapace di sottrarsi all’egemonia di un personaggio, quello bronsoniano, trasformatosi definitivamente nello stereotipo della giustizia do it yourself.

Il giustiziere della notte 4 esce nel 1987, nel periodo di maggior esposizione di Charles Bronson negli anni Ottanta. L’industria del cinema action ha costi contenuti e incassi stellari e Bronson è uno dei suoi testimonial più conosciuti. Michael Winner abbandona la serie, lasciando il posto a J. Lee Thompson, uno dei principali artefici del successo di Charles Bronson nel milieu dei b-movie d’azione degli anni Ottanta. Regista attivo sin dagli anni Cinquanta (con titoli come Penitenziario braccio femminile e Sposi in rodaggio) J. Lee Thompson firmerà negli anni Ottanta sei pellicole che avranno per protagonista Bronson. Il giustiziere della notte 4, purtroppo, non è tra le migliori. Kersey vive ancora a Los Angeles, questa volta è fidanzato con Karen (Kay Lenz), giovane reporter di un quotidiano locale. Quando Erica, la figlia di Karen, muore in seguito a un’overdose di cocaina, Kersey si mette sulle tracce degli spacciatori. Reclutato da un anziano magnate deciso a sgominare il traffico di droga in città, Kersey riuscirà a uccidere i principali narcotrafficanti di Los Angeles, scoprendo però di essere stato complice involontario di una guerra per la supremazia sullo spaccio di droga. La vendetta sarà dunque l’unica arma a sua disposizione. In un contesto che rafforza al parossismo la già grottesca invulnerabilità di Bronson (qui gli sparano da ogni parte ma lui non ne risente), Il giustiziere della notte 4 trasforma la figura del vigilante in quella, ben più, accettabile di difensore dei deboli contro i criminali “veri”. I tempi sono evidentemente cambiati e sparare alle spalle a uno scippatore di colore non è più cosa che si possa mostrare in un film. Kersey si schiera dunque contro la piaga della droga, sgominando intere famiglie mafiose per poi vendicarsi, in un finale che sfiora la comicità, dell’assassino della sua compagna facendolo letteralmente esplodere con un colpo di bazooka. La piaga dei giovani corrotti dalla droga, uno degli argomenti favoriti del cinema action degli anni Ottanta è qui, come in molti altri casi, un pretesto per il dispiegarsi incerto di una trama che non fa esultare per originalità né coerenza interna.

Il giustiziere della notte 5 chiude, nel 1994, la saga. Firmato da Allan A. Goldstein, specialista di action movies per la TV, il film può ricordare in effetti una delle molte produzioni televisive dell’epoca. Ambientato nel mondo della moda, Il giustiziere della notte 5 racconta della guerra tra il giustiziere e un clan mafioso guidato dall’ex marito dell’attuale compagna di Kersey, una stilista. Nonostante siano passati sette anni, le differenze con il film precedente sono minime e rintracciabili soprattutto in una regia aggiornata ai tempi (un paio di ralenti, un montaggio più frenetico, una fotografia leggermente meno flou). Bronson, per converso, non muta di una virgola la propria interpretazione e continua a snocciolare frasi apodittiche prima di far parlare il fucile. Questa volta il principale bersaglio del furore di Kersey è una famiglia mafiosa caratterizzata dai peggiori stereotipi sugli italo americani. Curioso notare come in più di una sequenza, in continuità con una certa reazionarietà fattasi via via più sotterranea nella seria, si alluda alla possibile omosessualità della nemesi di Kersey.

La saga de Il giustiziere della notte ha lasciato un solco netto nel cinema d’azione americano, caratterizzandone la traiettoria evolutiva e contribuendo a plasmare la figura dell’action hero, status riservato a pochi (Bronson, Schwarzenegger, Van Damme) e oggi conteso da attori come Jason Statham e Clive Owen. Death Sentence, film diretto da James Wan nel 2007, è tratto, come il primo Death Wish, da un romanzo di Brian Garfield e rilancia con evidente riferimento a Il giustiziere della notte le ossessioni (famiglia, comunità, giustizia) del primo capitolo della saga diretta da Winner. Ancora, Charlie’s Death Wish, prodotto straight to DVD firmato dallo specialista Jeff Leroy, è in gran parte un incrocio tra un’imitazione e una parodia della saga di Il giustiziere della notte. La protagonista Charlie (Phoebe Dollar, anche sceneggiatrice del film) cerca vendetta per la morte della sorella. Il film è pochissima cosa se si esclude la sua valenza strettamente weird, dal momento che mette insieme un cast di sbandati comprendente Tracii Guns, Lemmy Kilmister e la porn icon Ron Jeremy, che stranamente tiene i pantaloni per tutta la durata del racconto.