I thriller di Armando Crispino

L'epilessia della visione
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Occhi demoniaci, lampi solari in negativo: se c’è un qualcosa che di primo acchito contraddistingue i thriller di Armando Crispino, questo qualcosa è una sorta di marchio di fabbrica, un timbro che il regista biellese appone metodicamente a certificare l’originalità della sua opera.

Non staremo qui a tratteggiare i diversi viraggi del giallo italiano tra i Sessanta ed i Settanta, le sue contaminazioni, i guizzi autoriali piuttosto che i prodotti in serie a scopo alimentare. Quello che ci interessa è centrare l’attenzione su ciò che i thriller di Armando Crispino hanno volutamente costruito da un punto di vista prima formale e, consequenzialmente, contenutistico (sì, è questo l’ordine), con il dittico formato da L’etrusco uccide ancora (1972) e Macchie solari (1975). E “costruire” qualcosa, nel senso di definire una poetica personale, non è per niente scontato, anzi. Nel variegato mondo del thriller italiano, tra rimandi a un universo animale utilizzato come metafora fantastico-surreale, turbe psicanalitiche e morbosità erotico-affettive assemblate in artigianali catene di montaggio, è innegabile che il corpus crispiniano risulti, a prima vista, dotato di una originalità contenutistico-ambientale che emerge dalla melma paludosa dei generi. E difatti in L’etrusco uccide ancora una cornice archeologica e l’ambientazione non urbana costituiscono una specie di limbo funzionale al coté fantastico che sembra assumere la vicenda, che vede l’etruscologo Jason Porter (Alex Cord) invischiato nel triangolo amoroso con la sua ex-compagna Myra Shelton (Samantha Eggar), adesso in coppia col celebre direttore d’orchestra Nikos Samarakis (John Marley); mentre in Macchie solari la centralità di un ipotetico condizionamento di forze della Natura sulla psiche umana trasferisce in un contesto tutto nuovo le tensioni che regolano abitualmente le relazioni tra la dottoressa Simona Sanna (Mismy Farmer), il suo amante/compagno Edgardo (Ray Lovelock), Paul Lennox (Barry Primus) e gli altri personaggi a loro vicini (legati tra loro da una serie di suicidi/omicidi). E i rapporti tra questi e la realtà con cui, confusamente, si interfacciano.

Crispino ha idee chiare, strutturate: l’originalità delle atmosfere si appoggia in entrambi i casi a uno script semplice e solido. L’impianto generale delle due opere infatti, scritte dal regista insieme al sodale Lucio Battistrada, segue uno schema preciso, con poche ma decisive varianti: su di un rapporto conflittuale genitore-figlio, che sfocia nel delitto, è avvinghiato il destino di un secondo personaggio, il “cardine” attorno a cui sono collegate le diverse microstorie che compongono il quadro, legato in qualche modo al genitore od al figlio. Un terzo personaggio, la “variabile imprevedibile”, nella doppia veste di vittima e risolutore, è legato, suo malgrado, a doppio filo col personaggio-cardine e, di conseguenza, a tutto il resto. Quest’ossatura e l’universo crispiniano che gli gira intorno si definiscono attraverso vari livelli caratterizzati da altrettante dicotomie: la prima, più immediatamente intuibile, è quella tra fantastico e reale. Sia in L’etrusco uccide ancora sia, in minor misura, in Macchie solari, l’intenzione del regista è quella di spingere al massimo l’elemento fantastico (la possibile reincarnazione del demone etrusco Tuchulcha a giustificare le efferatezze su giovani coppie in amore, piuttosto che le forze oscure della Natura che alimenterebbero la tendenza al suicidio ingiustificato) per creare un contrasto con la realtà, spiazzante per lo spettatore. Al culmine di questa tendenza lo stacco verso il reale è posto in essere dalla “variabile imprevedibile”, vero alter-ego dell’effettivo colpevole dei delitti. Questa specularità è rafforzata dalla considerevole dose di instabilità, psichica o emotiva, che Jason Porter in L’etrusco e padre Paul Lennox in Macchie solari condividono con gli assassini e che consentono loro di essere tramite privilegiato tra fantasiose ipotesi di maledizioni ed influssi ancestrali e precise evidenze empiriche di rapporti causa-effetto.

In L’etrusco uccide ancora Jason Porter, archeologo (ex)alcolizzato, diventa il principale indiziato dalla polizia a causa del ritrovamento dell’arma del delitto (l’asta della sua sonda fotografica) e di un registratore, sempre di sua proprietà e sottrattogli insieme all’asta, utilizzato dall’assassino per riprodurre durante le uccisioni il Requiem di Verdi, e per questo è costretto a ricostruire in prima persona l’accaduto, anche dopo essere stato scagionato; padre Lennox, ex pilota con sulla coscienza diverse decine di morti dopo un incidente automobilistico, e fratello di una delle vittime, vittima a sua volta di attacchi epilettici in conseguenza di quel trauma, risolve da solo l’intrigo che si cela dietro i suicidi apparenti di persone che ruotano attorno all’esistenza della dottoressa Sanna. L’approccio scientifico alla realtà rappresentato da Jason (archeologo) e da Simona (medico), che con Paul forma una coppia indissolubile fondendo quasi in un unica entità, per ruolo ed instabilità emotiva, ciò che in L’etrusco sono ancora caratteri ben distinti (il “cardine” Myra e la “variabile” Jason), introduce un ulteriore livello di lettura attraverso una dicotomia arte-scienza che, sorprendentemente, vede il prevalere della seconda sulla prima in una logica che premia il raziocinio vacillante di Jason e Simona contro la bizzarria musicale della famiglia Samarakis e l’arte fotografica fine a sé stessa di Edgardo: non a caso sono molto più “riuscite” le foto dei cadaveri per la tesi di specializzazione di Simona o le istantanee di tortura esposte al museo piuttosto che gli anonimi, irreali, scorci di monumenti catturati da Edgardo (che non riusciamo neppure a vedere), con l’eccezione originale della sequenza di foto/diapositive erotiche che mettono Simona, bionda dalle reminiscenze hitchcockiane, una seconda volta di fronte ai propri demoni (“Vorrei essere una di quelle…”, afferma, prima del tentativo di fellatio, subito abortito, basato sullo storyboard delle diapositive in montaggio alternato), dopo le sequenze oniriche del risveglio dei cadaveri in obitorio, in cui Amore e Morte paiono prendersi beffe della sua psiche.

“L’arte è sempre inferiore alla realtà, anche nell’orrore e nel sadismo…”, sono le parole di Daniela (alcolizzata, ex amante di Gianni Sanna) a Simona, al suo arrivo al museo della tortura: l’universo crispiniano si prospetta scientifico ma instabile, (ir)realistico ma sfocato, multiplo (l’Igor Samarakis bambino e quello adulto, la parrucca rossa di Daniela che doppia l’immagine di Betty Lennox defunta), continuamente sballottato tra interno ed esterno, l’ultima fondamentale dicotomia crispiniana, così importante che coinvolge la stessa grammatica cinematografica del regista piemontese. Diventa fondamentale sottolineare che, a dispetto dello scioglimento dell’intreccio, banale nonostante le premesse, la vera eredità crispiniana sta nella costruzione delle scene, nella complessità del montaggio, nella perfetta corrispondenza tra impianto filmico e derive psichiche dei protagonisti, nella forma che si fa contenuto: in entrambi i film, a totale eliminazione dei tempi morti, partecipa un montaggio serrato, rapidissimo, un montaggio alternato che comprende flashback e flashforward, che aumenta esponenzialmente a ridosso delle scene più violente, marchiate dai fotogrammi di Tuchulcha e delle macchie solari. Insieme a cambi repentini di luoghi e situazioni, questo parossismo di immagini rispecchia le patologie dei protagonisti, l’alcolismo ed il delirium tremens di Jason (“…ma davvero non ricordi niente Jason?”), l’epilessia di Paul, le fobie di Simona, ma anche gli scatti d’ira di Nikos Samarakis, la brama sessuale dell’infermiere all’obitorio, l’istinto omicida di Igor Samarakis (Carlo De Mejo) e la sua incapacità di tollerare persino la propria felicità di coppia.

Esterno ed interno quindi, realtà e psiche, struttura filmica e recessi cerebrali: in L’etrusco uccide ancora la penetrazione della sonda fotografica di Jason nei recessi inviolati della tomba etrusca è chiaramente metafora di un tentativo di penetrare la mente umana, la mente dell’assassino, per vedervi all’interno, così come vi è un continuo profanare l’interno di spazi oscuri, incustoditi, la stalla della villa Samarakis, i magazzini del teatro a Spoleto, la chiesa nel tragico finale; in Macchie solari, che inizia come L’etrusco finisce, con un suicidio, e in un certo senso lo omaggia, nella riproposizione di una costruzione fittizia della “scena del delitto”, coi corpi disposti ad arte, Simona ed i suoi colleghi rivoltano materialmente l’interno dei cadaveri (uno dei quali, sui tavoli dell’obitorio, potrebbe essere lo stesso Igor Samarakis), sezionandoli, svuotandoli degli organi, e ancora, durante il film, scene di penetrazioni in abitazioni oscure, altrui (il ritrovamento del portiere, impiccato nel bagno di casa, la ricerca della Bibbia da parte dello zio di Simona a casa del fratello). La poetica crispiniana è questa, un itinerario incerto in una realtà resa relativa dalle alterazioni subite dai protagonisti (per tutte, ancora le visioni di Simona in obitorio, moltiplicate e fuori fuoco, coi cadaveri che copulano o osservano, oppure la scomposizione della realtà che si profila davanti a Igor, riflessa nei frammenti di vetro della teca sacra) e nella quale queste alterazioni sono restituite dai movimenti di macchina, dalle tecniche di scomposizione dell’immagine e dal rapido susseguirsi dei fotogrammi, pronti a svelare la moltiplicazione dei piani della realtà, l’interiorità dell’Homo Crispinianus.