I gialli alla Gastaldi

Ernesto Gastaldi sceneggiatore eclettico di thriller, sia nel periodo pre- sia nel periodo post Argento
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L’“uomo dietro le quinte” nei maggiori esempi di thriller all’italiana della prima metà degli anni Settanta si chiama Ernesto Gastaldi e dalla sua penna provengono, tanto per essere chiari, gli eterogenei gialli di Sergio Martino e il celebre trittico di Luciano Ercoli: Le foto proibite di una signora perbene, La morte cammina con i tacchi alti e La morte accarezza a mezzanotte. Questo è l’uomo, la cui impronta nella storia del genere è netta almeno quanto quella di Argento, seppure non allo stesso modo rivoluzionaria. Gastaldi architetta il “giallo” in una maniera tradizionale, all’anglosassone, secondo i criteri del whodunit, ma le radici dei suoi script affondano quasi sempre in un substrato di erotismo dai toni morbosi, che sul finire degli anni Sessanta rappresentava il portato genuinamente mediterraneo al genere. Dopo aver prefigurato il topos argentiano del trauma infantile come fomite di follia assassina con Libido (film piccolo e non bellissimo ma di sicuro importante), che dirige oltre a scriverlo, Gastaldi si applica al giallo di puro intrigo sotto l’egida produttiva dell’amico Luciano Martino: la sinergia è subito feconda di due titoli di rilievo come Il dolce corpo di Deborah, di Romolo Guerrieri e Così dolce, così perversa, di Umberto Lenzi, pietre d’angolo dell’allora erigendo edificio del (sexy) thriller italiano, che di lì a pochissimo vacillerà sotto i colpi del ciclone Argento.

Ancora omogeneo a queste pellicole del vecchio corso è il primo (1970) dei film di Gastaldi per Luciano Ercoli: Le foto proibite di una signora perbene, che sarebbero quelle con cui Dagmar Lassander viene ricattata sessualmente da un individuo in grado di provare che il marito di lei è un omicida. Dietro l’inghippo c’è il consorte – è ovvio – e il movente è una ricca assicurazione sulla vita che però l’avido non intascherà. Ci si chiede dove avrebbe condotto questa linea tematica senza il soffio vivificatore dell’Uccello; e per rispondersi basta guardare agli sparsi rimasugli del giallo ereditario che sopravvivono negli anni Settanta: film monotoni e faticosi sul tipo di Il baco da seta, di Mario Sequi o Il diavolo a sette facce, di Osvaldo Civirani (con Hilton onnipresente e nel secondo la Baker in un doppio ruolo); o coproduzioni spagnole, sciape come In fondo alla piscina, di Eugenio Martin (da un racconto antologizzato nell’Hitchcock Mistery Magazine) o più saporose come La volpe dalla coda di velluto, di José Maria Forqué e Doppia coppia con regina, di Julio Buchs, entrambi quadrilateri mefistofelici ben congegnati che mettono anche al fuoco carni femminili di prima scelta, Marisa Mell, Rossana Yanni, Analia Gadé, Patrizia Adiutori, Helga Liné. Poi, però, Gastaldi scrive Lo strano vizio della signora Wardh, di Sergio Martino, che ha ormai alle spalle il primo Argento e, con furbizia, ne tiene buona la lezione, puntando tuttavia su una forte identità come thriller erotico, in cui elemento di punta sono le esplosive grazie di Edwige Fenech. Lo schema del film, più volte ammesso sia da sceneggiatore sia da regista, è memore di quel Diabolici di Clouzot che aveva steso la sua ombra lunga sulla maggior parte dei gialli italiani di fine anni Sessanta, ma con una variante: all’ambigua coppia di donne che ordivano l’intrigo nel film francese, corrisponde adesso una triangolazione maschile in odore di “gayezza”, che punta a sbarazzarsi della moglie di uno di essi per accaparrarsene l’assicurazione sulla vita (originalità sì, ma fino a un certo punto…). La parte “alla Argento” in cui impazza il maniaco rasoiatore ha tutta la faccia di un’aggiunta in corsa, ma tant’è: d’altro canto un giorno Argento racconterà di un assassino che usa un serial killer come paravento per i suoi crimini ignorando forse di avere un debito con Gastaldi, che codificò una situazione analoga proprio nello Strano vizio.

Visto il successo del film, i fratelli Martino battono il ferro finché è caldo e si danno a produrre in questa direzione, mentre dal canto suo anche Luciano Ercoli insegue lo sceneggiatore e si fa scrivere, per poi dirigerla, una diade di thriller del “nuovo corso”: La morte cammina con i tacchi alti e La morte accarezza a mezzanotte. Susan Scott, consorte di Ercoli, è in entrambi i film la protagonista; soltanto che nel primo, più esplicitamente genuflesso al modello Argento in diverse soluzioni formali (i dettagli ossessionanti, l’assassino con voce deformata – da un laringofono -), con un colpo di scena che a qualcuno ricorda Psycho, l’attrice scompare, ammazzata, a metà film e tutte le carte in tavola si rimescolano. Sotto c’è una storia di ladri di gioielli, quindi movente e solutio restano nella tradizione degli script “gastaldiani”, però bisogna dare atto a Luciano Ercoli di avere girato un thriller con i fiocchi, con ottimo bilanciamento degli elementi erotici e di quelli di tensione. E sembra non si possa non dire – forse invocando l’inconscio collettivo – che una scena di voyeurismo con telelescopio è stata ripresa pari pari da Brian De Palma in Omicidio a luci rosse. Il secondo, La morte accarezza a mezzanotte, è invece una sceneggiatura che si regge su una trovata pseudoscientifica, secondo la miglior tradizione della trilogia zoologica di Argento: nella fattispecie, un esperimento con una sostanza allucinogena durante il quale la fotomodella che si è prestata come cavia ha la percezione di un efferato delitto. Si pensa al paranormale ma, a scanso di ogni logica, la ragazza ha realmente visto l’omicidio, il cui responsabile è il suo fidanzato, pedina di un losco traffico di droga, come si svelerà. Il film è pieno di ideacce, tra cui quella del killer che si aggira calzando un guanto artigliato, e anche se oggi dimostra tutti gli anni che ha, scorre via senza intoppi e con qualche buon sussulto, tra le ricche forme della Scott e le bellezze d’asino dei fusti Simon Andreu e Pietro Martellanz in trasferta dai western. I gialli con Susan fanno quasi storia a sé: la si ritrova in una sorta di terzo capitolo apocrifo dei due film di Ercoli, Passi di danza su una lama di rasoio – di cui già si è detto – ed è anche nel cast di Rivelazioni di un maniaco sessuale al capo della squadra mobile (1972) di Roberto Bianchi Montero, piuttosto affascinante e coinvolgente per l’eccesso cui si spingono sia le situazioni sanguinose, che gravitano intorno ad un maniaco vindice di adulterii – e tradito da un rumore di fondo durante una telefonata, a mo’ dell’Uccello -, sia quelle erotiche, pertinenza di un’antologia delle più belle dive del genere: oltre alla Scott, Sylva Koscina, Annabella Incontrera, Femi Benussi e Krista Nell. E che dire del commissario Farley Granger che prima di fermare l’assassino lascia che questi gli uccida la moglie fedifraga?

Intanto (1972) Gastaldi ha scritto per Sergio Martino La coda dello scorpione e Tutti i colori del buio, altri due gialli fortemente diversificati; nel primo caso (da un soggetto di Eduardo Maria Brochero) si privilegia un inghippo classico (e noiosetto anzichenò, anche se l’esecuzione di Martino è buona e almeno nella sequenza della morte di Janine Reynaud ottima), dove in lizza c’è una golosa polizza sulla vita che in diversi lottano per riscuotere: una moglie traditrice, un’amante malavitosa e un insospettabile investigatore delle assicurazioni – George Hilton è il “diabolico” – che passa alle vie di fatto e sparpaglia cadaveri in quel di Atene, venendo però alla fine scoperto da una bella reporter e freddato dalla polizia. Alcuni critici hanno sentito nel successivo giallo di Alfonso Brescia Ragazza tutta nuda assassinata nel parco (che in lavorazione dicono avesse il curioso titolo Quella maledetta casa vicino alla fungaia) odore di plagio, in quanto pure lì l’assassino è un investigatore delle assicurazioni; altri hanno ardito ancora di più, sospettando che persino il cinese Chang Tung Man, regista di Killer in the Dark (in Italia: L’emulo di Bruce Lee) (1975), abbia avuto presente la pellicola di Martino. Tutti i colori del buio – bellissimo titolo ripreso da quello di un “Urania” di quel periodo – ha l’impianto di un suggestivo film gotico-complottista e funziona magnificamente finché si mantiene sul registro, (il cui modello principe è Polanski), soffrendo invece del salvataggio in corner nel razionale che banalizza il tutto con un finalino da giallo ereditario. Come già dicemmo. Comunque, gli incubi che attanagliano Edwige Fenech sono un perfetto esempio di quella tensione al surrealismo che è qualità specifica, e inimitabile, del thriller italiano. Anche di Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave, sceneggiato da Gastaldi e Sauro Scovolini partendo dal Gatto nero di Edgar Allan Poe, si è parlato a proposito dei “gotici” e qui va soltanto aggiunto che di rado il nostro giallo ha avuto toni così splendidamente occidui e crepuscolari: viene in mente solo Un bianco vestito per Marialé per un simile senso di consunzione e di morte.

È interessante notare, a questo punto, come il distacco da moduli argentiani si sia ormai compiuto nelle produzioni Dania, che puntano a un erotico sempre più morboso e ad atmosfere decadenti come temperie dei propri gialli e ottengono così i risultati migliori. I corpi presentano tracce di violenza carnale (1973) è nello stesso tempo il miglior film di Martino e il miglior thriller della filiera erotica che stiamo considerando. Niente più logiche criminali complesse e piani luciferini per impadronirsi di eredità, ma un plot molto lineare, in cui un professore universitario, traumatizzato da un incidente occorso al fratello e divenuto impotente, si dedica al massacro delle sue studentesse alle quali è collegato da un giro di foto porno. L’intreccio termina praticamente qui, perché da metà film il maniaco, invisibile e sanguinario oltre ogni dire, si mette ad assediare cinque ragazze che hanno cercato scampo agli eccidi in una villa isolata, e la situazione, altamente claustrofobica, diventa il cuore pulsante del racconto. L’onnipotenza dell’assassino è teorizzata da tutto il giallo all’italiana, però nei Corpi – che all’estero conoscono con il titolo più che mai appropriato Torso – la sua presenza ubiqua e panica, quasi si trattasse di un entità sovrannaturale, è già quella dei grandi protagonisti, con alone di demoni, dello slasher USA. La riserva di caccia del mostro è costituita da attrici molto ben scelte: c’è Suzy Kendall transfuga dall’Uccello che deve assistere allo smembramento dei corpi delle amiche, c’è la torbida Tina Aumont e Angela Covello e Carla Brait spiate, mentre lesbicano, da un minorato che l’assassino massacra subito dopo; e c’è la splendida debuttante Barbara Marzano che danza nuda in una “comune”, all’esterno della quale Cristina Airoldi viene finita in una surreale palude inondata di luce lunare.