Homeland

Homeland, la fine dell’innocenza in una serie televisiva mirabile che mette in forse qualunque certezza assoluta in materia di terrorismo
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La fine dell’innocenza in una serie televisiva mirabile che mette in forse qualunque certezza assoluta in materia di terrorismo. E di umanità…

Carrie Mathison (Claire Danes), agente della Cia specializzata in Medio Oriente, è incaricata di sventare un piano terroristico che ha come pedina un marine rimasto otto anni ostaggio in Iraq, Nicholas Brody (Damian Lewis). Le sue fonti danno per certo che un marine americano si sia convertito all’Islam e giochi quindi come spia; lei pensa proprio sia Brody, che nel frattempo scala i vertici del potere politico grazie alla sua valenza simbolica in guerra e in patria. Il destino si metterà in mezzo, e fra i due si instaurerà una complessa relazione. Da questi elementi si dipana la trama di Homeland (quattro stagioni dal 2011 a oggi), ispirato all’israeliano Hatufium: ma mentre lì si raccontava di tre soldati, di ritorno dalla prigionia, le cui testimonianze mostrano incongruenze e vengono quindi messi sotto osservazione dalla Agenzia, nel serial americano la questione è più complessa e sottile. Inquietante e ambigua come il protagonista maschile, malata e disturbante come la donna che gli dà la caccia, Homeland è la storia di un’ossessione personale che si tramuta, e diventa simbolo e metafora, nell’ossessione di un intero Paese, un’intera nazione, un’intera onda culturale. Dal principio: l’11 settembre ha segnato, al pari della strage della Famiglia Manson e della guerra in Vietnam, gli Stati Uniti, la loro cultura e il loro immaginario – cinematografico e letterario – più di quanto ognuno sia forse disposto ad ammettere. Non sono crollate solo le Torri, ma anche un intero muro di protezione che nella collettività divideva nettamente la Patria (il Bene supremo) dallo straniero (il Male): e dopo Bin Laden, nessun uomo mediorientale riuscirà mai più a essere guardato senza sospetto.

La potenza e la valenza dell’attacco, e della conseguente (ri)caduta interna, sono da valutare tanto meglio quanto più sottile e strisciante è stato condotto l’assalto agli Stati Uniti, che hanno coltivato una serpe in seno fino a quando il morso non ha diffuso il veleno. Una volta, il cinema era il sonno che generava mostri (da Rosemary’s Baby a Charles Manson, dagli zombi di Romero al Vietnam), oggi improvvisamente – ma non troppo – è il tubo catodico a stelle e strisce a funzionare da specchio oscuro che rigurgita indietro ansie e paure: da qui nasce nella mente di Joel Surnow l’adrenalinico 24, che rilegge il terrorismo all’ombra delle Twin Towers; e da 24 viene fuori, dopo il relativo tramonto di questa serie e la sua chiusura, proprio Homeland, che declina l’argomento una volta per tutte con sensibilità postmoderna, infarcita di psicopatologie tutte quotidiane. È il Dubbio, oggi, il nemico più potente della ragione. Che Nicholas Brody sia un eroe o un terrorista, lui soldato dilaniato dalla verità; che sia pazza o Cassandra Carrie, sono loro due, fragili e instabili vittime e contemporaneamente carnefici della/per la Patria, gli unici a dire la verità sulla guerra. Non esistono buoni o cattivi, ma soltanto punti di vista: questo è il centro focale intorno al quale si dipana la trama, e il punto nevralgico della “poetica” sul terrorismo di Homeland. Anche perché forse il suo pregio ideologico più forte sta nel far si che il meccanismo di identificazione dello spettatore non scatti con il personaggio principale, che in fin dei conti dovrebbe essere l’“eroe”: a ben guardare Carrie Mathison, protagonista  incredibilmente resa e scritta, resta pur sempre un’invasata, agente frustrata e infoiata che addirittura, all’inizio della quarta stagione, sembra cedere a mostruosi, questi sì, impulsi infanticidi. Quanto è invece facile empatizzare per Brody? Per tutta la prima stagione, la sua prigionia viene descritta in maniera brutale, fra torture fisiche e psicologiche; ma c’è poi un passaggio, nella seconda, verso argomentazioni più morbide, che incredibilmente trasformano pian piano tutta la trama e l’essenza stessa della storia.

Finite le torture, provato nel fisico, Brody è ospite nella casa proprio del suo (ex) carnefice Abu Nazir, vivendo con lui e la sua famiglia e assimilando la loro umanità, almeno finché un giorno il palazzo non viene distrutto e lo stesso Brody assiste impotente a un bombardamento per mano dei droni da guerra americani che uccidono senza pietà anche donne e bambini (e l’attacco sarà insabbiato dal governo statunitense). È così che da “cattivo” Brody diventa il nodo emotivo del serial: prima soldato, poi traditore e terrorista, poi ancora redento ma con dubbi; dagli occhi sfuggenti del bravissimo Lewis emergerà per tutte le 36 puntate delle prime tre stagioni un fuoco ghiacciato che getta ombre ovunque si posi il suo sguardo, finché alla fine si immolerà per ideali forse più alti della semplice “patria” (qualunque essa sia), rendendolo l’unico personaggio ad essere stretto nella morsa fra i due Paesi in lotta (Stati Uniti e Iraq), idealmente dilaniato dalla fedeltà alla sua nazione o al popolo che ha visto soffrire e morire, schiacciato da un nemico infinitamente più potente e per questo arrogante e, alla fine, invincibile. È poi interessante notare come il percorso di Brody attraversi anche il passaggio di Fede.

In Homeland, quando si parla di Medio Oriente, di guerra e di CIA, l’aspetto della Fede non viene mai toccato; ma viene reso invece passaggio cruciale nel percorso umano di Brody, specialmente quando la figlia, uno dei personaggi più coinvolti nel suo cambiamento, lo scopre intento a pregare chinato verso la Mecca. Ciò non fa che rendere più stratificato l’identikit del “terrorista”, e più amorale l’ambiente politico e militare. Ma allora, chi è dunque il vero terrorista, in Homeland? Sarebbe troppo facile rispondere che sia Abu Nazir, nemico n.1 sulla lista nera della CIA: dichiaratamente “malvagio”, la personalità di Nazir è forse la meno sfaccettata di tutti, anche se il racconto della sua vita privata (anche se non così profondo da permettere al pubblico di perdonargli la sua malvagità nel commettere crimini di guerra) rende più semplice quantomeno comprendere i motivi del suo odio razziale e religioso. È David Estes, ambizioso e integerrimo capo della sezione Antiterrorismo della CIA, disposto a tutto pur di “debellare” la piaga terroristica in America? È Saul Berenson, direttore, dalle mille facce a seconda dell’angolo prospettico dal quale viene osservato? La storia non si serve di concetti semplici e basilari come l’analisi di un chiaroscuro o l’individuazione dei buoni e dei cattivi, perché qui tutti sono colpevoli, e nessuno resta innocente. Il terrorista smette di essere il babau nero che piazza bombe e si fa saltare in aria, ma inizia ad avere sembianze “umane”, mostra il suo volto normale e dimostra che ognuno di noi, nella giusta misura e nella giusta circostanza, potrebbe diventarlo. I terroristi, alla fine, sono da ambedue le parti, fra i civili e fra i soldati, il periodo della morale e delle buone intenzioni è definitivamente tramontato: l’età dell’innocenza è davvero finita.