Grazia Schiavo: il tormento e l’estasi

Intervista senza complessi con un'attrice consapevole
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Vorrei fare un excursus sulla tua carriera e, come usa dire in questi casi, è bene partire dal principio: com’è che diventi attrice, come ti arriva questa vocazione?

Allora, ti dirò: l’impulso a diventare attrice, a percorrere questo cammino, è scattato in giovane età. L’ho pensato e l’ho desiderato quando ero molto piccola e frequentavo le elementari. Ne ho anche la prova, in un tema che scrissi. Però, poi, tutto questo è passato attraverso varie vicissitudini: paure, tormenti… perché nella mia famiglia non era appoggiata, questa scelta. Ho una sorella più grande, che ha iniziato a fare teatro molto presto e un padre, avvocato, che per me aveva deciso tutt’altro… Quindi, mi ha molto osteggiata, a livello proprio psicologico, rispetto a questa scelta.

Osteggiata in che senso?

Diceva: «L’attrice lasciala fare a lei», alludendo a mia sorella, «tu fai l’avvocato…». E quindi, io, nella mia sensibilità, nel mio mettermi sempre in discussione, ne ho fatto, di questo suo “divieto”, un divieto interiore, quasi un alter ego che mi ha un po’ terremotata nel mio percorso. E che adesso, invece, potrebbe rappresentare anche un’opportunità per fare personaggi “disturbati” (ride). Oggi lo dico con una consapevolezza che allora non avevo, ovviamente.

Vedo nel tuo curriculum che hai cominciato con il teatro…

Sì, facevo una scuola di teatro al liceo. Seguivo un po’ le orme di mia sorella anche se, ti ripeto, avevo un po’ questa soggezione rispetto a lei, che aveva già aperto il cammino. Non sapevo bene dove andare, in sintesi. Ho iniziato a fare degli spettacoli, ma non avevo ancora studiato, quindi furono delle esperienze piuttosto acerbe. Non sapevo nemmeno io dove mi trovavo realmente. Stiamo parlando di quando avevo diciassette, diciotto anni. Poi è iniziata la televisione, quindi si sono mescolate le cose. Feci un corso, a diciannove anni, di recitazione con Beatrice Bracco, della quale probabilmente avrai sentito parlare. Con lei ho scoperto “il metodo”, che mi ha affascinato. Lì mi sono innamorata della recitazione, nel senso della possibilità di esprimere le emozioni. Fu proprio un imprinting fantastico, mi ricordo, in Svizzera. Ho talmente amato questa esperienza che mi sono detta: «Voglio continuare in questa direzione». Poi però, come dicevo, è arrivata la televisione che, come una specie di miraggio, mi ha catturato…

Grazia Schiavo

Grazia Schiavo (foto Benedetta Ristori)

In tv i tuoi crediti cominciano con La squadra, ma mi pare di capire, quindi, che avessi fatto altre cose ben prima…

Ho fatto tante cose, ho tante anime, dal punto di vista artistico. Anche alcune che non amo tantissimo. Però ti posso dire che, alla fine, accolgo tutto e mi rendo conto, adesso, che tutto faceva parte di me. Non ho più vergogna di tante cose. Ad oggi, le accolgo come una parte di inconsapevolezza, di una ragazzina che non sapeva bene dove andare. Che doveva dimostrare al padre che, comunque, stava lavorando, che stava facendo cose. C’era sempre questo fantasma, dietro. Prima della Squadra, per venire alla tua domanda, avevo lavorato a Telemontecarlo, facendo programmi dove un po’ recitavo, un po’ conducevo e poi, e poi, e poi…

La mitica Telemontecarlo, che adesso non c’è più, è diventata La Sette…

Mi presero per fare un programma sul calcio, dove ero con altre ragazze… C’era anche Alessia Marcuzzi, che conduceva. Io ero insieme ad altre splendide fanciulle. Però poi da lì, mi presero per fare quattro o cinque programmi. Pensa che allora andavo, parlavo con i capostruttura… sai, l’incoscienza dei vent’anni. Feci anche dei programmi legati al cinema, in cui lanciavamo dei contenuti, anche attraverso una scrittura improvvisata. Mi abituai a scrivere un po’ su me stessa. Fu un’esperienza che mi servì. Feci anche un programma in cui avevo un auricolare, un po’ alla Boncompagni. Un’esperienza, anche a livello sinaptico, molto stimolante, perché avevo delle cose da dire e nel frattempo me ne venivano suggerite altre, dovendo essere credibile nell’eloquio. Ricordo queste cose con affetto, ti dirò.

Stiamo parlando di esperienze risalenti a prima del Duemila?

Sì, prima, prima… Avevo ventitre anni, avevo cominciato a venti. Oggi ne ho cinquanta. Quindi sono molto remote…

Beh, non li dimostri…

Grazie, dico sempre che ho avuto un blocco nella maturazione (ride).

Il tuo primo film al cinema viene segnalato essere Lettera da Parigi

Ah sì, sì, ma era una faccenda proprio di un paio di pose, nel 1993. Una cosa così. Fabrizio Giordani, il regista, ha scritto da qualche parte su facebook: «L’ho lanciata io!». Ma, in realtà, era proprio una stupidaggine, come parte.

Il cinema quando si è presentato in maniera più pregnante?

Tardi. Avevo fatto una cosa con i Vanzina, tanti anni fa… e poi c’è stato un lungo silenzio

E adesso sesso…

Sì, non ne parlo tanto volentieri (ride), forse il primissimo ruolo che feci con un po’ di visibilità. Ma il cinema è arrivato nel 2010, in una commedia che era Faccio un salto all’Avana. Dopo ho girato una cosa con Ivano De Matteo, Gli equilibristi, e in seguito diverse commedie con Max Croci…

Grazia Schiavo

Grazia Schiavo (foto Benedetta Ristori)

Con il compianto Max Croci avete lavorato spesso…

Sì: mi manca molto, anche in termini di amicizia. Credo che avremmo potuto pensare ad altre cose da realizzare insieme. Feci il suo primo cortometraggio, Ladiesroom. Ne aveva fatti altri, prima, che avevo visto e mi erano piaciuti molto. Dopo sono venuti i film con lui, Poli opposti, Al posto tuo

Cosa era La rentrée, che trovo nella tua filmografia risalente al 2001, di Franco Angeli?

Oddio, sì, ma ne ho una nebulosa memoria, adesso…. Ah, era quello con Francesco Salvi, una roba totalmente folle (ride). Sì… non so perché venga raccolto questo materiale tra le cose che ho fatto, ma lo dico senza nessun giudizio rispetto all’opera: il fatto è, semplicemente, che avevo davvero una parte microscopica… (ride). Facevo tipo una ragazza che passava sul ring, c’era di mezzo infatti la storia di un pugile…

Mordi e fuggi…

Sì, davvero mordi e fuggi. Se non me lo dicevi, nemmeno lo ricordavo…

Sono curioso, perché negli anni precedenti, negli anni Settanta e Ottanta, era più facile, per una giovane attrice, cercare di “arrivare” nel cinema. Dopodiché, ho come l’impressione, che quando hai iniziato tu, tutto fosse diventato meno immediato. Che si dovesse lottare più che in passato… Sbaglio, magari. Come era l’ambiente, in quel momento?

Eh, non ho un bel ricordo dell’ambiente del cinema allora, agli inizi…

Perché era insidioso?

Era insidioso, certo. Era chiuso… Per una ragazza come potevo essere io. Dico sempre che ero “mascherata”, nel senso che cercavo, attraverso un aspetto gradevole, di mascherare le mie insicurezze. Ma questo si trasformava in un’arma a doppio taglio. Perché… già allora avevo delle qualità, ma che venivano fuori, paradossalmente, in questi seminari che facevo sul “metodo”. Cioè, energevano lì, ma poco nei provini, dove io ero letteralmente terrorizzata… Non è mai stato facile poter far vedere certe parti di me. E, oggi, io sento questa priorità, questa necessità di salvare una parte di me che è stata un po’ depredata, maltrattata artisticamente, ma da me, in primis. Sai, in qualche modo riesci a proteggerti da un mondo insidioso, ma non puoi non far vedere che cosa sei artisticamente, che cosa puoi fare. L’iper-protezione verso te stesso, ti porta anche a questo pericolo. Ecco, in quegli anni ero così. Adesso mi fa molta tenerezza pensare a me stessa allora, a quella mia paura. Perché era anche un punto di innocenza, se vogliamo. Un’innocenza che io posso integrare nel mio lato artistico, adesso, con più tranquillità. Naturalmente, ci vogliono anche le parti, i ruoli, ma su questo sono ormai pacificata. Se non arrivano, me li darò io in un altro modo: attraverso il teatro, attraverso la scrittura…

Mi pare molto saggia, questa riflessione che stai facendo. Molto equilibrata… Ma che rapporto hai con te stessa sullo schermo? Ti capiterà di rivedere questi film. Ti rivedi e pensi…? Quando ancora non eri…

“Centrata”, vuoi dire?

Sì…

Come mi vedo? Non è che ami tanto rivedermi (ride). Però, ti ripeto, mi faccio tenerezza. Perché ricordo che c’era proprio un grande sforzo, per tenere tutto insieme, tutti questi sentimenti che si mescolavano e… questa grande paura.

Grazia Schiavo

Grazia Schiavo (foto Benedetta Ristori)

Adesso ci arriviamo, a parlare di Divorzio a Las Vegas, il tuo film in uscita… Ma quando è stato il momento in cui, in cinema o anche nei tuoi impegni televisivi, hai cominciato a essere soddisfatta o comunque appagata, o pacificata, o realizzata rispetto a quello che stavi facendo? C’è stato, questo momento o non c’è ancora?

C’è, nel senso che quando si sbloccano dei meccanismi e inizi a fare delle cose, sei sicuramente più soddisfatto. Per appagare il bisogno che io avverto, ci vuole molto di più… C’è un enorme bisogno di esprimermi, dopo la grande  compressione di sentimenti alla quale mi sono costretta. Però, negli ultimi anni ho lavorato molto sul mio universo psichico, ho ricominciato a studiare psicologia, sono diventata conduttrice di bioenergetica…

Campo interessante…

Mi sono ripresa in mano:avevo bisogno di guardarmi dentro e di trattarmi bene. E questo è stato fondamentale, questo studio, che continua. Mi interesso di arteterapia, di scrittura… attraversare questo mondo di me, e anche degli altri, attraverso la scrittura. L’attenzione all’altro è stato sempre per me un fil rouge, una cosa che mi ha sempre accompagnato, però poi, forse, queste difficoltà che ho incontrato, mi hanno un po’ cambiata, costringendomi a combattere una battaglia in cui non riuscivo a vedere una meta, uno scopo. Dove stavo andando? Ad oggi, ho compiuto e continuo a compiere questo percorso a ritroso, di accettazione, di accoglienza, di amore verso me e, se vogliamo, anche verso un percorso sbagliato… Mi sono resa conto di essere stata un’anima trattenuta, prigioniera… Prigioniera di un sogno che non sapevo nemmeno capire, nella sua profondità. Oggi è diverso, cambia lo sguardo, la consapevolezza. C’è una serenità in questo, nei miei cinquant’anni. C’è una voglia  anche di vivere di più, in termini di vita. C’è una fame di vita, di poter fare  cose, di attraversare questa passione, ma nel vero senso dell’esperienza. Cosa che non avevo mai fatto. Lo avevo fatto a un livello superficiale, perché dentro avevo tanto timore.

Sentendoti, però, si avverte che hai raggiunto una grande consapevolezza. Forse anche un equilibrio, non so. Sicuramente sei molto consapevole…

Un equilibrio anche nell’accettare di non essere equilibrata. Cioè, anche di perdere questo equilibrio.Perché poi, alla fine, la mia paura di perdere l’equilibrio, di non essere all’altezza, mi faceva rimanere statica. A un livello di superficie, sia artisticamente sia di vita.Perché le due cose vanno di pari passo. Un’interprete deve poter vivere per poi trasmettere quello che ha vissuto. E io, allora, non mi permettevo la vita, fondamentalmente. Ma stiamo andando adesso in territori un po’ metafisici (ride). Riportami al dunque…

 Sì, ma è più interessante questo. In effetti, non capita spesso di parlare con una’atttice di cose che volino al di sopra della superficie…Ma introduciamo, allora, Divorzio a Las Vegas di Umberto Riccioni Carteni. Torniamo sul pezzo. Riassumimi brevemente questo tuo nuovo film in uscita all’inizio di ottobre…

Allora, è una storia che si snoda tra l’Italia, Roma, e Las Vegas, perché vede al centro i due protagonisti, Andrea Delogu e Giampaolo Morelli. Andrea è in procinto di sposarsi con un uomo facoltoso, Ricky Tognazzi, ma non può. Io interpreto il suo avvocato e la metto in guardia che non si può sposare perché era già sposata. «Ma come, sono già sposata?!». Cioè, lei nemmeno si ricorda di questo matrimonio, che aveva fatto sotto effetto del peyote a vent’anni, a Las Vegas. Quindi, le tocca andare a Las Vegas a cancellare il primo matrimonio con lui, che Andrea nemmeno sa chi sia, non se lo ricorda. A questo penso io, le trovo questo ragazzotto, che adesso di mestiere fa il ghost writer, scrive discosi per i politici e vive con un disadattato, che sarebbe Ricky Memphis. Io rintraccio questo signore e gli spiego che deve fare questo divorzio. Ma lui, dopo tutti gli anni passati, è comunque rimasto un po’ invaghito di Andrea e forse ferito dal fatto che lei poi abbia preso altre strade. E da qui, i due partono per andare a cancellare il matrimonio in un viaggio durante il quale, come si dice in questi casi, ritroveranno se stessi eccetera eccetera… Adesso si parla molto delle commedie italiane attuali, corrive, non corrive, scritte male, scritte bene, potrebbero essere scritte meglio… sicuramente di tutto e di più, però devo dire che questo film è davvero gradevole. Anche il fatto che sia girato in America, lo arrichisce. Rimanda un po’ a cose tipo Una notte da leoni.  Poi c’è Ricky Memphis, che è un personaggio: ho avuto la fortuna di avere molte scene con lui e siamo anche imprevedibili e inconsueti, come coppia (ride).

Beh va detto che Memphis è uno dei pochi attori, oggi, che hanno ereditato la grande tradizione dei caratteri del cinema italiano che fu…

Sì, devo dire di sì. Poi lui conserva la sua autenticità di linguaggio, parla il suo dialetto romano. E questo aiuta, dà verità. Ma poi, lui è così, porta in scena se stesso…

Grazia Schiavo

Grazia Schiavo (foto Benedetta Ristori)

Qual è il cinema che ti piace?

Fellini, per me, è il più grande regista di tutti i tempi. Perché il cinema è sogno, quindi chi più di lui incarna il sogno? Mi piace Bunuel, il surrealismo, la dimensione dell’inconscio: quella parte lì la adoro. Poi mi piace il genere distopico e recentemente ho apprezzato Lanthimos. Malik è un altro dei miei preferiti…

Grazie Grazia….

(ride) Grazie a te…