Gli ottant’anni di John Saxon

Intervista esclusiva all'attore americano presente nei nostri maggiori film di genere dell'età d'oro
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John Saxon (New York, 5 agosto 1935) vive in una bella casa sulle colline di Hollywood, proprio di fronte alla megavilla di Arnold Schwarzenegger. Ci spiega che ne aveva una più grande, ma ha dovuto lasciarla alla prima moglie. È una persona estremamente gentile, molto legato al cinema della vecchia Hollywood che ha fatto nei primi anni ’60 e a quello che ha girato in Italia, più o meno contemporaneamente. Attore di culto in tutto il mondo per i tanti horror e thriller che ha girato, da Nightmare – Dal profondo della notte (Nightmare on Elm Street, Wes Craven, 1984) a La ragazza che sapeva troppo (Mario Bava, 1963), e che ancora gira, non ama particolarmente il genere. La sua passione sono i western americani, come Gli inesorabili (The Unforgiven, John Huston, 1960), dove John va a cavallo da Dio e tira il coltello con estrema precisione. O A sud ovest di Sonora (The Appaloosa, Sidney J. Furie, 1966), dove recita insieme a Marlon Brando.

John, sei veramente di origine italiana?

Sì. I miei venivano da Salerno e mio nonno si chiamava come me, cioè Carmine Orrico. John Saxon è il mio nome d’arte.

Parli abbastanza bene italiano…

Ho cominciato a studiare italiano a scuola, a Brooklyn, dove sono nato. Avevo 14 anni quando dissi a mia madre in italiano stentato: «Mamma io va in California!». Lei rideva sia per la mia pronuncia sia per l’idea che avevo di andare in California.

Già pensavo di stare qui… Ci sono arrivato nel 1954 dopo un po’ di gavetta a New York, soprattutto in produzioni televisive.

Qual è il primo film che interpreti a Hollywood?

Ebbi un piccolo ruolo in un film con Mamie Van Doren, si chiamava Running Wild. Allora io ero sotto contratto con la Universal…

In Italia, invece, quando sei arrivato?

La prima volta nel 1958. Lo studio mi aveva mandato alla MGM per un film con Rex Harrison e sua moglie Kay Kendall diretto da Vincente Minnelli, Come sposare una figlia (The Reluctant Debutante). Dopo questo film ho fatto un viaggio al Festival di Cannes e ho visto un film di Pietro Germi, L’uomo di paglia, che mi ha fatto molta impressione.

Dopo Cannes ho passato un paio di settimane a Roma e l’ho trovata pazzesca, me ne sono veramente innamorato. Era già il periodo della Dolce Vita, di Via Veneto…

Il primo film che giri in Italia è La ragazza che sapeva troppo di Mario Bava. Come ci sei arrivato?

È stato grazie alla protagonista, Leticia Roman, figlia del grande costumista Nino Novarese che aveva lavorato molto a Hollywood. Quando il mio contratto con la Universal terminò io ero molto nervoso. Fu durante quel periodo che cominciai a vedere molti film europei e soprattutto italiani, Fellini e Antonioni… Volevo girare un film in Italia. Una mattina, squilla il telefono. Era Leticia. Mi chiede: «John, vuoi fare un film d’autore in Italia?». E io: «Ammazza, sì!». Lei: «Ok, ti richiamo tra mezz’ora. Guarda che è un film d’arte. Non ci sono molti soldi». E io: «Non fa niente». Allora Letitia:  «Però facciamo il 50 per cento fra me e te del compenso». Non mi sembrava giusto, anche se, come si dice, a caval donato non si guarda in bocca. Ci mettiamo d’accordo per 5000 dollari in più a me. E il film parte.

Come era lavorare in Italia, allora?

Sembrava un picnic. Se il piano di lavorazione della giornata, diciamo, arrivava fino alle 15.30, alle 15 andavamo tutti a casa. Sono cose che non accadono mai qui. Se finisci prima, quaggiù c’è sempre qualcosa da fare. Era un modo di lavorare del tutto diverso.

E Mario Bava come era?

Mi trattava in modo strano. In parte perché non parlava bene inglese e probabilmente non lo capiva neanche un granché. A volte mi diceva «Fai quello che vuoi», poi per certe scene aveva un rancore che non capivo. Mi ricordo di una sequenza sulla spiaggia dove chiesi che mettessero qualcosa di gomma per una caduta, e lo sentii dire: «Guardalo, ha bisogno di aiuto…». Alla fine della lavorazione del film il produttore, Nello Santi, mi invitò nella sua casa all’isola d’Elba per un lungo week-end. Offrendomi un drink, mi disse: «Sai, è difficile per noi produttori italiani scegliere gli attori americani che veramente vogliamo. Tra voi c’è chi accetta una parte solo a certi patti. Ad esempio, se scegliamo anche la ragazza di cui è innamorato… Così se prendi lei, prendi anche lui…». Allora capii tutto. Ero io che avevo fatto un favore a Letitia e non Letitia a me.

Comunque La ragazza che sapeva troppo è un ottimo film…

Ti dirò… Io non l’ho visto che un anno dopo. In America gli avevano cambiato molte cose, anche la musica. Non andò bene da noi. È un bel film, ma in generale ci sono più persone che lo amano adesso di allora.

Che mi dici di Agostino di Mauro Bolognini tratto dal romanzo di Alberto Moravia?

La mia era una piccola parte. Mi ricordo che l’attrice era Ingrid Thulin. Lei parlava svedese e francese, io un po’ di italiano… Alla fine cercavamo di capirci come potevamo. Era una persona piacevole. Alberto Moravia l’ho conosciuto probabilmente nello stesso periodo, non lo ricordo molto. Abbiamo girato il film a Venezia e a Roma.

Nel Cardinale di Otto Preminger hai girato scene anche in Italia?

No. Io ho girato tutto il mio ruolo a Boston. Posso dire una cosa su Otto Preminger. A me piacevano molto i suoi film, ma lui era una persona orrenda, se per caso non facevi bene una scena urlava come un pazzo. Incredibile.

E con John Huston per Gli inesorabili che rapporto hai avuto?

Molto diverso. Quando feci i provini alla Universal per il film andai a vedere come si comportava. Lui non guardava gli attori, li ascoltava. Io ho girato le mie prime scene a Durango, in Messico. Lì avevo una bella scena dove dovevo tirare il coltello contro Audie Murphy, che mi aveva offeso. Lui cercava di gettarsi addosso a me dicendo «Io posso sentire puzza di indiano anche da un miglio» e io, che ero sangue misto nel film, tiravo un coltello che si conficca in un legno. Dissi a Huston: «Senti… io credo di poter fare questa scena in una sola ripresa, da solo. Sono nato a Brooklyn e so tirare il coltello. Dammi solo un po’ di tempo per provare».

Ok. Il giorno dopo faccio la prova, tiro il coltello e tutti mi dicono «Bravo». Però, quando dovevo girare la scena davvero con Audie Murphy, il coltello, maledizione!, non restava mai conficcato nel legno. Cadeva sempre. Ci sono volute tre ore per girare quella scena! C’era un buon clima sul set, anche se Huston e Burt Lancaster non andarono d’accordo. Il regista considerava quella del film una storia molto drammatica, mentre Burt voleva dare alla produzione un registro più leggero e avventuroso.

Però il film è molto bello e il tuo ruolo, quello del mezzosangue Johnny Portugal, molto riuscito…

Il mio ruolo è stato molto tagliato, purtroppo. Huston mi dava sempre delle nuove scene. Ad esempio una in cui io e Audrey Hepburn eravamo usciti insieme a cavallo. Era molto più lunga, io mi avvicinavo a lei. Burt Lancaster non voleva che io avessi una scena così lunga. Audrey era molto carina e coraggiosa, tanto da rifiutare gli stunt. Ma in una scena dove doveva andare a cavallo senza sella si fece molto male. Le chiesero di ripeterla troppe volte, Alla fine cadde di schiena. Fu un incidente terribile e stette ferma un mese intero.

Ti ricordi un film che girasti in Italia con Edgar G. Ulmer, The Cavern con Larry Hagman e Raf Vallone…?

Sì, lo avevamo iniziato in Jugoslavia, dove c’era questa caverna in cui si svolge gran parte del film. Ma in una scena ci fu un’esplosione, e un attore tedesco, un modesto attore di contorno, si ruppe una gamba e si fece molto male. Così la produzione si fermò. Non capivo bene perché. Potevamo riprendere con un altro attore… Poco dopo stavamo tutti in albergo a Venezia, il giorno me lo ricordo bene perché arrivò la moglie di Ulmer piangendo. Ci disse che era stato ucciso il presidente John Kennedy. Lo stesso giorno venne anche un uomo della produzione e ci spiegò che la coproduzione jugoslava non aveva assicurato gli attori.

Avevamo girato un film senza assicurazione. Ulmer uscì pazzo. Non sapeva come continuare il film. La stessa notte prendemmo tutti un wagon lit per Roma e nel mezzo della notte sentii la moglie di Ulmer che urlava: «Edgar è diventato cieco!». Aveva ingerito tante di quelle pillole che non riusciva più a vedere nulla. Doveva mettere i suoi soldi nel film per colpa della storia dell’assicurazione.

In pieno ‘68, giri il primo western all’italiana, Vado, vedo e sparo di Enzo G. Castellari…

Enzo era molto allegro, vitale, divertente… Lo abbiamo girato un po’ a Roma e poi ci siamo spostati in Almeria. C’erano anche Antonio Sabato e Frank Wolff. Io facevo un tipo elegante, coi baffetti. I western italiani erano molto differenti da quelli americani. Erano tutti western brillanti…

Tu venivi da un bellissimo western che avevi girato poco prima a Hollywood, A sud ovest di Sonora di Sidney J. Furie con Marlon Brando. È vero che hai scritto parte del film d’accordo con Brando?

Diciamo il 10 per cento… Per esempio, è nostra la scena degli scorpioni, a detta di tutti tra le più riuscite del film. Io avevo raccontato a Brando la mia esperienza a Durango sul set di Gli inesorabili. C’erano questi scorpioni che erano considerati i più velenosi del mondo. E lui mi disse: «Perché non facciamo una scena di braccio di ferro con gli scorpioni?». Così ho scritto questa scena e anche altre che ci riguardavano.

Il problema del film è che Marlon Brando dovette scappare via prima del previsto per andare a girare a Hong Kong il film di Charlie Chaplin, La contessa di Hong Kong. Lui aveva firmato un contratto con la Universal per due film. Il nostro era il primo e il secondo era quello di Chaplin. Così abbiamo girato in maniera troppo sbrigativa il finale di A sud ovest di Sonora. Lui non aveva più tempo, doveva andare a Hong Kong. Poteva essere un film più interessante.

Hai avuto un buon rapporto con Marlon Brando?

Sì. Lo avevo conosciuto molti anni prima a New York, per cui non ero intimorito o nervoso per il fatto di lavorare col famoso Marlon Brando. Fin dall’inizio della lavorazione lui cominciò a chiedermi come trovavo questa scena e poi quell’altra. Alla fine mi disse: «Guarda, nessuno saprà mai tutto quello che hai fatto in questo film…» Ricordo che gli dissi che in Italia c’erano dei registi con cui avrebbe potuto lavorare bene. E pensavo proprio a Bernardo Bertolucci e a Gillo Pontecorvo. E lui in seguito ha lavorato con entrambi.

In Joe Kidd di John Sturges hai incontrato Clint Eastwood, che era già famoso per i suoi western italiani girati con Sergio Leone…

Il film non è bellissimo purtroppo. Sturges era ormai anziano e non aveva più lo smalto dei tempi migliori. Si vedeva che sul set era svogliato. Nessun problema con Clint Eastwood; pensa, avevamo iniziato insieme alla scuola di recitazione della Universal, a Los Angeles. Abbiamo imparato assieme ad andare a cavallo… Lì c’erano anche corsi di canto, recitazione, tutto… Paradossalmente, quando sono venuto in Italia ho tentato la strada del western prima di lui, ma volevano qualcuno che sembrasse più americano di me… Io ero troppo italiano!

Infatti hai fatto molti film in Italia come italiano. Anzi, ti specializzi poi in ruoli di mafioso, come in Baciamo le mani di Vittorio Schiraldi.

Lì faccio il capo della nuova mafia che se la vede con la vecchia mafia… Mi ricordo che c’erano Arthur Kennedy e quella bella ragazza, Agostina Belli. Io ho lavorato con un’altra bella ragazza in un film che probabilmente non è mai uscito, girato a Orvieto. Era la storia di una femminista e di un uomo diciamo “machista” che stanno insieme in un vecchio palazzo. La donna la interpretava Dalila Di Lazzaro….

Credo sia Una donna di troppo di Pino Tosini…

Sì, quello era il titolo. E il regista era questo Tosini. Per ogni scena mi diceva sempre «Fai quello che ti pare». Ma c’era una scena che ci fece impazzire. Eravamo io e lei completamenti nudi. Era ottobre. Avevano acceso un caminetto ma faceva freddo. Mi ritrovo nudo e sotto, per il freddo… non c’era niente, non si vedeva niente! Era imbarazzante… Quella è stata l’unica scena che Tosini ha voluto fare e rifare tante volte. Poi, quando finalmente mi ero “riscaldato”, Dalila mi fa: «Guarda… non scherzare!? Copriti!!».

Cosa ricordi di Una magnum per Tony Saitta di Alberto De Martino?

De Martino mi piaceva, anche per come girava, per dove metteva la macchina. In quel film c’era un grande amico mio, Stuart Whitman. Lo abbiamo girato in  Canada. è un buon film, molto americano…

E di Napoli violenta di Umberto Lenzi?

Una cosa buffa… Stavamo girando una scena vicino al mare, io e Barry Sullivan. La proviamo. C’era un gran sole, con molti riflessi fastidiosi e in primo piano Barry non riesce a tenere gli occhi aperti. Li chiude, sbatte un po’ le palpebre. E Lenzi: «No! No! Barry! Gli occhi… non fare così!». Barry batteva gli occhi per i riflessi del sole e Lenzi si infuriava. «Un boss non sbatte gli occhi così».

Lenzi credeva che il battere gli occhi rendesse il personaggio debole. Un boss sta sempre con gli occhi aperti. InBaciamo le mani, il regista, Schiraldi, mi disse: «Quando fai un siciliano devi stare con la testa su e devi sempre guardarti il mento».

Che ricordo hai di Maurizio Merli?

Insomma… Parlava di sé in terza persona. «Merli pensa di fare questa scena così…».

In Il cinico, l’infame, il violento di Umberto Lenzi lavori per la prima volta con Tomas Milian. Avevi un buon rapporto con lui?

Non lo avevo mai incontrato prima di questo film. So che lui aveva fatto del teatro a Spoleto, prima. Aveva fatto già molti film e parlava molto bene l’italiano della strada. Quando abbiamo girato la scena insiema lui era un po’ nervoso. Probabilmente perché recitava con un americano. Lenzi gridava sempre, il loro rapporto lo ricordo conflittuale.

Ho fatto un altro film con Umberto e Salvatore Alabiso, il produttore, a Miami (Nightmare Beach, 1988, ndr). Mi ricordo che Umberto voleva girare una scena in un modo e Alabiso in un altro. Litigarono furiosamente. Alla fine Lenzi girò prima la scena come la voleva lui e poi la rigirò Alabiso alla maniera sua.

Hai anche girato Apocalypse domani di Antonio Margheriti…

C’è una storia interessante su questo film. Mi mandano il copione tramite la mia agenzia. Lo leggo e mi piace il tema della guerra vista come un virus. Accetto di fare il film e vado a girarlo ad Atalanta. Il primo giorno sul set mi presentano Margheriti, il regista, e gli dico «Mi piace il copione». E lui: «A me, no!». Dopo ho capito che il copione in inglese che avevo io non aveva tutto quello che c’era scritto nel copione in italiano.

Erano molto diversi. C’erano anche delle scene diverse. In una arriva un tipo con un vassoio pieno di carne cruda. Io chiedo a Margheriti da dove venisse questa carne. «Questa è carne umana, e voi la dovete mangiare tutta, compreso il cazzo!». Gli ho detto: «Io vado in albergo. Quando questa scena è finita chiamatemi. Questo non è scritto nel mio copione e non lo giro!».

Cosa ricordi di Tenebre di Dario Argento?

Mi è piaciuto come Dario lo ha girato. È un film interessante. Io l’ho visto solo molti anni dopo in America. Ma l’horror e il thriller non sono generi che amo, non mi piace l’exploitation, al cinema è molto più difficile coinvolgere con la tensione psicologica che non con le scene di sangue estremo. Ho girato parecchi horror e thriller, come Tenebre e Nightmare, che sono di culto in tutto il mondo. Mi invitano spesso alle convention di cinema dell’orrore, ogni tanto ci vado e firmo un po’ di autografi. Ma sono cose assurde, carnevalate.

Ma tu sei un attore di culto, è naturale. Hai girato con Wes Craven, Mario Bava, Dario Argento…

Sono di culto per loro, per i fan dell’horror. Personalmente, io sono di un altro mondo. Non rinnego i film che ho fatto, ma spesso sono sopravvalutati dagli appassionati.

Che mi dici di questo cameo che hai fatto nell’episodio di C.S.I. intitolato Grave Danger diretto da Quentin Tarantino?

Sono stato scelto proprio da lui. Come per un altro piccolo ruolo che ho fatto in Dal tramonto all’alba (From Dusk Till Dawn, 1996, Robert Rodriguez). Quentin Tarantino mi adora. Lui può parlare di me e dei miei film meglio di me. Li ha visti proprio tutti. Ricorda le mie apparizioni in Tv, roba di quarant’anni fa.

Mi dice sempre «Tu sei cool, sei veramente cool!».

Ma infatti sei cool!

Per Quentin, sì…