Gerard Damiano

Il sesso sul lettino
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È stato uno dei grandi protagonisti della rivoluzione sessuale. Con Deep Throat è riuscito a sdoganare il porno. ma il cinema di Gerard Damiano, scomparso nel 2008, a ben vedere aveva poco di erotico e molto di oscuro e psicanalitico, sempre sospeso tra conscio e inconscio, sogno e allucinazione. Come dimostra la maggior parte dei suoi film

Lo scrittore italo-americano Gay Talese termina il suo La donna d’altri, cronaca gonzo della rivoluzione sessuale, con una visita sul set di Memories within Miss Aggie nel 1974. Secondo Talese il film si sarebbe rivelato «meno redditizio» di Deep Throat e The Devil in Miss Jones, ma comunque «non ne differiva quanto a trama, scene di ammucchiate, primi piani di peni eiaculanti e l’aggressivo comportamento sessuale delle attrici». Il commento coglie il punto generale – si tratta di porno – ma manca clamorosamente il dettaglio: di fatto, c’è un’enorme differenza tra Gola profonda e gli altri due hard, che lo spettatore coglie quasi immediatamente. Il primo è solare, gioioso, sexy; gli altri sono cupi, funerei, quasi antierotici. Lo scarto segna lo status autoriale del regista, che paradossalmente è originale e rilevante quanto più si stacca dalle convenzioni del genere (che pure ha contribuito a creare). La vocazione del nostro ex parrucchiere è quella dello sperimentatore.

Del suo primo exploitation (We All Go Down) spiega che, mentre lo girava, gli «è sfuggito di mano» e quindi ha deciso di farne un art film. Una delle sue performers degli inizi, Tina Tussell, racconta di una scena girata con lui in quei giorni entusiastici, una piccola experimental venture di cui il regista stesso non sapeva bene cosa fare. Lo stesso Gola profonda è un audace collage di loops. Ma è comunque dopo l’incredibile successo di quest’ultimo, tra offerte di lavoro della MGM e budgets che i suoi capi mafiosi gli alzano sperando in un altro blockbuster, che Damiano compie due mosse atipiche in un pornomaker, ma non in un filmmaker quale lui si considera. Memories è una hardvariazione su Psycho, in cui la cornice narrativa è decisamente lugubre ma i sex acts sono caldi, anche se raffreddati dalla pazzia della protagonista. Portrait è quasi un non-porno: a Roger Ebert Damiano e la sua star Jody Maxwell raccontano infatti che è loro intenzione riservare la scena alla sola Maxwell, alle prese non con performers maschili, ma con loro specifici pezzi (indovinate quali), con la camera esclusivamente addosso all’attrice, alla sua faccia e al suo corpo, con un effetto totale che è figurativamente suggestivo e palesemente antierotico (con la seconda scena, più regolare, a spezzare il ritmo avanguardistico del racconto – forse una concessione al botteghino). Da questo punto di vista The Story of Joanna costituisce il ritorno a una narrazione tradizionale, quasi standard (e infatti il nostro ottiene nuovo successo e calma i suoi datori di lavoro). Negli anni successivi Damiano tenta – con l’eccezione di Let My Puppets Come (nel quale Robert Rimmer ha notato spiritosamente l’intenzione del regista di «fare a meno» degli esseri umani, in continuità, diciamo, con l’eliminazione dell’umanità da Portrait) e di Consenting Adults, dove costruisce un docufiction niente male, al servizio delle fantasticherie di Annie Sprinkle e Veronica Vera – di combinare una trama comprensibile al pubblico medio con l’espediente narrativo che più gli è congeniale e che segna la sua vocazione all’esperimento.

A partire da The Devil in Miss Jones, Damiano usa infatti in quasi tutte le sue imprese più ambiziose lo strumento della cornice: una situazione in cui al/alla/ai protagonisti è concesso assistere a sogni/fantasie/allucinazioni che conducono alla rivelazione e all’autoconsapevolezza. I maligni potrebbero pensare che ciò rispecchi la sua preparazione da looper e la sua incapacità di costruire una story sensata e consequenziale, ma è mia opinione che invece tra gli anni Sessanta e primi Settanta Damiano abbia incontrato – non so dire dove – una qualche forma di junghismo (sotto forma di psicanalisi, mitologia o religione), che lo abbia convinto della relazione decisiva tra conscio e inconscio nella determinazione della personalità e della funzione primaria del sogno (e della fantasia) per scandagliare tale relazione.

Nei suoi film i personaggi vengono infatti definiti – agli occhi dello spettatore ma a volte anche rispetto a loro stessi – dalla meccanica dell’allucinazione rivelatrice, nel bene e nel male. Comprendiamo Miss Aggie, i personaggi di Fantasy e quelli di Night Magic, la modella suicida della terza vignetta di Odissey, la paziente di Portrait, la socialite di Beyond Your Wildest Dreams, persino la prostituta e la scambista di Throat 12 Years after (per brevissimi accenni), attraverso i loro sogni/ricordi/fantasie, in una rete di simboli ed epifanie che suggerisce il senso totale della loro personalità. Ma Damiano è ancora più ficcante quando sono i personaggi medesimi a comprendere se stessi attraverso il meccanismo onirico/allucinativo: in primis, e ovviamente, miss Jones, ma anche – di nuovo la Spelvin – la divorziata di Far Richer far Poorer, la ninfomane interpretata da Sharon Kane in Night Hunger, la sposa in crisi da settimo anno in Cravings (ancora la Kane, che osserva se stessa), i personaggi di Night Magic, che concludono con un’orgia liberatrice, persino il brevissimo sogno bagnato di Joanna.

Certo, non tutti gli esiti sono felici: Beyond Your Wildest Dreams, il Providence di Damiano, resta un po’ epidermico; il sogno di Far Richer è di basso profilo; quello lunghissimo che occupa la seconda metà di Cravings rende il film un po’ squilibrato. È mia impressione che le cose migliori il nostro le abbia realizzate quando ha dato la precedenza alla logica delle «associazioni psichiche» del sogno/fantasia (scusate la citazione: lo ammetto, è tratta dal saggio L’uomo e i suoi simboli): le due Miss, Portrait, Odissey (la terza vignetta) e il più tardo e bellissimo Night Hunger, dove le scene sono frutto di un racconto a terzi (il barista a un Jerry Butler non sex) ma seguono un percorso onirico, in particolare la prima (con un’orgia frammentata e delirante, molto parlata e intensa: il protagonista fa sesso con tutte ma si rivolge solo alla moglie) e la terza (con acts che si accumulano l’uno sull’altro a grande velocità, con la protagonista sofferente sempre in evidenza, alla fine a confronto con se stessa in una scena di doppelgänger pissing). È anche innegabile che questi siano film poco utili nel tradizionale senso pornografico: nel 1973 William Rotsler, tra i primi critici seri dell’hard (lui stesso praticante sotto lo pseudonimo di Clay McCord), spiega che Miss Jones è un total downer, il film «più volutamente antierotico che abbia mai visto», un giudizio probabilmente applicabile anche agli altri film appena citati. D’altro canto, la struttura a cornice allucinatoria (diciamo così) suggerisce a Damiano un costante percorso metaporno, con il raddoppio dell’occhio che guarda (o che sogna) e i personaggi a interrogarsi (e a interrogare l’occhio due, quello dello spettatore) sul senso delle scene di sesso che stanno osservando/sognando.

Un discorso che il nostro rende esplicito in Puppets (che tutto sommato è la storia della realizzazione di un porno che vince l’Oscar) e soprattutto in Skin Flicks, il migliore tra i suoi film a trama tradizionale. Qui il nostro mette in scena l’hardauteur, che da un lato manipola ignobilmente le sue performers ma dall’altro ricerca un qualcosa (arte e linguaggio sono citati nel film) che gli sfugge (nel finale il doppiaggio italiano lo coglie meglio dell’originale: «Così vicino… così lontano»). Il protagonista è peraltro alle prese con i suoi finanziatori mafiosi e qui Damiano genialmente impersona lui stesso il Butchie Peraino della situazione, bofonchiando tra i denti un “fucking filmmakers” indirizzato al regista. L’autoironia e la metaironia la fanno da padrone nel suo secondo pendant, quello slapstick di Deep Throat e Meatball, poco presente nei suoi momenti di gloria (in versione moderata in Never so Deep ed eccessiva – e più efficace – in Joint Venture), ma dominante negli ultimi anni di carriera (Candy’s Little Sister Sugar e Just for the Hell of It). Ma il nostro ci interessa soprattutto per i suoi cupi drammoni a tema, non certo per gli slapsticks (nonostante Throat), e questo ci porta alla vexata quaestio della sua educazione cattolica.

Secondo molti la tetraggine sessuo-politica dei suoi film maggiori, evidente non solo nei suoi apici narrativi (il taglio delle vene in vasca e la condanna all’insoddisfazione eterna per Miss Jones, il suicidio della modella di Odissey, la pazzia sessuale di Aggie, l’inappagamento strutturale che ossessiona i membri della famiglia Blair in Night Hunger e la protagonista in Cravings, la pulsione di morte di Jason in Joanna) ma anche nella loro messa in scena (la prevalenza delle scene notturne, i colori cupi, l’uso della musica, il ritmo spesso ipnotico del parlato), segnalerebbe la dipendenza di Damiano da una visione della sessualità inestricabilmente intrecciata alla colpa. Le cose stanno a mio parere altrimenti. Il nostro è chiaramente un alfiere dei mutamenti di costume degli anni Sessanta; il suo primo documentario, molto acuto nel suo accostamento tra liberazione gay e movimento femminista da un lato e lotta contro alla censura dall’altro (Changes, 1970), lo proclama a chiare lettere e lui non si è tirato indietro nelle dichiarazioni dirette: «Penso di essere personalmente responsabile per parte del movimento verso la liberazione sessuale in questo Paese? Certo! […] Siamo stati [i pornografi] tutti responsabili, siamo andati là fuori e abbiamo fatto cose che sino a quel momento nessuno aveva mai fatto.

E non ce ne siamo vergognati: l’abbiamo fatto e ci siamo divertiti». Il suo atteggiamento verso la repressione sessuale è evidente: vedi la punizione di Miss Jones o la pazzia di Miss Aggie, ma anche la pruderie ipocrita di Bobbi in Fantasy, i dubbi di Marsha in Throat 12 Years After di fronte alla madre che le propone il doppio standard («gli uomini si divertono con il sesso, le donne si limitano a farlo»), l’iniziazione (forse un po’ eccessiva) di Joanna, e via dicendo. Di fronte a ciò, abbiamo la perplessità di fronte agli esiti della Sexual Revolution, condivisa da molti altri nel periodo: la nuova libertà sessuale non corre il rischio di trasformarsi in una pura coazione, che mette tra parentesi i sentimenti, la sfera affettiva, i rapporti tra le persone, prendendo l’aspetto della ricerca di un piacere assoluto e incontestuale, condannato all’eterno inappagamento?

È questo il modo in cui Damiano legge il tema, dandone – lo ammetto – una versione che risente della versione cristiana della relazione tra desiderio e colpa, che insiste cioè sull’impossibilità di dar fondo al godimento se si resta sul semplice piano del corpo: vedi il finale di Miss Jones, ma anche le analoghe conclusioni di Night Hunger e Portrait, Throat 12 Years After e Cravings, eccetera. Per Damiano la relazione tra corpo e desiderio sembra sempre offrire un’eccedenza (nell’accezione batailliana del termine). E se nei suoi film neri tale eccedenza assume quasi le cadenze della tragedia, negli hard più tradizionali la si risolve con gli strumenti del caso, accettando, per così dire, la contraddizione tra sfera del corpo e sfera dei sentimenti. In Joanna, infatti, questa si risolve al nero, con la morte dell’amato e l’accettazione dell’amante. Nel più banale Satisfiers of Alpha Blue il tema di Algon innamorato della refrattaria satisfier Diana è sciolto secondo la vulgata porno: infatti Algon, che prima si è sentito dire dalla donna che lei preferisce al troppo personale to fuck l’impersonale e animalesco fucking (il primo implica la relazione, il secondo indica il semplice atto), la convince della superiorità dei sentimenti rispetto al semplice fucking… con un convinto fucking! Conclusione paradossale e semplicistica, ma in linea con l’interpretazione un po’ rozza della rivoluzione sessuale da parte dei pornografi, tra i quali si schiera qui – ma non in Joanna e negli altri «neri» – persino il dubbioso Damiano.