EroSSvastika: il genere nazi all’italiana e le sue origini

Dai vecchi documentari americani fino ai precursori immediati degli erossvastika
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Nomen omen

“Il primo problema che ci si pone, nell’analisi di questo particolare sottofilone del cinema italiano, è il nome con il quale identificarlo. Taluni hanno indicato questi prodotti come “nazi-porno”; il termine, a dire il vero, ci sembra alquanto traviante, non essendoci alcunché di pornografico nei suddetti film. Altri hanno parlato di “sadico-nazista”, ma, come spiegheremo meglio in seguito, la componente sadico violenta non è comune a tutte le pellicole del genere”. Così Manlio Gomarasca, in apertura di un articolo-studio memorabile, apparso sul numero quattro della vecchia serie di Nocturno, in cui per la prima volta venivano gettate le basi per un serio approccio, storiografico e critico, al più infame  dei generi italiani, metteva la querelle terminologica al centro dell’obiettivo, concludendo a favore della definizione “neutrale” “nazi-cinema” o “nazi-filone”, in antitesi a quella “equivoca” di “nazi-porno” – sebbene sia un dato certo che alcuni esemplari (L’Ultima orgia del Terzo Reich e  La svastica nel ventre  sicuramente) circolarono in versioni estere con l’aggiunta di scene di sesso esplicito, appartenenti al “girato” originale – coniata da Antonio Bruschini e Antonio Tentori.  Guardando al di là delle frontiere, scopriamo che l’oscillazione tra “érotico nazi” – talvolta “porno (soft) nazi” – e “porno svastika” è comune anche alla critica francese, che a tutt’oggi, dopo quello di Nocturno, ha espresso il miglior saggio sull’argomento sulle pagine della fanzine  Shocking n. 2, mentre nel mondo anglosassone è in auge la sola definizione “nazi-movie”. Andando, invece, a spulciare la pubblicistica italiana contemporanea allo svilupparsi di questo  filone (che ebbe un periodo di rapida virulenza appena oltre la metà degli anni Settanta ma quasi immediatamente si oscurò nel giro di una sola stagione cinematografica, nel 1976/77), notiamo come il diverso modo di denominare i film rifletteva un sottile distinguo contenutistico; se con il termine “nazi-sexy (o eventualmente “puttano-storico”) si etichettava, infatti, la discendenza diretta di  Salon Kitty  di Tinto Brass e quindi la linea prettamente erotica del genere (la variante, per così dire, chic), “sexy-lager” (o “sado-storico” o “sadico-nazista” – variante plebea) alludeva invece al lignaggio di quelle trucissime pellicole, infarcite di sangue piuttosto che di sesso, che si richiamavano alla lezione congiunta di  Love camp 7  e di  Ilsa la belva delle SS.  Per la sua chiarezza e semplicità, oltre che per essere perfettamente evocativo, il termine “nazi” tout-court continua, comunque, a sembrarcii il migliore; e questo utilizzeremo d’ora in avanti, affiancandolo al più colorato neologismo, mutuato in parte dai francesi, “erossvastika”.

L’archeologia

Le scaturigini del “nazi” sgorgano da molto più lontano di quel che si pensa: pare che il primo film in cui erotismo e ignominie naziste venivano associate sia stato l’americano  After mein Kampf  (1959), di certo Ralph Porter, apparentemente un documentario su Hitler e sugli orrori dei campi di sterminio, realizzato con materiale d’epoca, nel quale si innestavano, però, situazioni fasulle girate per la bisogna, quali denudamento e visita medica di alcune prigioniere, lo stupro di una ragazza da parte di un soldato tedesco e qualcosa (ricostruito come  fiction  ma con presupposti storici) che mise in scena anche Bruno Mattei in  K.Z.9 Lager di sterminio, ovvero il tentativo di rianimare un prigioniero in agonia compiuto da due fanciulle discinte. Dello stesso periodo (1960) si segnala anche il documentario svedese  Den Blodiga tiden  (aka  Mein Kampf), del regista Erwin Leiser, un’opera seria e di tutto rispetto consacrata alla storia del nazionalsocialismo – almeno quanto al valore testimoniale delle immagini, perché il commento è dozzinale e noioso –, che aveva alle spalle l’esempio di un analogo film svedese di montaggio diretto da Tore Sjoberg nel 1956 ma distribuito negli Stati Uniti solo sei anni più tardi col titolo Mein Kampf II – Secrets of the nazi criminals. Benché tutte queste pellicole (alle quali si può aggiungere, del medesimo tenore,  Camps of the Dead) nascano con un fine di denuncia,  «il loro sfruttamento cinematografico», come leggiamo su  Shocking n.2, «fu perlomeno aberrante. I pubblicitari hanno presentato questi film come se si trattasse di film del terrore, utilizzando la formula allora in vigore: SEE  (VEDRETE!, ndr), nella tradizione dei distributori di titoli come “Teseo e il minotauro”: Vedrete le vergini prigioniere offerte in sacrificio al mostro minotauro, metà uomo, metà bestia…». Sul “tamburino” americano di  Camps of the Dead  si promettono, così, annunciati dal disegno del volto scheletrito del prigioniero di un lager, «orrori al di là di ogni cosa mai vista»  e si invoglia allo spettacolo del «treno della morte, delle pire funerarie del terrore, della donna vampiro e dei paralumi umani».  Stesso discorso per il manifesto di  After mein Kampf, al centro del quale campeggia la croce ansata con la scritta “Hitler’s sins unveiled” e lungo i bracci strilli del tipo : «See…Unbeliveable but true… the shocking Story of Nazi atrocities»; «See… The Crematorium ovens of Majdanek, Dachau and Auschwitz», o «See… Hitler’s Sadists leave their Shameless Mark!» . Questi documentari  non sono evidentemente in alcun rapporto con il “nazi” italiano degli anni Settanta, che nemmeno riconosce molto nella storia delle proprie origini l’influenza di pellicole come Kapò  (1960) di Gillo Pontecorvo – Susan Strasberg, reclusa in un lager, pur di non morire accettava di passare dalla parte degli aguzzini diventando kapò ma si redimeva nel finale; di rilevante c’era una sequenza, bollata dai  Cahiers  come “abbietta” (perché “spettacolarizzava” la morte), in cui la prigioniera Emanuelle Riva si suicidava gettandosi contro i fili dell’alta tensione, che Mario Caiano avrebbe emulato in  La svastica nel ventre . Nessuno ricordava certamente più, nel 1976,  Dieci italiani per un tedesco  (1961), diretto da Filippo Walter Ratti, il regista di  Erika  e  La notte dei dannati, che in questo caso affrontava però, con un’ allure  serissima e senza la minima concessione all’ exploitation, la ricostruzione del terribile eccidio delle Fosse Ardeatine, costato la vita a 335 italiani.

La storia

Seguendo la cronologia americana bisognerebbe, a questo punto, introdurre una pellicola capitale nella storia degli “erossvastika”, ovvero  Love camp 7, realizzato nel 1969 dal veterano del cinema “nudie” Lee Frost (alias David Kayne), nel cui curriculum spiccano i titoli di Mondo bizarro, Mondo freudo, The Scavengers  o  The Black Gestapo…; senonché  Camp 7 lager femminile, come lo titolarono da noi, attese sette anni prima di uscire nel nostro Paese, nel 1976, a ridosso del fenomeno degli erossvastika italiani cui diede al di là di ogni dubbio un potente incentivo. Nel frattempo, il poliedrico regista e produttore svizzero Erwin C. Dietrich (il suo nome è strettamente connesso al cinema di Jess Franco, ma produsse anche alcuni Vietnam movie di Antonio Margheriti) aveva posto in essere una pellicola altrettanto importante in rapporto al “nazi” italiano, quell’Eine Armee Gretchen  (1974), che in Francia e in Belgio si chiamò  Gretchen sans uniforme, in Inghilterra Fräulein without uniform, ma che, piuttosto incoerentemente, divenne  Fräulein in uniforme  nella più morigerata Italia, dove Bruno Mattei ne curò l’edizione. La sceneggiatura, derivante da una ricca filiera di romanzetti simil-porno (dei best-sellers, pare) scritti da un certo Karl Heinz Helms-Liesenhoff, gravitava intorno alle avventure delle “Gretchen”, “ragazzotte”, arruolate nell’esercito tedesco, come  extrema ratio, sul finire della Seconda Grande guerra; c’era quella che capitava in un gruppo di radiotelegrafiste lesbiche, quella, malata di leucemia, che sostituiva al fronte la sorella gemella, un’altra che subiva la violenza carnale di un SS e un’altra ancora innamoratasi di un partigiano. Il taglio, nonostante le apparenze, era “eroticomico”, con non nascoste velleità (che tali restavano) satiriche, ma la genuina filosofia sexploitation che sostanzia di sé un simile prodotto è già decisamente attigua a quella dei nostri “nazi”. Rimasto allo stadio d’embrione – ce ne giunge memoria solo grazie a una brochure promozionale pubblicata su un numero di  Variety  “speciale Cannes” del 1973 – è invece  Hitler’s wild Women  (o  The Women of Stalag 13), a quel che sembra di capire, guardando le polpose ausiliarie naziste in calze nere di nylon disegnate nell’illustrazione che fustigano e seviziano delle altrettanto curvilinee prigioniere, mentre un paio di ufficiali gustano la scena, un vero e proprio “erossvastika”  ante litteram. L’americano David Hewitt avrebbe dovuto dirigere questo film, da lui stesso scritto e coprodotto, seguendo con ogni probabilità il modello di  Love camp 7, ma fu obbligato a fermarsi per mancanza di fondi a meno di un terzo delle riprese.

Tra 1974 e ‘76 si avvicendano sugli schermi italiani  Il portiere di notte, di Liliana Cavani,  Ilsa la belva delle SS, di Don Edmonds, il film di Lee Frost, finalmente “sdoganato”,  Salon Kitty  di Tinto Brass e l’opera testamento di Pier Paolo Pasolini,  Salò o le 120 giornate di Sodoma; il gruppuscolo, in altri termini, delle pellicole che agirono da detonatore immediato all’esplosione dei nazi italiani ciascuna con una propria influenza specifica. Nel  Portiere di notte  la Cavani aveva indagato tra le pieghe dell’inconscio di una ex vittima dei campi di sterminio (Charlotte Rampling) e del suo ritrovato carnefice (Dirk Bogarde), scompaginando qualunque retorica dei sentimenti,  ma ciò che filtrò nel corredo genetico del “nazi” fu soltanto la superficie del rapporto sadomasochista di Max e Lucia, il fantasma della quale, vestita delle sole bretelle e del berretto da nazista e costretta a danzare in un postribolo per SS, sarebbe sempre aleggiato intorno alle successive eroine del genere, fossero Daniela Poggi in  L’ultima orgia del Terzo Reich, Sirpa Lane in  La svastica nel ventre o Elisabeth Tulin – la citazione più smaccata – in  Holocaust: i ricordi, i deliri, la vendetta (parte seconda). Il portato di  Ilsa agli erossvastika si misura soprattutto sull’esasperazione dei toni sadico-sanguinari (le più certamente influenzate in questo senso dal film di Don Edmonds risultano le due pellicole di Sergio Garrone,  SS Lager 5 l’inferno delle donne  e  Lager ssadis kastrat kommandatur) e sulla iperbole malvagia della figura di Dyanne Thorne: le tremende kapò del filone l’ebbero, infatti, sempre molto presente e almeno nel caso di Kaputt LagerGli ultimi giorni delle SS  si cercò un’attrice come Lea Lander che in qualche modo la ricordasse fisicamente, soprattutto per la durezza dei tratti somatici.

I “nazi”, come i film sulle carceri femminili, sacrificano spessissimo all’amore saffico, violento e prevaricante delle kapò sulle prigioniere (pressoché in ogni pellicola) ma talvolta, come pure nel w.i.p., languido e appassionato delle recluse tra loro o con guardiane innamorate ( Le deportate della sezione speciale SS). È una caratteristica che non si rifà a un preciso modello – la Thorne negli  Ilsa  non indulgeva a rapporti lesbici – ma continua un’ossessione voyeuristica peculiare di tutto il cinema sexploitation italiano; tuttavia, l’immagine della nazista lesbica è vecchia tanto quanto  Roma città aperta  di Rossellini.  Camp 7 lager femminile  è un coacervo dei temi fin qui visti, che in Shocking n.2 vengono così, efficacemente riassunti:  «… la visita medica sotto lo sguardo dell’SS con l’elmetto calato sugli occhi, il comandante sadico, pieno di inventiva nella crudeltà, le torture (soprattutto quella inflitta tramite un cavalletto ad angolo acuto sul quale una sventurata “terrorista” viene costretta a sedersi) e le più svariate umiliazioni (una prigioniera deve leccare – molto sensualmente, riconosciamolo! – gli stivali del suo carnefice), senza dimenticare i sottufficiali assatanati: c’è tutto, insomma, e ben dosato, quel che serve per stimolare le corde più perverse dei guardoni e degli erotomani». Del film di Lee Frost, in fin dei conti un fumettone ugualmente efferato e sgangherato, tecnicamente nullo ma storicamente importantissimo, scriveva, invece, Gomarasca su Nocturno nr. 4: “Quello che più stupisce guardando Love camp 7 è come, nonostante la trama e gli scarsissimi mezzi a disposizione, il film, girato alla fine dei Sessanta, sia incredibilmente in anticipo con i tempi […] Il cinema “nazi” italiano trovava così le sue radici e terreno fertile per attecchire…”.

(originariamente apparso in Nocturno book nr. 17, 2001)