Eriprando Visconti, tra la Carne e lo Spirito

Ripensando a La orca
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In uno dei più straordinari dossier di Nocturno che mi sia capitato di leggere (e di fare), Controcorrente, del febbraio 2004, è contenuto tutto ciò che occorrerebbe sapere, in astratto, del cinema di Eriprando Visconti. Il compendio critico ed esegetico, esemplare: limpidezza, sobrietà, perspicuità, precisione, della filmografia del minor Visconti, che i cari e gli amici chiamavano Prandino. Personalmente avevo sempre sottostimato Prandino, considerandolo noioso. Errore! Rientrando di recente nei meandri della sua opera, ho dovuto accorgermi, non solo che Una storia milanese, La orca, Oedipus orca, Una spirale di nebbia sono film ben superiori alla media, ontologicamente, strutturalmente e come tessuto connettivo; ma anche che lo Spirito è disceso più e più volte a battere alla porta di Prandino e gli è stato sempre aperto. La orca – ma se diciamo La orca intendiamo La orca ed Oedipus orca, poiché si tratta di un endiadi, di un corpo inscindibile – si insinua nell’intimo con la facilità di una lama rovente nel burro ma mantiene, rispetto a quel che mostra, una terza posizione che non è né il freddo, compassato, distante, punto di vista di Dio né un coinvolgimento patetico, fibrillante, retorico. “Scialati a guardare le nostre carcassonie” è l’unica citazione testuale che Prandino mette in bocca alla Niehaus dall’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, il livre de chevet che accompagna Alice nei giorni del carcere e oltre.

Lo spirito ha donato a Visconti lo scialo del guardare, quietamente, con placidità, senza fretta. La orca non si svolge canonicamente: il tempo della prigionia di Alice è ghiacciato, rallentato, un eterno ritorno di piccole cose, gesti, ritualità che potremmo accettare di vedere all’infinito senza stancarci, come Jeanne Dielmann. Visconti ha l’occhio del notomista, del perito settore, e del poeta: il primo tempera il secondo dall’essere troppo volatile o astruso; e la poesia media la crudezza del bisturi. Esemplifico: nella Orca c’è una scena in cui Michele Placido dà piacere a Rena Niehaus (che dorme o finge di dormire, legata al lettuccio della prigionia) e a se stesso, che non chiedeva di essere girata che nel modo in cui il regista la girò, in perfetto equilibrio su un sottilissimo discrimine: se l’obiettivo avesse scavato solo un millimetro di più nel sesso della ragazza o se si fosse fermato un millimetro indietro, lo Spirito avrebbe sdegnosamente distolto il suo sguardo. E invece è lì…