Elisa Carrera Fumagalli

A colloquio con l'altra (bella) metà di Indievolpe

Conosco Elisa Carrera Fumagalli (e di rimbalzo anche il suo compagno, nella vita e nell’arte, Francesco Foletto) per il tramite di una persona a me cara. Conosco, a dir vero, prima le opere di Elisa e di Francesco, prima di incontrare loro de visu. La loro realtà produttiva, Indievolpe, ha espresso finora una serie di corti che non ho timore a definire folgoranti – ne ho parlato in diverse occasioni su Nocturno. Non adulo né esagero, non è nel mio stile: penso davvero che le produzioni Indievolpe stiano diverse spanne sopra il resto di quel che si fa in Italia. Elisa è un’attrice di grande talento, che crede molto e sempre in quello che fa. Dalla conversazione che segue, lo si capisce con chiarezza, anche se a volte sembra prevalere un certo, sano, cinismo, che è tratto distintivo degli intelligenti…   

Elisa Carrera Fumagalli… Un nome importante, suona persino “nobile”…

Carrera l’ho aggiunto dopo. Perché come Elisa Fumagalli mi dicevano che non funzionava. Carrera dà invece quel certo tocco esotico. Carrera è il cognome di mia madre, che è di origine sudamericana, di Abancay, in Perù.

Beh, a guardarti bene, ce l’hai della sudamericana…

… O anche della persiana. A volte mi chiedono se sono persiana. In realtà, i miei bis bis bis nonni erano siciliani, che si sono prima spostati in Spagna e poi sono andati giù in Sudamerica.

Veniamo, dunque, a te…

Ho cominciato a studiare al liceo artistico, e ho sempre avuto la vocazione per il teatro. Fin da piccolina facevo spettacoli, ma restava lì, una passione… Al liceo artistico avevo scelto l’indirizzo della fotografia, e mio padre mi supportava in questo. Difatti, la fotografia è stato il mio primo lavoro. Volevo fare reportages, addirittura anche in territori di guerra. Però, alla fine, non so per quale ragione, ho tentato due accademie di recitazione: una era la Sofia Amendolea, a Roma, dove mi avevano presa. E poi il CTA di Milano. Alla fine decisi di rimanere a Milano, nonostante tutti mi dicessero di andare a Roma. Ma c’erano cose che mi tenevano a Milano e poi Roma aveva dei costi molto alti e avrei dovuto lavorare per mantenermi, ma stando in Accademia tutto il giorno, non avrei potuto. Quindi, mi iscrissi al CTA. Dal CTA non rimpiango nulla, nonostante tutti dicano Il Piccolo Teatro, Silvio D’Amico, Paolo Grassi, cioè le grandi accademie. Che poi, per me, quelli che escono da queste grandi accademie, sono fatti un po’ tutti con lo stampino. Al CTA devo il fatto di avermi dato la capacità di imparare a cavarmela: gli insegnanti mi hanno dato molto, dal primo all’ultimo, con i pro e i contro, e mi hanno permesso di andare all’estero a studiare, in Giappone con Tadashi Suzuki, a Berlino,  con Yuri Alshitz, e poi all’Attis Theatre di Atene, per studiare la tragedia greca con Theodoros Terzopoulos, altro grande regista molto amico di Tadashi Suzuki, perché i loro metodi sono molto simili. Al CTA ho fatto due anni, e nelle pause avevo questi workshop. Dal 2012 al 2014. Nei due anni del diploma, ho debuttato al Franco Parenti, dopodiché ho preso anche le due borse di studio e sono andata sia a Berlino, sia in Giappone.

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Finito il CTA, che hai fatto, come ti sei mossa?

Ho avuto subito la fortuna/sfortuna di prendere due grossi lavori: debuttai al Franco Parenti con Terrore e miseria del Terzo Reich e dopo un anno venni richiamata da Franco Parenti per una rassegna di Brecht, come prima attrice. E lì iniziai a rendermi conto che le richieste del regista, dopo un anno che non lavoravamo su questo testo, erano assurde, perché lui voleva che lo facessimo come la volta precedente. Ma le persone in un anno crescono… Avevo una testa diversa, non potevo sentirmi dire che quello che portavo nello spettacolo doveva essere la stessa cosa dell’anno scorso. Fatto questo spettacolo e sofferto tanto, capito nelle mani di Corrado Tedeschi, che mi ingaggia per il suo nuovo spettacolo e faccio due anni di tournée con lui, in L’uomo che amava le donne, ispirato all’universo di Truffaut, con momenti di poesia, momenti di risate, coinvolgimento del pubblico: era la prima volta in cui affrontavo un teatro diverso, e quella è stata un’altra scuola per me: cioè, Corrado Tedeschi mi ha insegnato un altro tipo di teatro, un altro approccio. Pensa che praticamente io non ho mai fatto prove, per questo spettacolo in cui interpretavo una sessuologa francese. Era bello perché cambiava forma tutte le volte. Come entravo in scena, c’era sempre qualche cosa di diverso. La cosa è durata due anni, poi mi sono rotta le scatole, più che altro perché mi sono accorta che il teatro non funzionava più… Nel mentre, insieme a Francesco Foletto, il mio compagno, avevamo fondato Indievolpe. Mi mandavano cose che non mi piacevano, sceneggiature, soggetti, così chiesi a Francesco perché non provava a scrivere qualcosa anche lui. E da lì scoprimmo questa incredibile capacità di Francesco di scrivere sceneggiature, profonde…

Io so che a quel punto, studiavate un allestimento dell’Elettra

Sì, in realtà si trattava di una performance, dal titolo Catene familiari, una sorta di installazione, uno spettacolo teatrale che si chiudeva su se stesso, e ricominciava dallo stesso punto. Per tre ore, circolarmente, gli attori facevano la stessa rappresentazione. Non partì mai, questa cosa, però. L’attore, e lo dico fuori dai denti, è una brutta bestia, e conto anche me stessa nella definizione. L’attore è molto egocentrico: o è tutto lui il protagonista assoluto o non si piega a fare piccoli ruoli, anche se, in realtà, il piccolo ruolo è quello che ti dà di più. E questo l’ho imparato da Yuri Alshitz, quando ho studiato a Berlino. Tutti erano concentrati a portare testi su Cechov, scegliendosi personaggi grossi, protagonisti. Io ricordo invece che scelsi Charlotte nel Giardino dei ciliegi, che è un personaggio “marginale”, ma, in realtà, è quello più ricco di tutti, dentro. E lì ho imparato che se anche il ruolo è piccolo, può avere un background molto più grosso di quello di un protagonista.

“Non esistono piccoli ruoli, esistono piccoli attori”, per fare la citazione dovuta…

Quindi, da lì, ho pensato: “A me di lavorare con gli attori… Io ho bisogno di qualcuno che la pensi come me: Francesco, facciamo qualcosa insieme…”. E a quel punto, abbiamo dato vita a Indievolpe. Sì, perché io, allora, ero molto triste: in quanto, appena uscita dalla scuola, ho lavorato su produzioni grosse, stiamo parlando di teatro, ma questa cosa paradossalmente mi ha tagliato le gambe. Perché in Italia si ragiona in questo modo: se l’attrice appena uscita dalla scuola ha fatto già cose grosse, “allora costa troppo, non la chiamiamo”. Quando io, in realtà, ho sempre accettato progetti senza budget o con low budget, perché credevo nel progetto. L’altro grosso problema sono le agenzie, che mettono i bastoni tra le ruote su queste questioni… Quindi, scatta l’operazione Indievolpe e cominciamo con i nostri progetti autoprodotti, credendoci con tutto il cuore. Sarebbe stato un percorso molto più lungo, più faticoso, è vero, però ci saremmo arrivati con le nostre forze. E non c’è cosa più bella, perché tu dici: faccio cinema come dico io, come voglio io. E le volte in cui ho provato a lavorare per altri, non ce la facevo più: perché erano troppo concentrati su loro stessi.

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Quindi, come Indievolpe avevate cominciato con l’Elettra, Catene familiari che non andò mai in porto. Poi…

Poi organizzammo un primo corto. Io avevo girato un film indipendente, che ci misero cinque anni a chiuderlo, Fenix, dove interpretavo una veggente. Un film di vendetta, di Maurizio Sala e Giuliana La Rocca. Dopo il teatro, avevo cominciato a mandare curriculum, su siti facebook eccetera, dove c’era la possibilità di candidarsi per dei progetti aperti. E feci la seconda stagione di una serie, Strips, una web-serie sul mondo delle fumetterie, che non è mai uscita. Ho sprecato cinque anni della mia vita a stare dietro a questa cosa, a spese mie, perché credevo nel progetto. Stiamo parlando del 2014. Finimmo di girare nel 2016. Ma non uscì. In questa serie conobbi un ragazzo che era il fidanzato di una delle truccatrici che lavoravano in Fenix e quindi venni a sapere che stavano girando questo film fantasy. Ed entrai lì. Il mio personaggio non era in sceneggiatura: loro avevano girato un film solo con un cast maschile e a una certa, dissero: “Ah, però manca la figa!”. Cioè, detto proprio così brutalmente. E quindi arrivai io. Mi sono divertita anche a girarlo, ma…

Ma…?

Ne ho viste troppe. Ho avuto troppe esperienze con questi soggetti del cinema indipendente. Ma non portava a nulla. Da lì ho cominciato a credere di più a Indievolpe, quindi a concentrare le energie sui nostri progetti. Il primo fu OPH, Ophelia, in cui ho coinvolto il direttore della fotografia di Fenix. Era un corto ispirato all’Ophelia, ma in chiave moderna. Francesco non lo ha diretto, lo ha scritto e basta. Infatti, venne stravolto lo script, per cui da lì in poi è passato Francesco anche alla regia. Dopo OPH, girammo Il mentalista, anche questo mai uscito finora. Io, nel mio percorso, ero andata a lavorare anche nella moda, come modella eccetera. E prima di frequentare l’accademia, avevo partecipato a un concorso, che si chiamava Diventerò un star, a Pisa, dove conobbi una ragazza, poi diventata velina. E lei diceva cose tipo: “Sono una mentalista” (ride). Intendeva che era un’idealista, e di qui, dunque, il titolo del corto. Il protagonista era infatti un nazista, che sosteneva di non essere un materialista ma un “mentalista”. Tutte le storie che scrive Francesco, attingono a fatti reali, a personaggi incontrati. Fu il primo corto da regista di Francesco, che lì faceva anche la fotografia. Io ero la coprotagonista del corto. A quel punto, a Francesco partì il trip del mondo cyberpunk e pensò per me al ruolo di una donna innamorata di una meccanoide in Lover’s Inn. Lì avevo come partner Denise Brambillasca, con la quale già avevo lavorato. Grande collega e grande amica e quando ci siamo trovate insieme sul set, eravamo proprio coinvolte. Vincemmo un premio al FIPILI 2019, per Lover’s Inn, del 2018.

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A quel punto, tu eri fissa ormai in Indievolpe…

Accettavo di girare con altri registi, sempre consigliati da contatti che avevo: ad esempio, con Davide Pesca feci Feed Me More, che era parte di un antologico di Domiziano Cristopharo, XXX Deep Web. Ho girato diverse cose per Domiziano. Io faccio l’attrice per me stessa, in primis, perché è l’unica valvola di sfogo che ho nella vita. A livello emotivo, ho proprio bisogno di questa valvola di sfogo. Sempre in Deep Web XXX, abbiamo realizzato anche l’episodio Eucharist, in cui ho firmato la regia, che era in realtà di Francesco. Anche in Feed me more abbiamo dato una mano a Davide Pesca… lì facevo la boia. Ho girato, poi, What have you done, Daniel?, sempre di Domiziano, con Lynn Lowry, l’attrice di La città verrà distrutta all’alba di Romero, che ancora non è uscito. Sono andata a Napoli due giorni, ma non ho incontrato nessuno del cast. E poi, sempre con lui, ho girato quella cosa cyberpunk, Blue Sunset, in cui sono una donna che fa innamorare il protagonista per cose sessuali, un personaggio erotico, di nome Wasp. In tutto ciò, mentre faccio queste cose, decido di entrare nel mondo delle agenzie: io avevo sempre fatto spot pubblicitari, anche prima dell’accademia. Ma sono cose che mi hanno sempre annoiato e le ho fatte solo per soldi. Mi ero levata dalle agenzie di Milano, perché mi facevano fare solo spot e ho cominciato a cercare altrove, su Roma. Fai conto che su trenta agenzie, mi rispose una sola. Le altre mi dicevano che una con le mie caratteristiche l’avevano già! E io mi domandavo: “Che caratteristiche? Non posso essere uguale a un’altra persona, perché io ho una mia identità, non sono una merce”.  Loro ragionano solo sulla base dei dati somatici: “Mediterranee ne ho già troppe…”. Che poi, potremmo anche discutere sulle capacità attoriali di interpreti che vengono rappresentate da agenzie grosse, però… stendiamo un velo pietoso. Così, entrai in questo giro di agenzie. Mi rispose Giorgia Vitale, la mia prima agente, che per due anni mi propose sì, qualcosa ogni tanto. Dico: “Boh, saranno tutte così, queste agenzie… O forse non valgo un cazzo, forse non ho una faccia italiana”, cosa che qualche volta mi è stata pure detta.

Giri, però, il corto Vendetta, che recensii anche su Nocturno

Lo avevo fatto prima di decidere di entrare nelle agenzie di Roma. C’erano dei miei amici stunt e facemmo questo corto, sotto casa mia, dove avevo uno spazio teatrale in cui mi allenavo sempre e facevo anche delle piccole lezioni per attori. Fu diretto da questi stuntmen. Francesco lì faceva l’operatore camera. Ho fatto due giorni di allenamento, abbiamo allestito due coreografie e poi, in sei ore, lo abbiamo girato, improvvisato, completamente. Era il 2017. Mandai questo corto, Vendetta, all’agenzia, per mostrare che sapevo anche combattere e mi hanno presa solo perché sapevo fare quella cosa lì. Fu così che riuscii ad arrivare a fare un provino importante, per Romulus di Matteo Rovere. Non avevo ancora visto Il primo Re, che era tutto in proto-latino, quindi mi mandarono il testo, con anche l’audio, per capire come si pronunciavano tutte le battute in proto-latino. Nel mentre, mio padre a dicembre mi regala un corso di equitazione. Faccio dunque il provino, dove mi dicono: “Ah ma tu sai anche combattere? Vediamo che hai questa skill… vuol dire tanto. Per caso, non è che conosci altri attori che sanno combattere?”. Chiesi consiglio alla mia agente, che mi suggerì di passare i nomi alla produzione. E alla fine, che succede? Che la piglio in quel posto. Io ho fatto il provino per il ruolo della madre di una che avrebbe dovuto avere la mia età! Quindi, me lo spiegate perché mi avete fatto spendere un sacco di soldi? In più, gli ho dato anche una mano per la ricerca del cast! Gratis e senza la minima tutela. Feci anche un altro provino per un programma della Rai, poi scopro che mi lasciano a casa, perché hanno preso gli attori di una scuola, gratis naturalmente. Mollai l’agenzia e trovai quella che è la mia attuale, la Ima Crew e con questa devo dire che mi trovo bene.

Riprendiamo il filo dell’Indievolpe. Eravamo rimasti a Lover’s Inn

Con Lover’s Inn andiamo al FIPILI, dove vinco un premio che mi dà un po’ di vitalità, una botta di vita. Ero contenta. Facciamo poi il corto Marmellone, in cui, però, avevo un ruolo a margine, quello della cattiva… che non avrei neanche voluto fare: a me lì andava di lavorare in produzione, perché, nel frattempo, cercavo di impratichirmi anche di quel linguaggio. Poi venne Innamorarsi, e lì ero protagonista, ancora insieme a Denise Brambillasca. C’era meno feeling, però, rispetto a Lover’s Inn. Io, quando lavoro, tendo sempre a creare un rapporto anche di amicizia con i miei partner, una sorta di amore platonico, perché devo capire chi ho davanti, ma questo per essere la più vera possibile in scena, sia in cinema sia nel teatro, che sia con un uomo o con una donna. In Innamorarsi, forse, non c’era, invece, la carica erotica giusta. Fummo selezionati in tre o quattro festival di genere LGBT, e andò molto bene su Prime video, come era andato bene Lover’s Inn: di solito, le storie saffiche funzionano. Dopo Innamorarsi, voglio fare un film in costume, quindi, voglio i cavalli, voglio i gufi, voglio farlo in una lingua straniera. E nasce La donna che abita la montagna, scritto fa Francesco sotto tortura da parte mia (ride). Avevamo scelto Adriana Papana, che fa la strega in questo corto, la quale, tramite un suo contatto, ci fece fare la traduzione in lingua gitana antica. E andiamo in scena con questo. Era un corto con un sacco di problemi di produzione, e io ero triste perché non riuscivo ad avere la concentrazione necessaria per lavorare bene il mio ruolo.

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Restare umani è l’ultima cosa che avete realizzato come Indievolpe

Sì, e devo dire che anche per me, a livello attoriale, ha rappresentato una grande soddisfazione. Perché Francesco ha avuto al pazienza di aspettare… ci abbiamo messo un anno, alla fine, per girarlo. Ha aspettato più tempo per permettermi di farlo bene. Mi ha dato la possibilità di perdere dieci chili, per questo progetto. Sai, in questo mondo spesso è difficile: lavori, non lavori… E avevo finito per prendere chili. Non stavo bene fisicamente, ho avuto un po’ di problemi collaterali. Così, nell’anno di attesa, durante il quale c’è stata anche la pandemia, ho potuto perdere peso. E con Francesco ci siamo concentrati a creare un team serio, con gente che lavora… In tutto questo, però, mi viene in mente che il secondo film che ho girato è stato Herbert West Reanimator, di Ivan Zuccon. Stiamo parlando del 2017. Feci un personaggio che mi diede soddisfazioni, perché interpretavo una donna che continuava a morire e ritornava in vita, sempre più distrutta, sempre più stanca e più confusa. Quindi è stata una bella prova attoriale. Ho sempre cercato ruoli di donne distrutte dalla vita, che hanno qualcosa da raccontare, qualcosa dietro. Tramite Zuccon, conobbi, poi, Alessio Cherubini, un collega, attore. Lo scorso settembre, 2022, Cherubini mi scrisse che c’era un suo amico, un regista di Forlì, che voleva fare un cortometraggio. Così, feci il primo provino, che passai, perché al regista piacevo molto. Mi chiese poi un secondo provino, che feci. Mi prese e partii per girare questo corto, sette giorni a Forlimpopoli. Lì trovai un team tecnico di professionisti, bravissimi, di Bologna. Primo giorno di riprese: arrivo e non c’era la scenografia, non c’era niente. Boh… Arrivo alla scena di dialogo e vedevo da parte del regista che lui, proprio, non aveva l’idea del linguaggio registico. Cioè, non sapeva neanche da che parte cominciare. Voleva fare un campo e controcampo, ma non ce la faceva. Così, i tecnici gli suggeriscono di fare un totalone. “No, voglio fare campo e controcampo!”. Alla fine, riescono a fargli entrare in testa di fare il totalone, perché non c’era spazio per girare la scena come voleva lui. Doveva essere un piano sequenza… beh a un certo punto, questo prende la macchina e si mette a inquadrarmi da sotto il tavolo. E secondo lui, quello faceva parte del piano sequenza. Vai a fargli capire che se stacchi e mi riprendi da sotto il tavolo, non è più un piano sequenza, appunto perché stacchi. E lì sentii la nuvoletta di Francesco che usciva dalla mia testa e diceva: “Non lo dovevi fare!” (ride).

 

DSC03944Come è andata a finire?

Che nel giro di un giorno, noi della produzione, abbiamo ribaltato tutto: io sono diventata, praticamente, produttrice della cosa, cioè ho fatto da assistente di produzione, trovando delle soluzioni per salvare questo progetto. Era un horror, con i due che avevano preso per fare i ruoli dei mostri, che non erano attori. Sono tornata da quel set e mi è venuta la polmonite. Tanto mi si era abbassato il sistema immunitario per lo stress. Nel frattempo ho pure un incidente in macchina… Comunque: a dicembre dalla mia agente mi arriva la proposta per un film indipendente.  Feci il provino molto contenta, perché cercavano un’attrice che sapesse andare a cavallo, con base di equitazione: che vuol dire che sai cosa è un cavallo e conosci la vita in scuderia. Con un inglese base e disposta a fare scene di nudo. Scritto da un attore americano. Lo trovavo interessante. Io ancora non conoscevo il regista, il suo mondo dietro eccetera. A dicembre faccio il provino e mi arriva il call back. Mi chiama la mia agente, dicendomi che mi vogliono rivedere e che il regista mi aveva inviato delle note di regia. Io ero al top, perché era da tanto che volevo fare un film con i cavalli. E poi ero protagonista assoluta. Dopodiché, a metà gennaio ancora non so nulla. Per cui, comincio a pensare di non essere stata presa. Finché, il 21 gennaio, mi arriva un messaggio su Instagram, del regista: “Ciao Elisa, visti i tempi stretti, sarei intenzionato a offrirti il ruolo, però devo chiamarti per spiegarti alcune questioni del personaggio. Sento te o parlo direttamente con la tua agente?”. Gli dissi che per il personaggio potevamo sentirci e che per le questioni burocratiche si poteva riferire alla mia agente. Mi chiamò spiegandomi che nel film ci sarebbero state scene di nudo, che per me non erano un problema, che ci sarebbe stata una scena violenta, in cui l’attore mi afferrava per i capelli, e nemmeno quello era un problema, avendo già io lavorato con degli stuntmen. Poi aggiunse che si sarebbe stata una scena in cui a cavallo dovevo saltare una cancellata di sessanta centimetri. Nell’euforia, dissi che non c’era problema nemmeno per questo. Sarei dovuta essere in location dal 2 febbraio, perché così avremmo fatto una settimana di prove, anche per conoscerci. Mi arrivano sceneggiatura e contratto, dove era scritto che se avessimo superato un tot giorni di riprese, sarei stata pagata 250 euro in più. Era tutto ok, mancava solo da inserire le date di inizio e fine riprese. Dopodiché, mi viene fatto avere un altro contratto, dal quale erano però scomparse le clausole dei giorni in più pagati: si parlava di un mese pieno, che poteva anche essere dilazionato, cioè interrompendo e riprendendo, a sua discrezione. Erano sei/otto ore di girato, più undici di riposo. Cosa che poi ho scoperto non è mai stata così. Però, dico, è un indipendente, ci sta che si sfora, lo sappiamo. C’era una scena in particolare, a mio avviso molto pericolosa, una scena al galoppo che non avevo idea, a livello registico, come la volesse fare, con questo cavallo libero che ci insegue nel bosco… Ripeto, con un cavallo libero. Se tu mi dici che la scena sarà pari pari a come è scritta, io ti dico no. Conosco i cavalli, ho una scuderia in gestione. So che i cavalli sono imprevedibili. “Ma sono cavalli da set, questi?”, è stato il mio primo pensiero. Perché, se non è un cavallo da set, si può spaventare per qualsiasi cosa. E lì ero titubante, perché mi sentivo anche in colpa: gli ho detto di sì… C’era anche la scena del salto della cancellata, dopo il galoppo. In tutto ciò, io parlo con la mia agente di questa scena e le dico: “Guarda, io la scena la faccio, però gli devi scrivere se mi prepara prima”. Lui, il regista, l’aveva messa come ultima scena delle riprese, l’ultimo giorno. E se succede qualcosa e mi rompo l’osso del collo, tanto il film, ormai, è stato girato. Io le scene a cavallo te le faccio, però mi devi mettere nelle condizioni di sicurezza e garantirmi che se succede qualcosa sono cavoli tuoi, poi. Lui rispose, tramite la mia agente, che non mi avrebbe dato la controfigura, perché il film avrebbe perso di valore commerciale. Quindi, quelli che fanno gli Avengers eccetera, sono tutti dei coglioni? Dopodiché, ho scoperto che tutti gli attori uomini avevano le controfigure. Alla fine, dopo che hanno tentato di trovare una quadra con la mia agente, lui, probabilmente, si è sentito attaccato, non so, ha mollato il colpo e ha detto: “Va bene, allora ciao!”. Così, è rimasto senza attrice. Però, mi aveva contattata a una settimana dalle riprese, quindi ci diede la colpa che adesso avrebbe dovuto rivalutare una nuova attrice in extremis e che rischiava di posticipare le riprese e bla bla bla. La mia agente gli ha risposto: “Non è un problema nostro se ci scrivi a una settimana dalle riprese”. Vabbè, alla fine la sostanza è che ho fatto bene a non fare il film, perché è successo di tutto su quel set e alla fine il regista si è ritrovato un’attrice che non gli piaceva e che è stata mandata lì senza aver firmato un contratto, inizialmente. E questa non sapeva nemmeno andare a cavallo, povera Crista. Chissà se uscirà mai questo film…