Dossier La casa (Evil Dead)

Come venne alla luce un capolavoro
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Quella notte Abigail si svegliò di soprassalto. Intorno a lei le pareti di legno sembravano vibrare. All’improvviso la stanza si illuminò di bianco, fotografando con quel flash-naturale una bambina tremante avvinghiata nel letto. Poi il tuono esplose. Fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. La paura affondò i denti aguzzi nello stomaco della piccina e in un battibaleno Abigail fu fuori dalle lenzuola. Era la prima notte che dormiva nella nuova casa e quell’ambiente estraneo le sembrò un luogo tetro e inospitale. Correndo fuori dalla stanza cominciò a urlare, «Mamma, mamma!» senza ricevere alcuna risposta. All’esterno, la tempesta impazzava. La stanza della mamma era avvolta dalle tenebre, ma poi un altro flash illuminò l’ambiente. Sul letto il corpo della madre era fermo, immobile, senza vita. A nulla servirono gli sforzi di Abigail per destarla. Calde lacrime le solcavano il viso mentre la morsa allo stomaco peggiorava. La piccola si precipitò urlando verso la camera della nonna. La porta era socchiusa. Dall’interno non proveniva alcun suono. Abigail si fece coraggio, ripetendosi che tutto sarebbe andato bene. Ma niente sarebbe andato bene. Sul letto giaceva la nonna. Sembrava dormire, serena, ma i suoi polmoni avevano esalato l’ultimo respiro. Sconvolta dall’orrore, la piccola cominciò a correre per la foresta. La pioggia si mischiava alle lacrime e i rami degli arbusti graffiavano la pelle, ma Abigail non aveva la forza di porre un freno alla fuga disperata. Il suo cervello era andato altrove… per sempre. I soccorritori la trovarono un giorno e mezzo più tardi. Era salva ma irrimediabilmente sotto shock. Nei dintorni si diceva che la casa nel bosco fosse infestata. Lo si diceva fin dall’epoca in cui fu costruita, durante la Guerra Civile, quando il suo proprietario morì accidentalmente colpito da un fulmine mentre sistemava l’ultima pietra del camino. La gente del Tennessee è superstiziosa tanto da lasciare la casa senza padrone per molti anni. Fino a quel tragico giorno quando tre donne, stremate dalla fame e dalla povertà vi trovarono rifugio. Era il 1925. Quella stessa notte, durante una tempesta di fulmini, madre e figlia morirono contemporaneamente per cause naturali. Una coincidenza? Per la gente del luogo era la maledizione che si compiva e la casa sarebbe rimasta disabitata per lungo tempo, diventando presto il cesso preferito dei naturali abitanti della foresta. Un giorno però una ridotta troupe di filmmaker del Michigan, decise che quella sarebbe diventata la location ideale per girare il loro primo film. Un film dell’orrore. Durante le riprese scoppiò un grosso temporale. Mentre i lampi illuminavano i giovani volenterosi che mettevano al sicuro le attrezzature, gli occhi sbarrati della vecchia Abigail scrutavano la scena. Quella sera, come spesso capitava quando pioveva, era scappata dalla casa di riposo per tornare là dove il suo incubo era cominciato. Nessuno della troupe si accorse di lei.

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In quella casa c’era qualcosa di sinistro, ma per Ash e i suoi amici era solo un rifugio dove passare qualche giorno di vacanza. Era una capanna sperduta nel bosco e per arrivarci bisognava attraversare un ponte di assi marcescenti, ma, si sa, quando si è giovani e spensierati nulla fa veramente paura. Il luogo era un po’ dismesso e alquanto tetro, ma il posto più inquietante era lo scantinato. Per accedervi bisognava scendere per una botola che sembrava portare dritto dritto all’inferno. Nell’oscurità i giovani trovarono un libro rilegato in pelle e un registratore. Spinto dalla curiosità, il più temerario del gruppo si mise ad ascoltare. Le bobine, incise chissà quanto tempo prima, rivelarono la storia di un ricercatore che era entrato in possesso di un antico libro, Il Libro dei Morti, capace di risvegliare oscure forze demoniache. Andare avanti ad ascoltare la registrazione non era forse la cosa più saggia da fare, ma si sa, quando si è giovani e spensierati si è anche alquanto coglioni. E così il bosco prese vita e gli spiriti dei non-morti si impossessarono dei corpi dei ragazzi uno a uno, trasformandoli in mostri putrescenti. Solo Ash sarebbe sopravvissuto alla lunga notte dell’orrore, ma avrebbe pagato un prezzo forse più alto della vita. Quando Sam Raimi pensò alla storia di Book of Dead non aveva le idee chiare. A lui i film dell’orrore non è che piacessero poi tanto. La passione gliela aveva trasmessa il compagno di giochi Scott Spiegel che l’aveva costretto a guardare i classici del genere come Le colline hanno gli occhi (The Hills Have Eyes, 1977) e Halloween. Halloween fu amore a prima vista, ma Le colline hanno gli occhi era il tipo di film che Raimi voleva fare e non è un caso che nello scantinato di La casa si veda appeso alla parete un frammento del poster. La storia quindi venne fuori di getto secondo tre linee guida fondamentali: 1) Gli innocenti devono soffrire, 2) Il colpevole deve essere punito 3) Bisogna assaggiare il sangue prima di diventare un vero uomo. Certo l’idea di un gruppo di ragazzi intrappolati in un luogo chiuso e massacrati uno dopo l’altro non era proprio nuova ed è facile riconoscere nel plot echi di La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968) e soprattutto di Non aprite quella porta (The Texas Chain Saw Massacre, 1974), ma in quella storiella di maledizioni e possessione c’era anche qualcosa di assolutamente originale. Prima di tutto c’era l’intuizione di collegare il massacro a un libro. Un libro che in un primo momento doveva essere ricondotto alla tradizione sumera appena studiata da Raimi a scuola e che in seguito sarebbe stato sostituito dal Necronimicon di lovecraftiana memoria. E poi c’era la voglia di usare la storia come un banale pretesto. Un pretesto per mostrare qualcos’altro. Dopo un’infanzia votata al Super-8 e ai circuiti amatoriali, il poco più che ventenne Sam Raimi era deciso a dimostrare la propria abilità tecnica. A differenza di un cinema votato quasi esclusivamente al grandguignolesco, Raimi avrebbe usato l’effettaccio come specchietto per le allodole per attrarre lo spettatore nel proprio universo. Un universo fatto di forma e movimento, in cui il linguaggio diventa drasticamente sostanza e contenuto.

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Rispetto a Within the Woods l’idea alla base di Book of Dead era di cambiare la dinamica dei personaggi. Questa volta a tentare di sopravvivere all’inferno doveva essere l’uomo. Naturalmente il protagonista, Ash, l’avrebbe interpretato Bruce Campbell, che oltre a essere uno dei produttori del film era anche diventato l’attore feticcio di Raimi dopo un’infanzia passata insieme a giocare al cinematografo. Raimi, Tapert e Campbell fondarono la Reinissance Pictures nell’agosto del 1979 a ridosso delle riprese di Whitin the Woods, che servì come biglietto da visita per rastrellare qualche soldo per la produzione di Book of Dead. In breve misero da parte un budget di 150.000 dollari. Ne servivano almeno il doppio, ma, ne erano sicuri, sarebbero arrivati. Quella sera era buio pesto. La ragazza era rimasta nel negozio oltre l’orario di chiusura e stava provandosi dei completini intimi, quando all’improvviso capì di non essere sola. Anzi no. Una ragazza faceva la commessa in un negozio di lingerie. Era quasi notte, ma lei era ancora lì che lavorava. Questa volta le toccava completare l’inventario. All’improvviso un rumore, c’era qualcuno nel negozio. La ragazza si fece coraggio, uscì timidamente dal magazzino e si avventurò nel buio. Un movimento alla sua destra. Qualcuno le si parò dinnanzi. Non era possibile: uno dei manichini aveva preso vita ed era pronto ad aggredirla. Boh! Forse non era neanche così. Chi lo saprà mai di cosa parlava Terror at Lulu’s il cortometraggio che il dinamico trio (i tre Stooges) della Reinissance Pictures aveva girato subito dopo Within the Woods. In fondo nessuno credeva nella storia, a loro interessava… sperimentare. Avevano sentito dire che era possibile gonfiare un film da Super 8 a 35 mm senza perdere troppo in qualità e volevano testare il processo prima di utilizzarlo per Book of Dead. Siccome non esiste negativo quando si gira in Super 8. non volevano prendersi il rischio di perdere l’unica copia di Within the Woods e così era sembrato naturale girare un nuovo corto da sacrificare in nome della scienza. Del resto bastava una notte di riprese nel negozio di lingerie della mamma di Sam e il gioco era fatto. Così quel pomeriggio nella sala del Maple Theatre, che i tre avevano faticosamente convinto a farsi prestare per vedere il miracolo, la tensione vibrava nell’aria. Quando calarono le tenebre e il fascio di luce illuminò lo schermo la tensione evaporò immediatamente nell’aria e lasciò il passo… al vero terrore. Il film faceva paura? Peggio, faceva schifo, la grana era espansa per tutto lo schermo e Terror at Lulu’s era semplicemente… semplicemente… impresentabile. Bye bye Lulu e bye bye sogni di gloria.

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Fu Tapert a dare nuova fiducia allo sgangherato trio. Il film si sarebbe fatto in 16mm e in qualche modo avrebbero tirato su la cifra necessaria. Le questioni finanziarie sono una roba noiosa e quindi ve le risparmio, ma una cosa bisogna dirla: Tapert sapeva il fatto suo e sapeva convincere le persone. I soldi arrivarono. Si poteva cominciare. Le due nuove figure chiave che contribuirono al successo del film furono sicuramente il direttore della fotografia Tim Philo, che aveva lavorato in alcuni film alla Wayne State University, e il responsabile degli effetti speciali trucco, Tom Sullivan, che aveva già dato il suo apporto a Within the Woods. Poi fu la volta del cast. Bruce Campbell avrebbe interpretato Ash, mentre sua sorella Cheryl, l’avrebbe fatta l’ex fidanzata di Within the Woods, Ellen Sandweiss. La cheerleader Betsy Baker, che all’epoca non aveva alcuna esperienza recitativa e che quando incontrò per la prima volta i tre produttori pensò a un gruppo di ragazzini che aveva voglia di scherzare, avrebbe invece interpretato la virginale ragazza di Ash. Per il ruolo dei due fidanzatini, Shelly e Scott, invece furono scelti due giovani di buone speranze e nessun curriculum, Teresa Seyferth e Rich DeManincor, che sognavano di fare gli attori tanto da iscriversi allo Screen Actor Guilt d’America. Lo SAG è un sindacato che prevede un compenso minimo per gli attori aderenti, compenso che la Reinassance non si poteva ovviamente permettere (la paga degli attori non doveva superare i 100 dollari alla settimana). Così, per prendere parte alle riprese, i due giovani furono costretti a cambiare i nomi in Sarah York e Hal Delrich… «Tanto quel film non l’avrebbe mai visto nessuno!», pensarono, esattamnte quello che pensò un anno prima Ken Foree quando accettò di girare Zombi (Dawn of the Dead, 1978). Genii!

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A Stephen King non piace viaggiare. È una specie di orso che vive in riva al lago, lassù da qualche parte nel freddo del Maine. Il cinema a mr. King ha sempre tirato la giacchetta. A capirne davvero il potenziale è stato un italiano, Dino De Laurentiis, che gli ha dato il tormento e si è preso cura di lui quando aveva la febbre. Alla fine l’ha convinto persino a girare un film. Uno solo… per fortuna. King e il cinema da allora sono però diventati una cosa sola e nel 1982, il prospetto di qualche soldino in più e un entusiasmo ancora giovanile per quella bizzarra arte, lo avevano spinto fino in terra francese, a Cannes, per prendere parte alla promozione del Creepshow scritto per l’amico George A. Romero. Tra un’intervista e l’altra, King si lasciò trascinare insieme al produttore Richard Rubinstein a vedere un film che l’amico Irvin Shapiro stava cercando di vendere al mercato del cinema. Dopo la proiezione, King esclamò: «Porca paletta!» o qualcosa di simile. Era visibilmente sconvolto e non faceva altro che parlare di quel piccolo film dell’orrore che lo aveva terrorizzato a morte. Shapiro – che aveva già la sua bella età e il vanto di aver fatto conoscere Godard agli americani – sorrideva sornione. Lui e lo scrittore si erano conosciuti proprio per Creepshow, visto che Shapiro si era prodigato nell’aiutare a trovare i finanziamenti. «Ma dove l’hai scovato questo coso qua?» chiese King ancora estasiato. Shapiro: «Ti piace davvero? Pensa che il titolo l’ho inventato io. Se vuoi ti presento il regista: è quasi un bambino, si chiama Samuel Raimi».

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Nel novembre del 1979 Sam Raimi e compari non avevano ancora minimamente idea di chi fosse Irvin Shapiro. Loro erano tutti eccitati perché stavano andando a girare il primo lungometraggio in 16 mm: Book of Dead e lo avrebbero fatto in Tennessee, perché il Michigan in quel periodo dell’anno era troppo freddo. Anche in Tennessee faceva un freddo boia, ma anche questo, allora, non lo potevano sapere. Fatto sta che ai primi di novembre stavano già spalando merda di scoiattolo dal pavimento della capanna che sessant’anni prima era appartenuta ad Abigail e alla sua famiglia. Il 14 novembre di quell’anno si batte il primo ciak. Raimi si scatena. Gira tutte le scene dell’arrivo della macchina coi cinque protagonisti sdraiato sul tetto di un furgoncino. Aveva preparato di suo pugno tutta una serie di storyboard per aiutarsi durante le riprese ma poi non li rispettava mai, almeno così sostiene l’amico Tapert. Il 26 novembre iniziarono le riprese dentro il cottage. Si lavorava diciotto ore al giorno. Bruce Campbell faceva di tutto, compreso cospargere il pavimento della casa con un liquido vischioso di colore rosso. Raimi non girava praticamente mai una scena master, ma voleva che l’azione fosse ripresa da tutte le angolazioni possibili, con enorme spreco di doppioni e rifacimenti, non rendendosi conto che senza indicare alcuna preferenza alla fine di ogni ripresa il montaggio si sarebbe trasformato in un incubo. Il cottage fu letteralmente fatto a pezzi e rimontato e poi distrutto di nuovo. Dove prima c’erano solo muri, adesso c’erano finestre e intercapedini per facilitare le riprese. La troupe si inventò persino una specie di steadycam artigianale con delle assi di legno e una gru a cestello. Si lavorava celermente ma il tempo passava inesorabile. Alla fine delle sei settimane previste la produzione era ancora in alto mare e a fine dicembre il conto era prosciugato. I tre della Reinissance decisero allora di provare a convincere gli attori e i membri della crew ad accettare alcune quote del film per terminare le riprese, ma non ci fu niente da fare. Uno dopo l’altro tutti abbandonarono il set, lasciando i tre soci a reggersi il moccolo. Alla fine rimasero solo Sam, Rob, Bruce e un paio di volenterosi amici a girare per altre cinque settimane. La sceneggiatura fu adattata alle nuove esigenze, Rob e gli altri interpretano le controfigure degli attori – li chiamavano i Falsi Shemping, per il fatto che lo Shemp Howard dei Tre Marmittoni dopo la sua scomparsa era stato rimpiazzato dalla controfigura Joe Palma, creando un corto circuito nel cervello del piccolo-fan Sam Raimi. Lo stesso Raimi fu costretto a mettere mano alla macchina da presa dopo la partenza di Tim Philo. Fu in quell’occasione che nacquero gli assoli di follia di Ash, quando il povero Bruce Campbell, rimasto l’unico attore sulla scena, si trova a misurarsi con un pericolo invisibile che lo insegue per tutta la casa. Sono le suppellettili, il pianoforte, la pendola, le lampadine, il giradischi e altri oggetti inanimati a far da contraltare a un Campbell allo stremo delle forze, ed è l’occhio scatenato di Sam Raimi a creare quell’insostenibile sensazione che prelude all’orrore che avverrà. È incredibile, col senno di poi, pensare come facendo di necessità virtù ha dato vita a uno dei momenti più significativi e innovativi di un film che avrebbe di lì a poco cambiato la storia del cinema dell’orrore.

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«Senza nessun dubbio il film più feroce del 1982. La casa ha il semplice e stupido potere di una buona storia del terrore di fronte al fuoco del campeggio, ma questa semplicità non è un effetto indesiderato. È qualcosa di attentamente orchestrato da Raimi, che è tutto tranne che uno stupido. Non sembra un granché, ma neanche lo sembrerebbero Hansel & Gretel o Barbablù nelle mani di un cantastorie senza talento. Quello che Raimi realizza con La casa è un arcobaleno nero di orrori. Nel film la macchina da presa ha quella fluidità sognante che si può associare al primo John Carpenter, si tuffa, scivola e zooma così velocemente che non riesci a coprire gli occhi con le mani. Il film inizia e finisce con riprese talmente pazze e esilaranti che ti verrebbe voglia di balzare in piedi e fare il tifo. Non si ferma mai, è over the top, una tempesta dentro una bottiglia. Fa davvero paura e penso che Sam Raimi abbia capito che quell’emozione non si poteva ripetere. E così quando ha fatto gli altri film, La casa 2 e L’armata delle tenebre, ha fatto solamente dei buoni film che lavoravano su altre emozioni.» (Stephen King)

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Stephen e Nik la presero sul personale. E come potevano non farlo visto che rischiavano di finire in prigione. Vabbé lasciamo perdere che ci rimettevano anche un bel po’ di dindi per quel filmetto horror uscito in quasi contemporanea al cinema e in home video e che si era rivelato la cassetta più noleggiata in Inghilterra nel 1983. Ma, for God’s Shake!, qui si rischia la gattabuia. E dire che Stephen Woolley e Nik Powell avevano avviato la loro società, la Palace Pictures, come referente per il cinema d’autore europeo. Cinema che ovviamente non incassava una cippa e per far quadrare i conti ci voleva un bel film di genere, magari un horror, che costasse poco e piacesse ai giovani. E pensare che dopo la sera della prima, il 15 ottobre del 1981 al Redford di Detroit, al cospetto di un pubblico ululante di teenager e degli investitori, nessuno sembrava interessato a distribuire il povero Book of Dead. Sam e Rob, a Los Angeles, in quel primo sognante viaggio a Hollywood, si videro chiudere in faccia tutte le porte degli Studios e degli indipendenti. Solo la New Line si dimostrò interessata ma non voleva sborsare il becco di un quattrino. Meno male che alla fine capitarono nell’ufficio del pubblicitario Irvin Shapiro che, dopo aver visto il film, disse: «Bene ragazzi, è il vostro giorno fortunato, penso di potervi far fare qualche soldino». Shapiro si occupò sia delle vendite estere che della distribuzione nazionale e fece incontrare Stephen King a Raimi. Fu abbastanza scaltro da capire che le parole di King avrebbero fatto da traino al film più di qualunque altra campagna pubblicitaria. Organizzò una serie di scatti promozionali con Bruce Campbell e l’amica modella in baby doll, Bridget Hoffman (che in seguito avrebbe avuto piccoli ruoli in I due criminali più pazzi del mondo e Darkman), mentre fronteggiavano i demoni a colpi di sega elettrica, e soprattutto impose il cambio del titolo. «Chiamiamolo The Evil Dead Men and The Evil Dead Women. Anzi, no!, chiamiamolo Evil Dead». Il film fu bollato X (come i porno) e negli Stati Uniti venne relegato nei circuiti minori e nei drive-in. In Italia sarebbe uscito solo nel 1984 con il titolo La casa, mentre tra l’ottobre e il novembre del 1982 il film si sarebbe visto al festival di Sitges, a quello del fantastico di Parigi e a quello di Londra. Fu proprio in Inghilterra che La casa esplose diventando un fenomeno di culto grazie al mercato delle cassette. Peccato però che, per mantenere l’ordine istituito e per avvantaggiare le major che si vedevano private di una grossa fetta del mercato dai distributori indipendenti, Scotland Yard dichiarò guerra alla violenza nei film. Iniziò la caccia alle streghe ai famosi video-nasty. La Palace fu denunciata per oscenità e un incredulo Sam Raimi dovette prendere l’aereo per testimoniare al processo. Peccato che al momento di deporre il giudice lo liquidò dicendo che in quella sede non erano rilevanti gli intenti del regista. Allo sconsolato Sam non restò che riprendere il primo aereo disponibile per gli Stati Uniti con l’amaro in bocca e senza la minima consapevolezza che la sua vita fosse cambiata… per sempre.

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C’era sangue sulle assi. Era sangue vero non quella melassa rossiccia che spalmavano sul pavimento della capanna qualche metro più in là. Quello era proprio sangue umano. Ellen Sandweiss guardava i suoi poveri piedi martoriati. Erano tutti rossi. I ragazzi avevano messo delle assi sull’erba per permetterle di correre a perdifiato nella foresta, ma non erano serviti a proteggerla dalle spine. Anche gli arbusti avevano fatto la loro parte, solcando la pelle bianca e regalandole una serie infinita di piccoli graffietti doloranti. E poi, caspita, faceva un freddo becco e lei era praticamente nuda. Ebbe quasi una crisi isterica, ma non fu quello il momento peggiore. Le fece più male vedere l’espressione di suo padre alla prima del film quando quel grosso tronco le si conficcava dritto dritto lì, in mezzo alle gambe. Era stata stuprata dalla foresta. Certo aveva accettato di mostrare il seno quando le liane le cingevano le vesti, ma di quel grosso coso giurava di non saperne niente e che l’avessero messo quei tre malandrini dopo, in post-produzione. Anche Betsy Baker aveva preso delle belle tranvate in testa anche se il legno era di balsa, senza contare poi il male di quelle lenti a contatto bianche che rendevano cechi. Sam sembrava dispiaciuto per la sofferenza inflitta, ma soprattutto gli rodeva di non aver pensato di farla recitare nuda. «Come se ci fosse qualche possibilità che accettasse…» direbbe Tapert. Bruce Campbell fu quello che si fece più male, ma niente di così grave da interrompere le riprese e una volta Raimi rischio di rimanere fulminato. Alla fine fulminata ci rimase la capanna che andò distrutta da un fulmine mesi dopo la fine delle riprese con buona pace della povera Abigail.