Dirty Movies – Le parolacce nella Settima Arte

Dal celebre bottana industriale al record di fuck
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“Che vita di Emme!”…. “Ma va a schiacciare i tasti FU!”. In ufficio ci si trattiene dal turpiloquio esplicito. Al cinema no. Il record di “fuck” (si traduce letteralmente “fotti”, però sta per il nostro “cazzo”) lo ha totalizzato Pulp Fiction (1994) di Tarantino con 283 FUCK, 187 solo nel quarto episodio. Il primato assoluto, in generale, è del 2013 e spetta a The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese: 687 parolacce, 3 al minuto. La parolaccia nei film è sdoganata da tempo. Ci sta, in mezzo a due ore di dialoghi, fin dai capolavori di Risi, Fellini, De Sica, Monicelli, Visconti. Lo raccontano Gianni Canova, direttore editoriale di 8 e mezzo, che ha presentato ieri al Lido di Venezia il numero di settembre, tutto dedicato a questo tema, e Vito Tartamella, anima del blog www.parolacce.org e autore dell’omonimo libro, in una divertente conferenza. Quarantacinque anni fa il cult movie di Lina Wertmueller Travolti da un insolito destino in un azzurro mare d’agosto fu proibito ai minori di 14 anni non per le scene di sesso tra Giancarlo Giannini e Mariangela Melato, bensì per il turpiloquio. E se ancora oggi ce lo ricordiamo (ancora di più il 27 ottobre, quando la regista novantenne prenderà l’Oscar alla carriera), è anche per quel “bottana industriale socialdemocratica” che in poche parole sottolineava i contrasti forti tra Nord e Sud Italia, poveri e ricchi, capitalisti e comunisti, come sottolinea Vito Tartamella. Ma è sul “sodomizzami” che si scatenò la censura.

La milanese Raffaella lo chiede al pescatore incontrato sulla spiaggia. E lui le risponde con una riflessione sul sesso e sull’amore, dice in sostanza che è una parola borghese, che sarebbe stato meglio dire “inculami” (senza però usare questo termine). “Tra i più bravi a usare le parolacce c’è Carlo Verdone”, sostiene Canova. Se il primo scopo del turpiloquio al cinema è liberare dai tabù, il secondo scatenare la comicità (per Tartamella anche Checco Zalone sta sul podio). Ma naturalmente bisogna saperci fare anche in questo caso. Dosare tempi e modi. Scriveva già Italo Calvino sul Corriere della Sera nel 1978 “La nostra lingua ha vocaboli di espressività impareggiabile: la stessa voce CAZZO merita tutta la fortuna che dalle parlate dell’Italia centrale le ha permesso di imporsi sui sinonimi dei vari dialetti… La locuzione oscena serve come una nota musicale per creare un determinato effetto nella partitura del discorso parlato o scritto. Questo implica una speciale orchestrazione altrimenti la forza espressiva si ottunde, si logora, si spreca…”. Sì dunque a Fantozzi che definisce La corazzata Potemkin “una cacata pazzesca” e a Cecile de France che in uno dei film più delicati di questa 76esina Mostra del Cinema di Venezia (Un monde plus grand della regista Fabienne Berthaud) a un certo punto esclama “Merd!” nel più tipico stile francese. No a rosari di volgarità come quelli di Benigni in Berlinguer ti voglio bene.

“In passato c’era la figura del parolacciaio che aiutava gli sceneggiatori a trovare i termini giusti per esprimere la rabbia, lo sfogo” ricorda Canova. In Italia abbiamo l’imbarazzo della scelta, soprattutto nei dialetti. Tartamella, giornalista scientifico, si occupa dell’argomento da 14 anni e conferma che siamo nella hit parade (si potrebbe scrivere hot…) dei popoli dalle espressioni più “colorite”. Insieme a inglesi, francesi, spagnoli e portoghesi. In fondo alla classifica,gli scandinavi e i tedeschi perché “le lingue nordiche sono più sterilizzate emotivamente”. Prevalgono gli insulti geografici (Mongolo, Lesbica, Troia, che viene dalla ricetta greca della scrofa ripiena paragonata al cavallo di omerica memoria e d’altra parte alle donne di facili costumi ma in apparenza perbene); quelli sessiti (puttana, frocio, figlio di puttana), i primitivi (stronzo bestiale, tra le più recenti). Mentre i meno tollerati sono le offese all’onestà (mafioso) e sopra tutti le bestemmie. Anche al cinema. Tanto è vero che i film italiani in cui si “nomina il nome di Dio invano” – come Novecento di Bertolucci- si contano sulle dita di una mano.