Di porno si muore guardami…

Davide Ferrario ambienta nel mondo dell’hard la storia edificante di un’attrice a luci rosse che nella malattia trova la via del “riscatto”. Sesso esplicito & moralismo?
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In occasione dell’uscita di Guardami di Davide Ferrario, nel lontano luglio ’99, l’allora direttore di Nocturno, Andrea Giorgi, si chiedeva: «Se l’immagine hard è sempre esistita perché solo oggi, 102 anni dopo che il cinema è stato ufficialmente inventato, si parla con clamore di porno che esce dal ghetto delle luci rosse? E come si è arrivati a questa estremizzazione di contenuti che è soprattutto estetica? Questione di censura o di limiti del mostrabile? Esigenze di mercato o semplici invenzioni giornalistiche?».
Ferrario ha avuto – e questo gli va riconosciuto, soprattutto in un Paese come il nostro – il coraggio di inserire nel film una scena hard, ovvero un pompino (pur accennato), da parte della protagonista Elisabetta Cavallotti: il beneficiario è un notevole cazzo in erezione. Ed è questo che più conta quanto a novità nella liberalizzazione dell’immagine in Italia, laddove un uomo in erezione, salvo rarissime eccezioni, è stato, fino ad allora, e in buona parte lo è ancora adesso, quanto di più proibito si possa mostrare nei circuiti distributivi non alternativi.

Certo, Ferrario giustificazioni ne ha a iosa: il film è ambientato nel mondo dell’hard o meglio nel mondo di un hard come Ferrario crede che sia. Altre scene, sia pur molto spinte, completano l’ambientazione a luci rosse, comprendendo generose esposizioni della fica della protagonista, anche ginecologiche, cazzi duri, scopate (ma senza mostrare penetrazione) baci lesbici con la lingua, tutte cose che, però, non possono definirsi porno, almeno in linea di principio.
La scena della fellatio, invece, sia pur di pochi secondi, e con uno stacco che la spezza in due tranche, segna il confine; e basta ampiamente a far fibrillare la critica e il pubblico della 56° Mostra di Venezia dove il film viene presentato con gran battage pubblicitario. Film che, pur non volendo esserlo, finisce per essere stucchevolmente (e un po’ noiosamente) moralista. Nina, la protagonista, vive quella che il sociologo inglese Anthony Giddens definisce una «sessualità duttile», ovvero separata in tutto dagli scopi riproduttivi. Il messaggio è chiaro sin dall’epigrafe, prima dei titoli di testa: «Ho un diavolo nascosto nell’armadio e un lupo mi aspetta alla porta», ovvero una condizione di immobile impotenza esistenziale.
Nel film, un’atmosfera di tristezza e squallore caratterizza sempre gli ambienti delle luci rosse: basti pensare che ha inizio con una patetica scena dove un attore, sul set, si masturba freneticamente e disperatamente fra le chiappe della partner senza riuscire a raggiungere l’erezione agognata. Per non dire dei registi: uno di loro vorrebbe essere lo scomparso Aristide Massaccesi, in arte Joe D’Amato, uomo in realtà pacifico e generoso come sanno tutti, compreso chi scrive, che l’hanno conosciuto davvero. Qui invece è un macinatore di scene, un uomo senza scrupoli, dispotico e prepotente. Il suo ex socio (nella realtà) Franco Lo Cascio (nell’hard Luca Damiano), interpreta un altro regista: capriccioso e con movenze gay, sembra fregarsene altamente delle esigenze delle “povere” ragazze e dei “poveri” ragazzi che dirige. Insomma, un mondo dell’hard a base di gente ripugnante, criminali, drogati e chi più ne ha più ne metta.

Comunque Nina-Cavallotti, attrice particolare, di carattere, ma non bella (come invece è la sua amica-amante Cristiana, interpretata da una affascinante Stefania Orsola Garello) si nutre, dopo i set a luci rosse, di docce e nuotate in piscina: l’acqua, elemento purificante, rappresenta una sorta di piccola catarsi interiore. Poi ci sono le sbronze con Cristiana e soprattutto la malattia (vedi caso Moana Pozzi) che la santifica sul finale, la porta a immergersi in realtà umanitarie mai conosciute, raggiungendo a Mostar il padre (Yorgo Voyagis, l’ex di Nadia Cassini) e assistendo i bambini down, a scopare in ospedale “per amore” (o per compassione?) con un bamboccione insegnante alle scuole medie e suonatore di musica industrial nelle officine abbandonate. Solo così, parrebbe, Nina riesce a raggiungere un “vero” orgasmo. Insinna, pur facendo il proprio dovere di attore, non riesce a non far pensare al suo futuro ruolo di conduttore di Affari Tuoi) rendendo meno credibile di quanto già non lo sia la scena di sesso a luci blu-obitorio sulla brandina ospedaliera.

Catarsi a metà anche per Cristiana-Stefania Orsola Garello: si intuisce che abbandonerà le strade del lesbismo (è innamorata cotta di Nina, e questa sua passione ci consente di assistere alla migliore, sia pur breve, scena del film: le due ragazze nude a letto interrotte sul più bello dagli strepiti di un marmocchio (il figlioletto di Cristiana). Dario (Gianluca Gobbi), un simpatico infermiere, in crisi per overdose quotidiana di malati oncologici, inviterà, sul finale, Cristiana in vacanza, trascinandola, probabilmente, sulla strada dell’eterosessualità. E Nina? Morto Flavio, salva lei, confesserà all’amica: «Nulla è più come prima…). Riprenderà l’hard? Concretizzerà il proprio desiderio di maternità, esplicitato da un suo finale, dolce appoggiarsi al ventre di una giovane attrice hard in procinto di girare un pregnant on plein air? Non è dato saperlo, se Nina cambierà vita: certo è che è ormai una redenta in odore di beatitudine. Il marcio, sporco, criminale mondo delle luci rosse, se non se lo lascerà alla spalle, quanto meno lo vedrà con occhi diversi. Il viatico verso il Bene Supremo è irrimediabilmente intrapreso.