C’era una volta Marco Polo

Quando Alain Delon cercò di scoprire la Cina
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Nel 1995, Jean-Dominique Bauby ha tracciato la ricca e variegata esistenza del produttore Raoul Lévy, in un appassionante volume dedicato a questo aventurier du cinéma, che legò il suo nome e la sua fortuna ad alcuni celeberrimi film con Brigitte Bardot (Et Dieu créa la femme di Roger Vadim, La vérité di Henri Georges Clouzot). Come nella vita di tutti, anche in quella di Lévy vi fu un momento top, una congiuntura zenitale, una fase massima: essa corrispose all’ideazione e alla lunga e tormentata messa in opera di un film, uscito nel 1965 col titolo La Fabuleuse Aventure de Marco Polo e meglio noto col working title L’équichier du Dieu (“Lo scacchiere di Dio”). Ci sono misteri francesi altrettanto corroboranti di quelli italiani. Questo è uno. Lévy andava progettando una pellicola pantagruelica, faraonica, mastodontica, sulle avventure di Marco Polo fin dalla metà degli anni Cinquanta. Aveva ipotizzato come protagonista, via via, Curd Jurgens, poi Anthony Quinn poi Burt Lancaster. Ed era finalmente arrivato a pensare ad Alain Delon. Siamo nel 1961: Delon e il suo agente Georges Beaume prima nicchiano di fronte alla proposta, quindi accettano, suggerendo persino il nome del possibile regista: Orson Welles. Lévy invece vuole e avrà, dietro la macchina da presa, a giostrare scontri poderosi di elefanti e movimenti di masse impensabili, Christian-Jaque, che ha come credenziale il successo (sì, ma di dieci anni prima!) di Fanfan La Tulipe.

Nel gennaio del 1962 le riprese hanno inizio a Belgrado in Yugoslavia. Dimensioni giganti: il costume di Delon è costato ventotto milioni di franchi; per riprendere un suo duello all’arma bianca con Gregoire Aslan si impiegano quattro settimane. Ma i guai, per Lévy, avanzano a grandi giornate: mentre la polizia finanziaria indaga sulla sua società di produzione e mette sotto inchiesta un suo socio per bancarotta, i conti del film, dopo appena un mese, già hanno raggiunto le stelle. Delon passa a Venezia con Jaque a girare una roboante fuga per i tetti e la decapitazione di Michele Simon in piazza San Marco (oggi queste sequenze sembrano perdute, nonostante Delon si dica certo che ancora esistono da qualche parte) ma i tecnici non vedono un soldo e Delon stesso si vede sequestrati i danari, che gli spedisce il suo agente, dalla direzione del Danieli, che cerca così di coprire i colossali “buffi” lasciati da Lévy.

La catastrofe economica fa sì, a questo punto, che Delon si ritiri dal film, come pure Christian Jaque. Verranno rimpiazzati, rispettivamente, da Horst Bucholz e Denys de La Patellière. Quando dopo circa due anni Lévy terminerà il film, tenterà – il genio, la follia – di proporre a Delon di usare le sue scene per montare un trailer in cui l’insoumis dica al pubblico: «Dovevo essere io Marco Polo. Così non è stato. Ma voi vedrete comunque un gran film». Lévy, un anno più tardi, verrà trovato cadavere nella sua villa di Saint Tropez. Si è sparato in bocca, non si sa se per il buco colossale lasciato dal suo Marco Polo o per la passione ardente dalla quale era in quel momento posseduto per Jeanne Moreau.