Candyman: ispirazioni e leggende dietro il cult di Bernard Rose

Il 30° anniversario di un cult del terrore
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Dietro ogni grande leggenda c’è sempre una grande storia. Che sia reale, immaginaria o entrambe poco importa. Ciò che conta è che se ne parli. Che se ne parli a lungo, in modo tale che il mito possa continuare a sopravvivere nel tempo e nello spazio. E di lui, dell’Uomo Nero di nome e di fatto, sono ormai trent’anni che se ne continua a parlare. Da quel lontano 1992 quando il suo oscuro nome, dolce solo in apparenza, venne per la prima volta evocato cinque volte dinnanzi allo specchio e, ovviamente, anche sul grande schermo. Candyman… Candyman… Candyman… Candyman… CANDYMAN! Due volte in più rispetto a quelle necessarie per risvegliare quella buontempona di Bloody Mary, in un terrificante rituale che nel corso degli ultimi tre decenni, anche nel pieno dell’era di Facebook e TickTock, non ha mai cessato di terrorizzarci e affascinarci. È lui la vera leggenda. Un’autentica leggenda metropolitana. Una di quelle che, ben prima di internet e dei creepypasta, prendeva forza e vigore dal semplice potere del passaparola, consacrando Lui e la sua stirpe maledetta all’immortalità della cultura popolare. Lui, erede diretto di quei Michael Myers e Jason Voorhes che, tra la fine degli anni ’70 e il principio dei mitici anni ’80, avevano contribuito a modernizzare l’idea stessa di terrore cinematografico, abbandonando le suggestioni gotiche del passato e incarnando la più oscura essenza del Male assoluto. Lui, ultimo vero spauracchio di celluloide nato e cresciuto dalle ceneri di un genere, l’horror, che nei decadenti anni ’90 già mostrava un’inevitabile spossatezza, compresso fra le intelligentissime autoironiche riflessioni meta filmiche dello Scream craveniano e gli ultimi rauchi boccheggi di saghe non certo esaltanti come Wishmaster e Leprechaun. Ed è proprio in questo humus socioculturale dominato dagli strascichi della Guerra del Golfo, dalle rivolte raziali losangeline innescate dal caso Rodney King, dal dominio incontrastato di MTV e dalle mille contraddizioni della presidenza Bush Sr che la figura di Candyman, al secolo Daniel Robitalle, poté fare la sua trionfale comparsa sul grande schermo, in anticipo di qualche annetto rispetto all’esplosione del World Wide Web e di una società veramente globalizzata. Ma ancor prima che sulla pellicola la sua sinistra figura aveva fatto capolino fra le inquietanti pagine del maestro del terrore letterario che fu e che è Clive Barker, il quale per primo lo aveva abbozzato nel terrificante racconto breve The Forbidden contenuto nella sesta edizione dell’ormai celeberrima racconta antologica Books of Blood. Fra le righe di questa suggestiva novella, confezionata a metà degli anni ’80, non vi è infatti alcun accenno al mefistofelico Uomo Nero che verrà in seguito consacrato dall’immortale interpretazione di Tony Todd, ma piuttosto viene descritto un insolito e animalesco babau di aspetto macilento, quasi itterico, con sguardo selvaggio e con una mises simile a quella di un vagabondo di quartiere. Della sua origine nulla è dato sapere, tranne che il solo dubitare della sua esistenza è sufficiente ad evocarne la mortale presenza. Niente specchi o rituali dunque, ma piuttosto il germe di un dubbio che da solo è sinonimo di un dolorosissimo destino. Ben pochi sono gli strumenti di cui il nostro si serve per portare a termine il proprio sporco lavoro, tra questi fanno già capolino il celeberrimo gancio arrugginito – vivido ricordo dell’arma prediletta dal celebre serial killer di Texarkana, in piena attività a metà anni ‘40 al confine fra Texas e Arkansas – e le iconiche api, mortifero presagio della venuta di questo ancestrale mietitore. I tempi tuttavia non sembravano essere ancora maturi affinché un tale spauracchio, degno delle più inquietanti fiabe della buonanotte, potesse diffondersi su larga scala. Soprattutto non mentre quel mattacchione di Freddy Krueger era ancora sulla piazza a insozzare i dolci sogni di grandi e piccini. Si dovette  attendere circa sei anni prima che un giovane e promettente cineasta come Bernard Rose, rispolverando una sdrucita copia della sanguinolenta antologia barkesiana, si imbattesse nuovamente in quel terrificante racconto che tanto lo aveva impressionato. E così, proprio come accadeva fra le righe di The Forbidden, bastò un solo ossessivo pensiero a far scoccare la provvidenziale scintilla capace di mettere in moto quel complesso ingranaggio produttivo che avrebbe portato di lì a poco alla nascita di quel Candyman – Terrore dietro allo specchio che oggi tutti noi ben conosciamo. Un’affascinante avventura che il buon Rose, reduce dalle perturbanti atmosfere di La casa ai confini della realtà (1988), dimostrò di vivere con il giusto spirito, consegnando alla storia del cinema dell’orrore forse il suo ultimo vero Cavaliere del Male dell’età moderna.

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Ma nonostante il cineasta londinese condividesse gli stessi natali e il medesimo substrato culturale del padre letterario di questo ultraterreno killer uncinato, si rese ben presto conto che un tale archetipo di morte avrebbe potuto esprimere un potenziale maggiore se calato nelle umide profondità della società americana di fine Ventesimo Secolo. E fu così che, in fase di sceneggiatura, il primo radicale passo compiuto da Rose fu quello di traslare l’intero setting della narrazione dalla diroccata periferia di una Liverpool thatcheriana, così come originariamente immaginato da Barker, agli altrettanto disastrati vicoli della Chicago di inizio anni ‘90, scegliendo per l’occasione un complesso residenziale risalente agli anni ’40 conosciuto come Cabrini-Green. Un insieme di case popolari abitate quasi esclusivamente da minoranze afroamericane, un vero e proprio ghetto non dichiarato abbandonato al più assoluto degrado vicino al quale, per un ironico gioco del destino, erano col tempo sorti lussuosi palazzi. Qui si delinea una profonda matrice di critica socio-politica alla base di questa trasposizione ideata da Rose il quale, per sua stessa ammissione, era intenzionato a trasformare la pellicola in una storia d’amore interraziale a sfondo orrorifico nel quale la Bella e la Bestia potessero incontrarsi sullo sfondo di una realtà dominata da quelle paure e superstizioni urbane che solo una popolazione emarginata era in grado di produrre. Nasce dunque qui la necessità di trasformare integralmente la natura stessa del nostro Candyman, presentandocelo stavolta come un autentico Uomo Nero che, non fosse stato per problemi di budget e per una certa resistenza da parte di qualche lungimirante produttore, molto probabilmente avrebbe finito per assumere il volto sornione e l’improponibile ghigno di Eddy Murphy. Ma per fortuna la provvidenza ha gettato per tempo il suo benevolo sguardo, dando la possibilità a un certo Tony Todd, all’epoca carismatico attore di teatro reduce per lo più da produzioni shakespeariane Off-Brodway, di prendere in mano le redini della situazioni e di indossare, come solo lui ha saputo fare, l’oscuro cappottone del famelico boogeyman, dando vita a quello che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto essere il suo personalissimo Fantasma dell’Opera. O un Dracula nero, se preferite. Privo fortunatamente di quella ridicola benda sull’occhio che lo stesso Todd, in uno slancio di istrionismo, aveva inizialmente favoleggiato.  Un villain terrificante ma a suo modo romantico, il quale finalmente inizia a colorarsi di un tragico passato che lo vede figlio di un ex schiavo della piantagione Robitaille intento a vagare in lungo e in largo per offrire i propri servigi di ritrattista ai ricchi e razzisti proprietari terrieri della Louisiana di metà Ottocento, sino a quando, innamoratosi della bella e bianca figlia di uno dei suoi committenti, non si troverà a dover pagare con la vita i capricci del cuore. Esattamente come il biblico Sansone che causò grande scandalo chiedendo la mano della filistea Dalila, offrendole come pegno, ma guarda un po’, il miele prodotto da una colonia di api cresciute nel ventre di un leone da lui precedentemente ucciso. Imprigionato dal padre della ragazza, privato crudelmente della mano destra, cosparso di miele e dato in pasto alle stesse produttrici del dolce nettare il nostro furente pittore, schernito per ben cinque volte dalla folla ghignante con il dolce nomignolo che mai avrebbe dovuto essere pronunciato, esalando il suo ultimo respiro non mancherà di giurare tremenda vendetta contro tutti coloro che ne avrebbero in futuro evocato il ricordo, cristallizzando per sempre tale maledizione nelle profondità di un prezioso specchio d’argento perduto dalla sua amata impossibile.

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Una back story degna di un cattivaccio che si rispetti, soprattutto per quanto riguarda il terrificante rituale dell’evocazione allo specchio la cui origine, a detta dello stesso Rose, potrebbe essere ricondotta a un reale avvenimento di cronaca nera risalente al 1987, quando una donna afroamericana di nome Ruthie Mae McCoy, residente nel quartiere popolare di Abbot Homes di Chicago, venne brutalmente uccisa da uno sconosciuto introdottosi nella sua abitazione tramite un’apertura collocata dietro l’armadietto dei medicinali del bagno. Ma ogni cattivo che si rispetti deve per forza avere una controparte all’altezza. In questo caso una figura femminile nelle cui sembianze il nostro oscuro mietitore possa riconoscere lo spirito reincarnato del proprio perduto amore. Riallacciandosi dunque al racconto barkeriano d’origine, ecco fare la sua comparsa la giovane Helen Lyle, dottoranda di antropologia sociale che, durante le proprie ricerche sul campo alla scoperta delle più oscure leggende metropolitane della comunità nera di Chicago, finisce per imbattersi nel terrificante mito di Candyman, la cui spettrale figura campeggia sorniona attraverso i primordiali graffiti che, come le pitture rupestri di un’antica civiltà tribale sperduta nel folto dell’Africa Nera, ricoprono ogni centimetro quadrato delle diroccate mura del Cabrini-Green. Ed è appunto una giungla, seppur urbana, quella in cui Helen si muove e nella quale ha il suo personale tête-à-tête con il temibile Signore delle Api, venendo a tal punto assorbita dalla sua mefitica aura da divenire essa stessa protagonista integrale di una nuova terrificante versione della già nota leggenda popolare. Nonostante avesse espresso fin da subito il fortissimo interesse nel vestire i panni di questo suggestivo personaggio, la bella Virginia Madsen, reduce dal sonorosissimo flop di Highlander II, venne originariamente provinata per il ruolo dell’amica e compagna di corso di Helem, Bernie Walsh, per vedersi poi assegnato a sorpresa proprio il ruolo da protagonista a seguito della defezione, causa gravidanza, dell’allora moglie di Rose Aexandra Pigg a un mese esatto dall’inizio delle riprese. Combattendo strenuamente contro una fortissima allergia nei confondi delle api – e persino contro le riserve di molti che le avrebbe preferito nientemeno che Sandra Bullock – l’allora trentunenne attrice si dimostrò perfettamente all’altezza del ruolo, instaurando col collega Tony Todd una sprofonda sinergia e mostrandosi persino disposta a farsi ipnotizzare, al fine di rendere se possibile ancora più simile a un incubo a occhi aperti il suo morboso rapporto con l’oscuro Uomo Nero. Servendosi di un modestissimo budget di appena 8 milioni di dollari – di cui 23 mila sborsati a Todd quale forfait aggiuntivo per ciascuna delle 23 punture di api subite nel corso delle riprese – lo scaltro Rose riuscì a confezionare un autentico capolavoro di sangue, suspense e puro terrore, un fenomeno di culto da oltre 25 milioni di dollari nei soli Stati Uniti che, supportato da una delle più disturbanti e sperimentali colonne sonore mai partorite da quel talentuoso genio di Philip Glass, si è meritamente guadagnato un posto d’onore nell’immenso Pantheon dei nostri più oscuri incubi. Non importa essere millenials o figliastri delle generazioni X e Z. Non importa nemmeno essere nati e cresciuti all’ombra dei social network e della web culture. Tanto, prima o poi, state pur certi che, se davvero lo vuole, Lui vi troverà. Lui, l’Uomo Nero, presagio di sventura e dolce profumo del sangue. Lui, che dal lontano 1992 non fa altro che chiederci, più o meno educatamente, di divenire le sue vitte designate, in un equo scambio nel quale una vita di sofferenza vale da sola una dolce immortalità. Un’immortalità dolce come il miele.