Black Mirror: specchio, specchio nero delle mie brame…

Balck Mirror, una serie che si concentra sulla comunicazione e sulle sue prospettive devianti. Tra fantascienza distopica e racconto dell’orrore...
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Dall’autore di Dead Set , una serie che si concentra sulla comunicazione e sulle sue prospettive devianti. All’incrocio tra fantascienza distopica e racconto dell’orrore…

Se la migliore fantascienza si ottiene immaginando le conseguenze plausibili di un ipotetico futuro, l’horror più genuinamente terrorizzante è quello che si annida nelle pieghe del presente e del reale. È questo il motivo per cui Black Mirror trova posto in questo dossier: spesso l’avrete visto incasellato nell’etichetta della sci-fi (sebbene gli episodi in qualche modo fantascientifici siano tre su sei) o del grottesco, ma le inquietudini risvegliate da ogni puntata sono inequivocabilmente quelle di un incubo orrorifico. E il format – che chiude il cerchio narrativo a ogni episodio, ma spalanca la quarta parete all’interrogazione diretta dello spettatore – è in perfetta coerenza con il genere della paura.

Black Mirror è infatti una collezione di storie del terrore: creata dal Charlie Brooker di Dead Set si compone – a oggi – di due brevi stagioni da tre “racconti” l’una, ognuno dei quali propone nuovi personaggi, una diversa ambientazione, per certi aspetti un differente “genere”. Il titolo fa riferimento al pullulare degli schermi scuri che quotidianamente fissiamo e che, a loro volta, ci guardano: televisori ultrapiatti, laptop, smartphone, tablet. Nella brevissima sigla lo schermo/specchio si frattura con un suono distorto e agghiacciante, fastidioso quanto il rumore di unghie che strisciano su una lavagna. Preludio a una visione che sarà, ogni volta in maniera inedita, profondamente disturbante. E difficilmente prevedibile.

Il primo e l’ultimo episodio tra quelli finora prodotti accendono i riflettori sulla politica di massa nell’era della comunicazione pervasiva (Brooker, tra le altre cose, è anche un commentatore e autore di satira politica abbastanza noto in Uk). Basta l’incipit di The National Anthem (1×01) per gettare lo spettatore, attraverso l’identificazione con il protagonista, nello spaesamento totale: la principessa inglese è stata rapita, l’unica richiesta per liberarla viva (diffusa a mezzo internet e quindi impossibile da contenere) è che il primo ministro faccia sesso con un maiale. In prima serata, in diretta tv, a reti unificate. The Waldo Moment (2×03) ipotizza che un pupazzo animato in computer grafica, finora solo personaggio marginale all’interno di uno show satirico, possa candidarsi alle elezioni e raccogliere consistenti consensi senza proporre alcun programma ma utilizzando solo l’arma dello sberleffo e un’ingente dose di volgarità assortite.

Black Mirror calca la mano sull’assurdità di entrambe le situazioni (anche se Waldo richiama inevitabili parallelismi con il quadro italiano, finendo per perdere la sua necessaria carica d’inverosimiglianza), ma il sottotesto seriamente inquietante è un altro, ed è tutto dalla parte del pubblico: nessuno cambia canale davanti alla disgustosa performance sessuale del premier, non c’è un singolo cittadino britannico che si stacchi dalla trasmissione per accorgersi che la principessa è stata rilasciata prima dello scadere dell’ultimatum; l’elettorato di The Waldo Moment, dal canto suo, è facilmente manipolabile in ogni possibile direzione (non solo politica, ma soprattutto economica e commerciale), perché una volta fatto a meno del messaggio in favore dello sfottò, scompare anche il discernimento critico. In sostanza, Brooker applica alla politica e alle sue dinamiche mediatiche il concetto che animava la precedente miniserie Dead Set: gli zombi siamo noi, ipnotizzati dalla tv, incapaci di distinguere il bene dal male, affamati di degradazione e umiliazione altrui e desiderosi di averne ancora, e ancora.

Gli episodi di mezzo (1×02, 15 Millions of Merits e 2×02, White Bear) puntano i riflettori sui meccanismi della tv “factual” (talent o reality che sia), esponenzialmente sempre più pervasiva sui nostri canali, e sono anche le due puntate più vicine a un “genere” ben definito. 15 Millions of Merits è ambientato in un universo apertamente distopico, dove la vita scorre tra pareti di vetro, si pedala incessantemente per produrre energia, guadagnando “meriti” da spendere per comprare abiti virtuali e cibo insapore, forzati a consumare le immagini (televisive, videoludiche, pornografiche) incessantemente rigurgitate dagli onnipresenti schermi. White Bear si appoggia invece alla struttura e ai topoi di un survival horror, con una protagonista che si risveglia senza ricordare nulla del proprio passato e viene inseguita da angoscianti figuri mascherati che tentano di ucciderla mentre i passanti, invece che aiutarla, la riprendono e la fotografano con il cellulare.

Se nel primo episodio la dinamica del talent show si mostra in tutta la sua funzione di “controllo sociale” (in una versione più cattiva e sottilmente realistica degli Hunger Games), nel secondo lo svelamento della verità apre a una serie di ribaltamenti di fronte e a una conseguente sequenza di rispecchiamenti concentrici, dove la distanza tra rappresentazione e reale, tra attori e spettatori, tra vittime e carnefici si smarrisce, irriconoscibile e inconoscibile. In entrambi i casi, sembra dirci Brooker, un inferno spietato e ripetitivo è il destino speculare di chi guarda e di chi è guardato, in un gioco al massacro che incatena chiunque, tagliando ogni via di fuga.

Il perturbante di Black Mirror non risparmia neppure la sfera privata delle relazioni e degli affetti: anzi, proprio per la sua capacità di fotografare il contemporaneo, non può eludere le paure che ci toccano più da vicino (il tradimento, la morte, la solitudine). L’ultimo episodio della prima stagione (1×03, The Entire History of You) e il primo della seconda (2×01, Be Right Back) si chiudono nell’intimità e si appoggiano all’invenzione di what if tecnologici per sottolineare l’orrore in potenza del nostro quotidiano. Cosa succederebbe se potessimo registrare, archiviare e rivedere nel dettaglio ogni singola porzione della nostra memoria? E cosa se, attraverso l’enorme mole di informazioni sulla nostra esistenza che condividiamo costantemente sui social network (e che restano, incancellabili, a disposizione di chiunque), si potesse “riportare in vita” una versione di noi stessi, dopo la morte?

Ovviamente, nulla di buono. Apparentemente le due puntate più sommesse, meno sensazionalistiche, The Entire History of You e Be Right Back sono anche quelle che lasciano pesare più a lungo la loro cappa ansiogena. Entrambe le ipotesi delineano l’impossibilità di vivere nel presente, indagando un’umanità intrappolata nel suo stesso passato. Di nuovo, è la figura dello zombi l’iconografia più adeguata a descrivere i personaggi: quelli di The Entire History of You sprofondano puntualmente in una stasi dagli occhi bianchi mentre si srotolano nel cervello ricordi personali o altrui, privati come sono del conforto della menzogna e del perdono; il compagno della protagonista di Be Right Back, androide angosciato e angosciante, è così mostruoso proprio perché in lui convivono la straordinaria somiglianza con l’originale di carne e l’incolmabile differenza che separa l’originale dalla copia (e la maschera dal viso).

L’annientamento di ogni privacy (volontario, sia chiaro: sta proprio qui il nodo cruciale, nell’incoscienza con barattiamo la nostra interiorità con un’apparente comodità esteriore) priva il mondo di autenticità. La sparizione progressiva dell’umanità è l’inevitabile conseguenza. Qualcuno (anche qui in Italia, dove, a causa di accese polemiche, non si è ancora vista in chiaro) ha accusato di moralismo la serie di Brooker, eppure non è mai al medium, all’oggetto tecnologico, che l’autore addossa le colpe – la “malattia” dello schermo non si prende per contagio, ma per (inconsapevole?) scelta.

Un episodio dopo l’altro, Black Mirror scava dietro le nostre debolezze, dietro le buone intenzioni corruttibili, chiedendoci di aprire gli occhi, accecati come siamo dalla proliferazione inarrestabile di punti di vista, di osservazione, di ripresa, di registrazione, di archiviazione. Come a dirci che l’infinita possibilità di guardare ci sta privando della capacità di vedere, annullando la volontà che scorre tra l’atto scopico e il conseguente agire. L’orrore antologico di Black Mirror – ai confini della realtà del nuovo millennio – scorre tra le crepe dei suoi schermi spezzati, turba profondamente perché frantuma la quarta parete annullando la rassicurante distanza tra quel che accade nell’universo finzionale oltre il vetro e in quello reale che circonda lo spettatore. Per questo, nonostante il formato e i temi inediti, può dirsi a suo modo horror (a un incrocio tra allegorie romeriane e le metafore sociali dei Pov odierni). Perché inscena il lato terrificante della nostra esistenza e della contemporaneità: è il mostro oscuro che si nasconde sotto il letto, quello che neghiamo ad alta voce e alla luce del sole, ma che irrimediabilmente temiamo, tremando tra le coperte, al buio della notte.