Beatrice Aiello: sognando un Rape & Revenge

Intervista all'attrice sugli scudi adesso in Petra
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Hai fatto teatro, hai fatto fiction, parecchia fiction, e hai fatto anche cinema. Quanti film, finora, Beatrice?

Tre film. In ruoli sigificativi, tre film. Il primo si intitola Blue Wonder, di Ermes Cavagnini, un regista italiano, trentino, che lo ha girato con un cast americano. Su questo set ho conosciuto Michael “Mike” Badalucco, che è diventato un po’ il mio “zio d’America” (ride). Lui ha fatto il caratterista per i film dei Cohen, tra l’altro. E succede spesso che attori che interpretano ruoli molto stereotipati in America, poi vengano anche per i film indipendenti, a fare i protagonisti. In Blue Wonder avevo un ruolo interessante. Non so ancora quando uscirà, perché ci sono stati, per la distribuzioni, un po’ di problemi, di blocchi… Lo abbiamo girato nel 2017. Poi, l’anno successivo, è arrivato il mio primo film come protagonista, Il ritratto incompiuto di Clara Bellini, con un regista albanese, Namik Ajazi: ho lavorato per quaranta giorni a Tirana. Il mio personaggio si chiama Clara, sono la figlia di Remo Girone, che interpreta l’ambasciatore italiano a Tirana nel 1978. Si ambienta durante la dittatura di Enver Hoxha, del quale ho scoperto la storia, che ignoravo. Sai, quando fai un film in costume… ma, in generale, ogni spaccato di società che viene raccontato in una sceneggiatura, ti offre, intellettualmente, la possibilità di studiare. La storia dell’Albania non la conoscevo a fondo ed è stato molto forte, per me, entrare dentro a queste dinamiche. Ho conosciuto dei colleghi, che lavoravano nel film, appartenenti alla generazione dei cinquantenni o poco più grandi, che erano stati imprigionati perché, per esempio, avevano ascoltato una canzone straniera. La polizia segreta e la censura, sotto Koxha, erano durissime. Hoxha era quasi più pazzo di Hitler… Osteggiava anche le relazioni tra ragazzi di nazionalità diversa. Nel caso del film, io sono la figlia di un diplomatico e interpreto la Giulietta della situazione, mentre Romeo è un pittore albanese. Anche questo film deve uscire…

Lo hai girato tutto on location?

Sì, tutto in Albania, tra Tirana e Durazzo… Ho visto che ho fortuna, quando faccio degli incontri direttamente con i registi stranieri. Nel caso dell’Albania, loro hanno un grande amore nei confronti dell’Italia e una grande gentilezza, una grande familiarità. Ma anche nel film di cui ti dicevo prima, Blue Wonder, mi sono trovata all’interno di un cast internazionale. Mi è capitato di girare degli spot, anche se parliamo di una cosa completamente diversa dal cinema, in cui spesso dovevo incarnare un po’ l’immaginario della donna mora italiana, all’estero. Quindi, se sono tutti esterofili, forse viaggerò bene anche in altri Paesi… (ride)

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Beatrice Aiello (foto Barbara Ledda)

Hai avuto un bella esperienza anche a Madrid, ho letto..

Avevo iniziato senza nessuna concreta pianificazione di lavorare lì. Perché recitare in un’altra lingua ti smonta, innanzitutto, dei meccanismi automatici, ti fa veramente entrare in un altro modo di pensare e può essere un esercizio molto importante. Stai davvero attaccato ai concetti. Lo sforzo che fai nel parlare in un’altra lingua ti aiuta a stare nel presente, a non scivolare mai sulle cose, a non darle per scontate. Quindi mi ero presentata a un provino con un testo di Garcia Lorca, Nozze di sangue  e un regista, che si trovava lì come uditore, mi propose di fare un corto con un personaggio alla Diane Keaton, un’attrice che non sa recitare molto bene che, però, si veste da Minnie e va in giro per fare la clown con i bambini. Il regista sapeva che avevo fatto anche una scuola di clown. E mi ha colpito questo salto di immaginario: mi sono presentata con il massimo della tragedia e invece mi hanno proposto un corto alla Woody Allen. L’immaginario di un volto, che cosa ti può suggerire, quindi, cambia da una nazione all’altra. Una cosa strana…

Ma visto che hai avuto queste esperienze all’estero, hai notato una differenza rispetto all’Italia? Intendo: le audizioni in Italia sono diverse che altrove?

Ma sai, non sono entrata nella routine di questi provini a Madrid abbastanza per poter fare un paragone. Il mio stato d’animo che probabilmente si metteva in risonanza con l’atmosfera del posto, che è forte, diversa da qui, era di grande condivisione. Intendo: nel momento in cui si prova, quindi addirittura prima della fase del provino, gli artisti si cercano tra di loro per provare. Questo accade ovunque, però in Italia mi sembra che si tenda a tenere nascosto il proprio lavoro finché non si è sicuri di presentarlo. Cioè, esiste questa forma di insicurezza-protezione. Invece, quello che mi è capitato lì, è che le prove aperte erano la normalità. Quindi, attori che si confrontano, attori “rivali” che si danno dei consigli: ecco, questo l’ho sentito un po’ di più, all’estero, ma spero possa innestarsi anche qui l’idea di una generazione di artisti che crescono insieme.

Tornando al terzo film, che ancora non mi hai detto…

Sì, io apro parentesi graffe che è una meraviglia (ride). Il terzo film è Resilient di Roberto Faenza, girato in Trentino…

Di cosa parla?

Si basa sulla vita e l’infanzia di Mario Capecchi, premio Nobel per la medicina. Attualmente il set è ancora aperto, quindi credo che si vedrà nel 2021. Io ho terminato di lavorare, ma ancora lo stanno girando.

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Arriviamo alla tua timidezza: ho letto una tua bella intervista su Vanity Fair e tu fai delle riflessioni su questo…

Sì, sì, sono timida (ride). Ma passo da un eccesso a un altro, veramente. Le interazioni sociali sono sempre, per me, intense, interessanti; ma, ti faccio un esempio: quando esco con gli amici non vorrei mai suonare il capanello, di una festa o cose simili… che poi, alla fine, frequento solo amici, non è che sia particolarmente mondana. Però, in quel momento è come se provassi un attimo di incertezza, ma anche di eccitazione, no?… di voglia di condividere. Ma, dopo, non me ne andrei mai.

Cioè, è sull’uscio che hai timore…

Sì! E la stessa cosa è successa anche sul palco, perché avevo iniziato con una certa difficoltà a parlare in pubblico. All’inizio mi giudicavo molto, nonostante avessi voglia di dire la mia. Era un po’ come se volessi controllare quello che dicevo… per la grande emotività che mi scuoteva. E poi, sul palco, imparando a respirare, con la libertà di pensare che non erano mie parole quelle che stavo pronunciando, è cambiato qualcosa… questa ansia nel parlare in pubblico si è trasformata… Si è trasformata, eh, perché una persona emotiva rimane emotiva, non c’è verso… non c’è esorcismo teatrale che tenga. Però, l’ho trasformata in un valore.

Hai imparato a usarla…

Sì… Non ho mai la routine del fare una scena. Ogni volta che sono a un provino, o sul set o a teatro, questa emozione fortissima è da gestire, perché è sempre una cosa nuova, magica che sta accadendo in quel momento. Questa frenesia poi, in realtà, quando inizio, scompare: mi rilasso e mi rendo conto che sono al posto giusto al momento giusto e sono pienamente presente…

Quindi è una marcia in più, una debolezza che si è trasformata in un vantaggio…

Sì, ma sempre bisogna fare così, secondo me! Non si possono estirpare delle qualità che, magari, ci possono creare anche dei problemi. Vanno trasformate. Come nelle arti marziali: il colpo che ti arriva è sempre un’energia, che va gestita, certo. Adesso ho un progetto molto interessante, che spero di iniziare presto. Ed è un film in cui si vede un mio lato molto forte, sicuro, aggressivo. Con un uso potente del corpo. Perché ogni tipo di tensione, quando il corpo è allenato, sparisce. Mi sono ispirata a due film che risalgono all’epoca cinematografica che Nocturno esalta…

Mi incuriosisci, porca miseria! Quali?

Uno è La ragazza dal pigiama giallo, con Dalila Di Lazzaro che fa un’interpretazione super-intelligente, oltre ad essere bellissima. Nel film, lei è passiva e quindi oggetto del desiderio maschile, però, in realtà, il suo ruolo di osservatrice le dà grande potere e indipendenza, dopo. Altri film che mi hanno ispirato sono quello di Abel Ferrara Ms. 45, insieme a I Spit on Your Grave, di Meir Zarchi

Angelo della vendetta, quello con Zoe Tamerlis armata di Colt…

Bellissimo! E anche la storia dell’attrice Zoë Lund, è favolosa e triste, perché il personaggio muore per overdose. Quindi, in sintesi, sto cercando di ispirarmi ad attrici che non siano solo Meryl Streep e Susan Sarandon. La Streep, peraltro, io la adoro, come adoro Julien Moore. Ma anche il cinema di genere può offrire spunti originali di stile e interpretazione, non solo le attrici che sono state un punto di riferimento mio e di generazioni, come Bette Davis, Monica Vitti,  la Streep e la Moore.

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Beatrice Aiello (foto iso 100estudio)

Beh non capita spesso di trovare chi ti cita La ragazza dal pigiama giallo… Chapeau!

Devo dire che è stato frutto di ricerche, non è il mio pane quotidiano, questo cinema. Però studio cinema e ho iniziato a scrivere, ho girato anche un piccolo documentario, Le donne di San Nicola. In generale, quello che mi interessa è come proporre un’immagine femminile diversa, anche dal punto di vista della recitazione. Nell’ultimo periodo ho avuto modo, a causa del lockdown, di studiare molto questo aspetto. Cioè, stare nelle atmosfere in modo essenziale, senza caricare di psicologismi. Guarda, ho studiato anche il “Metodo”, però penso che sia questo che mi possa aiutare molto nella carriera per fare un salto: avere delle icone, lavorare sul corpo, sull’immagine, in modo molto definito, aggressivo, insomma. E questa cosa che ho in cantiere, dove sarei una super protagonista, è proprio una sorta di rape & revenge, ispirato a un fatto di cronacaAnche se in questo momento fare una cosa del genere è molto delicato., come puoi ben immaginare.

Eh certo, con l’aria che tira…

Quindi mi sto anche allenando fisicamente, per essere forte. Gli attori, oltre ad essere atleti del cuore, devono essere anche atleti tout-court. Io, fino adesso, sono sempre stata un tipo un po’ intellettualino, anche se ho sempre fatto sport. Ma adesso voglio proprio diventare forte. Cambiare.

Io, adesso, ho la testa dentro il rape & revenge che vuoi fare… Ma veniamo, comunque, a Petra, che in queste settimane ti vede sugli scudi. Com’è stato l’iter per cui sei entrata nella fiction e com’è lavorare con la Cortellesi?

Guarda, la cosa più semplice del set è stata la Cortellesi. Lei per me era un mito già quando ero al liceo, ma anche più piccola, quando faceva Mai dire goal, le sue imitazioni. Tutta la sua carriera da comica l’ho sempre seguita e mi piaceva molto, mi faceva impazzire.  Per cui, avevo una sensazione di familiarità, era come se già la conoscessi. Certo, è un’attrice forte, realizzata, attorno alla quale si creano i progetti, è quella considerata più versatile, in Italia, quindi per un’attrice emergente potrebbe sembrare un problema relazionarsi con un personaggio del genere. In realtà, è stato semplicissimo, perché lei è molto diversa dalla Petra che porta sullo schermo: nella vita è molto serena, tranquilla, emana una grande pace, quindi mi ha messo assolutamente a mio agio. Abbiamo rotto il ghiaccio subito. Certo, per interpretare il ruolo di sua sorella, una avrebbe forse voluto provare, all’inizio, eccetera… però i tempi di una serie sono quelli che sono, molto veloci. Io sono entrata non ricordo a che settimana di riprese fossero, comunque molto avanti: loro avevano già lavorato a Genova, io ho girato solo a Roma. Genova è un aspetto importante della serie. Le puntate le sto vedendo adesso anche io e mi piacciono molto. Perché c’è l’atmosfera del crime, ma i personaggi di Petra e Monte, interpretato da Andrea Pennacchi, molto bravo, mentre indagano sul caso, indagano anche nelle loro vite.

I famosi “gialli dell’anima e del sentimento”…

Sì… Sono due solitari che delineano un rapporto per nulla scontato tra un uomo e una donna, che non parte con una grande simpatia, non genera una scintilla sentimentale, ma è una vicinanza umana di colleghi che condividono anche i dolori della vita, essenzialmente la solitudine, anche se Petra l’ha scelta e lui no. Non è facile vedere una coppia affiatata dove manca l’elemento sessuale…

Beatrice Aiello (Foto by Barbara Ledda)

Beatrice Aiello (Foto Barbara Ledda)

Eh, certo…

Questa è magari una cosa sublimata, come capita tra amici. Perché, se ti piace una persona è qualcosa che può sempre essere ricondotto a una pulsione basilare…

Il sesso sta sempre sotto a tutto, è come un serpente all’agguato: un classico…

… ma è una pulsione che non viene mai “stretta”, qui, non è in sceneggiatura. Loro fanno un percorso insieme e diventano, piano piano, intimi, pur non parlando molto. E questo, secondo me, è l’aspetto più bello della serie.

E il tuo personaggio…?

Io sono Amanda, la sorella di Petra. I romanzi di Alicia Giménez Bartlett li conoscevo, e avevo letto il personaggio di Amanda, in questo libro che si intitola Morte di carta, che è anche il titolo dell’ultimo episodio della serie, quello in cui appaio io. Nel libro, Amanda era più trasgressiva. Poi, piano piano, dal provino fino alla sceneggiatura e quindi sul set, è venuto fuori, essendo un personaggio che non compare tantissimo ma che ha battute fondamentali…  Amanda si è delineata, piano piano, come l’opposto di Petra. Cioè, una donna emotiva, incasinata, anche un po’ invadente, estroversa, con un modo di esprimere le emozioni molto diretto e, a volte, anche stressante. Mentre Petra è totalmente indipendente, asciutta. Però, è evidente che tra me e Paola c’è un trascorso, un vissuto, una backstory: sono due personaggi cresciuti insieme e quindi esiste una tenerezza che le lega. Quello che poi è rimasto sullo schermo di Amanda, è un personaggio, se vuoi, secondario, ma questa è la punta dell’iceberg di ciò che tu prepari costruendo la parte. Quello che ho molto curato, è stata la condizione dell’essere madre…

Infatti, tu nella serie hai un figlio…

Sì, ho un bimbo anche se non ho scene con lui, strano. Ma le ha Petra. Mi arrivano spesso ruoli di giovane mamma. E non avendo avuto questa esperienza, diventa è un lavoro attoriale interessante. Immaginarsi con le priorità che cambiano e con un tipo di amore così generoso in grado di mettere in secondo piano anche te stesso. Ecco, questo è il lavoro che ho fatto perché fosse credibile questa condizione. Forse ho anche esagerato, ma quando devo interpretare un personaggio, questo diventa il mio materiale di studio. Anche se ho poche scene, per me è come poter studiare un anno…

Quindi fai un lavoro di preparazione molto, molto scrupoloso e capillare… anche al di là di quello che serve sullo schermo, ma che serve a te…

Sì, serve a me: ovviamente bisogna bilanciare, perché, rispetto a ciò che prepari, quello che trovi sul set è molto diverso, molto più asciutto e a volte può essere persino controproducente preparare troppo. Nel caso di Petra, sono andata persino a vedere il reparto maternità al San Giovanni di Roma, rischiando di essere cacciata perché, improvvisamente, questa losca figura era lì ad osservare tutti, senza pancione, senza sospetta maternità: stava lì a guardare le culle! Ho anche rischiato di essere scambiata per una pazza. Ma io ero lì, prendevo appunti. Magari poi ti porti dietro anche solo un “colore” di quello che hai visto, che, però, ti può servire.

Tu hai fatto anche diversi cortometraggi, tra l’altro…

Sì,  molto indietro nel tempo. Ma sto proprio pensando, adesso, di realizzarne uno come regista… si vede che mi hai letto nel pensiero. Mi piacerebbe girare una favola nera. Perché, secondo me, con l’inquietante e il fantastico si possono far passare tantissimi messaggi, a volte anche più forti che in un documentario di denuncia. Mi hai detto “cortometraggio” e mi hai sorpreso davvero, perché è proprio quello che adesso mi piacerebbe fare…

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Beatrice Aiello (Foto Francesca Mazzoleni)