Aokigahara, la foresta dei suicidi

In Giappone c'è un luogo molto strano...

Esistono punti nodali sulla Terra in cui si concentrano forze oscure e inafferrabili, dove il caso non è contemplabile come alibi e il paradosso del senso vivo della morte non solo è possibile, è persino tangibile, esperibile, quantificabile. La foresta di Aokigahara, angolo di verde ai piedi del monte Fuji, in Giappone, così fitta da lasciar penetrare a malapena i raggi del sole, rientra in questa categoria come luogo consacrato (secondo solo al Golden Bridge di San Francisco) al darsi la morte, a consegnarsi direttamente alle porte dell’oblio. Mediamente, ogni anno vengono conteggiati tra i 50 e 100 suicidi: le autorità locali hanno istituito delle ronde per ispezionare il bosco ed evitare nuovi tentativi di suicidio o per recuperare i corpi, mentre ovunque vengono piantati cartelli che dissuadano gli aspiranti suicidi. L’origine di questa malsana e inquietante tradizione si perde, come sempre, nella notte dei tempi e per quanto non si possa negare che strani movimenti che noi non possiamo vedere hanno fatto sì che determinate forze convergano nella foresta di Aokigahara, esistono cause molto più terrene, volgari, artificiali.

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In un Paese dove il suicidio era un atto d’onore, parte fondamentale dell’ideologia del samurai, la pubblicazione negli anni Sessanta del romanzo Kuroi Jukai di Seichō Matsumoto, una storia strappalacrime di una coppia di giovani che entra nella foresta di Aokigahara per suicidarsi, trasforma quello che era un gesto carico di dignità nella via moderna della fuga dalla realtà. Il romanzo si ispira a dicerie e detti popolari che parlano di Aokigahara come di un luogo infestato da demoni pieni di ira, le anime degli anziani che venivano lasciati lì a morire, in un luogo lontano dagli occhi di tutti, perché le famiglie non potevano permettersi di mantenerli. L’impennata improvvisa di suicidi in contemporanea con l’uscita dell’opera di Matsumoto ne fa però il principale artefice della fama maledetta di Aokigahara. Kuroi Jukai, letteralmente “il mare nero di alberi”, perché dall’alto il verde acceso tutto l’anno lo fa sembrare un oceano che costeggia il Fuji, diventa suo malgrado ispirazione per centinaia di suicidi provenienti da tutto il mondo, ma anche l’incunabolo di film e romanzi. Uno di questi, La foresta dei sogni di Robert James Russell, ha ispirato l’omonimo film di Gus van Sant.

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La foresta dei sogni (The Sea of Trees) usa il suggestivo e cupo scenario della foresta di Aokigahara per raccontare una storia di morte a 360 gradi. Il ricercatore scientifico Arthur (Matthew McConaughey) si è recato a Aokigahara dopo aver scoperto che la moglie (Naomi Watts) è gravemente malata, per intraprendere un percorso spirituale di abbandono della vita terrena. Nel suo cammino incontra di tutto, la natura fa la parte della cattiva madre ma i suoi propositi (di morte?) rimangono intatti, fin quando l’incontro con un uomo (Ken Watanabe), tentato dal suicidio a causa di un declassamento al lavoro e poi ritornato sui suoi passi, non lo costringe a un cammino a ritroso per uscire. Il film, poco riuscito e abbastanza scontato nelle sue ambizioni, ha però la capacità di cogliere il senso di morte che dai personaggi si riflette sugli alberi, sul verde onnipresente che avvolge tutto, sul silenzio che incombe e che sottolinea più di ogni dialogo didascalico la presenza, metaforica prima che immanente, della sofferenza e della morte nel percorso di vita di ogni persona. L’uso che Van Sant fa della foresta è prima di tutto filosofico e simbolico; gli serve, cioè, per raccontare il valore della sofferenza e dell’espiazione ma attraverso la strada facile e accessibile del melodramma e della tragedia amorosa, appuntata da flashback che disturbano il tono assoluto, spirituale, del viaggio, limitando una potenziale esplorazione dell’aldilà a un mero confronto tra scienza e fede.

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La suggestione filosofica è ben più astratta e mentale di quella orrorifica che un luogo del genere provoca: sembra che non sia così impossibile imbattersi, per quei pochi folli che vi si addentrano a puro scopo ludico, nei cadaveri dei suicidi, rimasti esposti alle intemperie del tempo anche per settimane. In giro per la rete si trovano foto e documentari, terrificanti. Tornando però al lato leggero della storia, la foresta di Aokigahara è un bacino di spunti per il cinema horror, che si liba di aspetti di pancia piuttosto che speculativi. Uno degli horror più riusciti degli ultimi anni, Jukai – La foresta dei suicidi (2016), parte proprio dal mito della foresta e dei suoi abitanti, i Yurei, gli spiriti degli anziani abbandonati lì a morire e portatori di rancore. Nel film di Jason Zada, Sara (Natalie Dormer, la quale inscrive il film nel sempre più numeroso sottoinsieme degli horror con gli attori di Game of Thrones) avverte una strana sensazione nei confronti della sorella gemella. Scopre subito dopo che la gemella è scomparsa durante una gita nei dintorni della foresta di Aokigahara, dove Sara si reca, sicura di poterla ritrovare viva. La accompagna un americano conosciuto sul posto che gli procura una guida, ma il viaggio dentro la foresta diventa subito un percorso pieno di suggestioni orrorifiche, provocate dalla mistica conformazione degli alberi, dall’aria di morte che aleggia e dalla presenza dei terribili Yurei che sfruttano il lato più triste del carattere delle persone per spingerle al suicidio.

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Per Zada il lavoro è tutto qui, la foresta è un film in sé, con le macchine abbandonate al parcheggio, i nastri che attraversano la foresta per far sì che i propri corpi vengano ritrovati, i cadaveri, i cartelli minatori, le zone mai esplorate che potrebbero contenere portali verso altri mondi. L’impalcatura orrorifica del film si basa esclusivamente sugli spaventi e sui salti dalla sedia costruiti ad arte, come nei video virali che si trovano facilmente su YouTube. D’altronde, l’atmosfera cupa è già la storia, riempie lo schermo e infonde inquietudine senza troppi sforzi, al punto che la sequenza della corsa notturna di Sara, con i volti pallidi, terrei, degli Yurei che la fissano, o la studentessa che la adesca nella grotta diventano graffi profondi nelle corde dei nervi. Quello che in Van Sant è metafora platonica, evanescente, della difficoltà della vita qui diventa un percorso di espiazione sotto forma di survival movie, tra minacce vere e suggerite, personaggi enigmatici e demoni voraci.

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L’horror è la chiave più materica, a dispetto della sua natura spirituale, per raccontare l’orrore della foresta di Aokigahara. Il film di Zada non è l’unico ad aver sfruttato la terribile fama del luogo. La foresta dei suicidi (Grave Halloween, 2013), come nei film già citati, parte da una ricerca – elemento base che spinge il protagonista a mettere piede nella foresta – ­ che sia del senso della vita, della spiegazione alla sofferenza del mondo o, più semplicemente, della persona amata, come la sorella in The Forest. Qui Miko (Kaitlyn Wong) è alla ricerca del corpo della madre suicida e si fa seguire da una troupe di documentaristi per raccontare la propria storia, ma i demoni che popolano la foresta non li lasceranno tranquilli, mentre lei dovrà affrontare la dura verità sulla morte della mamma. Non manca la solita guida locale che ne sa più di tutti e sentenzia «a volte ci si perde nella foresta, a volte è la foresta a perdersi in te», ma è interessante il bizzarro legame tra la ricorrenza di Halloween e il sodaki, rito che facilità il passaggio delle anime verso l’aldilà, entrambi ricadenti nella notte di Ognissanti. Di anime rimaste in trappola racconta anche il più amatoriale Forest of the Living Dead (2011) di Shan Serafin, dove, a dispetto del titolo, non ci sono morti viventi ma una donna, suicidatasi ad Aokigahara per aver scoperto che il ragazzo la cornifica, che non ha pace nell’aldilà e comincia a perseguitare quelli che lo hanno spalleggiato.