Antropocene – L’epoca umana

Un documentario che ricorda le opere più estreme di Werner Herzog e i Mondo Movie
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Fare un documentario, inteso nel senso cinematografico e non puramente didattico, non è una cosa banale, non basta filmare immagini e metterle insieme: bisogna avere un’idea da portare avanti, e una propria poetica. Come fa per esempio il celebre e pluripremiato Gianfranco Rosi, ma non è l’unico. Un esempio di documentario di grande forza visiva e narrativa è anche Antropocene – L’epoca umana, una produzione canadese realizzata nel 2018 da Jennifer Baichwal, Edward Burtynsky e Nicholas de Pencier, e presentato pochi giorni fa al Festival I luoghi dell’anima. La teoria di fondo del film è che l’epoca in cui viviamo oggi sia da classificare come un’era geologica successiva all’Olocene – quella comunemente nota agli scienziati – e definita Antropocene: cioè un tempo, riconducibile almeno agli ultimi cento anni, in cui l’uomo ha agito profondamente sull’ambiente, deturpandolo. I tre registi, fra cui Burtynsky (uno dei più grandi fotografi paesaggisti al mondo), viaggiano con un gruppo di ricercatori, e ci portano in un viaggio attraverso i deserti, le montagne, le foreste, gli oceani di tutti i continenti, dove incombono i segni sempre più incisivi dell’uomo. Ora, qualcuno potrebbe porsi la domanda legittima sul perché un film di questo tipo sia su Nocturno. Le risposte sono molteplici. In primis perché Antropocene non è un qualsiasi reportage come quelli che si vedono in tv, ma un vero film documentario che ricorda da vicino le opere più estreme di Werner Herzog, un maestro del cinema che i tre registi avevano probabilmente in testa quando hanno realizzato il loro film.

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Grazie anche a tecniche di ripresa avanzatissime, lo spettatore è immerso in immagini di enorme potenza visiva, che connotano il documentario come un’esperienza sensoriale totalizzante, ricca di squarci visionari herzoghiani. Basti vedere l’inizio e la fine, che si ricollegano, due fra i momenti più alti: in una landa desolata dell’Africa, centinaia di zanne di elefante giacciono a terra accatastate come capanne, per poi essere date alle fiamme in roghi giganteschi – come azione intesa a danneggiare il bracconaggio. Squarci apocalittici di una terra selvaggia dove la civiltà non è arrivata, una terra ai confini del mondo, riprodotta in scene degne del paesaggio di Apocalypse Now: con i colori vivissimi, fra il rosso delle fiamme, il bianco dell’avorio e lo sporco del fango, mentre i soldati armati fino ai denti sorvegliano il territorio. Antropocene è realizzato accostando in maniera paratattica e volutamente contrastante gli ambienti fra i più disparati del pianeta, e suddividendo il narrato in capitoli, con tecnicismi che non interessano in questa sede. Quello che più ci interessa, il quid, è la matrice fortemente cinematografica con cui i registi hanno costruito tutto il lavoro, andando a recuperare gli aspetti più impensabili del mondo e trasponendoli in immagini potentissime. Un altro carattere marcatamente nocturniano di Antropocene è infatti quel gusto talvolta da shockumentary che ricorda certi mondo-movie, quei famigerati film dove la realtà – talvolta plasmata – era mostrata nei suoi aspetti più scioccanti.

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Naturalmente non siamo ai livelli di Jacopetti e Prosperi, il nostro film è decisamente più soft e adatto a tutti, e la regia non interviene sulla realtà, eppure ci sono sequenze che li ricordano da vicino, in particolare quelle ambientate in Africa. Ricordiamo le già citate scene con l’avorio dato alle fiamme, ma non solo: c’è una discarica dove gli addetti alla raccolta smistano i rifiuti a mani nude, in mezzo agli avvoltoi; c’è un immenso luogo di culto dove migliaia di neri cantano e ballano; ci sono ragazzini che trasportano tronchi in mezzo al fango, in condizioni che rasentano la schiavitù; ci sono i soldati pronti a sparare ai bracconieri; e c’è una voluta contrapposizione fra gli animali liberi in natura e gli animali che vivono negli zoo. Quelli nel continente nero sono probabilmente i momenti più interessanti per il nostro discorso, e purtroppo non tutto il film si mantiene a questi livelli. Eppure ci sono anche altri momenti registicamente creativi, pregni ancora di quella matrice herzoghiana di cui si parlava, e sempre valorizzati dalla fotografia accesa di Nicholas de Pencier: gli interni delle acciaierie che sembrano uscite dal Cacciatore, le raffinerie di petrolio, i marmi di Carrara (dei quali seguiamo gli scavi sulle note di un’aria lirica), inquadrature su montagne e deserti che partono dal dettaglio per estendersi a campi lunghissimi, una lunga soggettiva ipnotica nel tunnel del Gottardo. Un afflato epico dove la bellezza della natura è contrapposta – anche in fase di montaggio – alle brutture dell’uomo, e dove noi spettatori possiamo stupirci dell’infinitamente grande che ci riservano tanto il pianeta quanto le costruzioni umane, alternando gli ambienti naturali con industrie e miniere a cielo aperto. C’è spazio anche per alcune interviste e per la voce narrante che ci accompagna (e che nella versione italiana è di Alba Rohrwacher), ma in Antropocene sono soprattutto le immagini e i suoni a parlare.