Adolfo Lastretti, cattivo per eccellenza

Un'intervista per ricordare l'attore appena scomparso
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Adolfo Lastretti aveva una di quelle facce che non si dimenticano. Un viso da duro che è servito perfettamente alla causa di moltissimi film di genere italiani. L’elenco è goloso, da Fulci a Lenzi, da Caiano a Cavara, da Lattuada a Gaburro. Lavorò molto anche in Francia, in grandi polar interpretati dal suo amico Alian Delon. Lastretti non era uno che parlava molto volentieri del suo passato nel cinema, ma noi eravamo riusciti a farlo “cantare”…

Ci risulta, Adolfo, che lei sia nato a Tempio Pausania nel ’37 e dopo essersi trasferito in Liguria ha cominciato la carriera con un cortometraggio e col Teatro. Sono esatte queste informazioni? Come è entrato nel mondo dello spettacolo?

Sì, tutto esatto. Sono entrato facendo il concorso per l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico e ho vinto la borsa di studio nel 1960. Quindi ho fatto l’Accademia e poi il teatro nelle grandi Compagnie per dieci anni, fino agli anni Settanta, e poi ho iniziato col cinema e anche con la televisione. Mi ha invogliato a fare l’attore l’aver vinto nel 1959 un concorso nazionale per tutti i dilettanti italiani. Io facevo teatro universitario a Genova, così mi iscrissi a questo concorso tanto per fare qualcosa di diverso, perché studiavo Ingegneria, e lo vinsi battendo 300 concorrenti. Ritrovai poi i secondi, i terzi e i quarti classificati, o all’Accademia o nel teatro o nel mondo della stampa. Paolo Graldi ad esempio, era arrivato secondo, voleva fare l’attore, poi invece diventò giornalista nonché direttore di tanti giornali. Insomma, praticamente ho iniziato a far l’attore professionista nel 1962. Superai un provino con Giancarlo Menotti per il Festival di Spoleto: cercavano un ragazzo che facesse uno spettacolo a Spoleto e io lasciai l’Accademia al secondo anno per andare lì, perché non avrei potuto sperare niente di meglio finendo l’Accademia. La serata a Spoleto si chiamava I Fogli d’Album, cinque atti unici, dove io ero protagonista. Uno era I due chiacchieroni di Cervantes, poi altri testi. Due erano scritti da Giancarlo Menotti, la regia era di Menotti. C’era anche Tomas Milian, arrivato da poco in Italia e Antonio Gades, che poi diventò il Grande Antonio, che faceva il balletto d’apertura dello spettacolo del Caio Melisso di Spoleto.

Qualche sito web, scrive che il suo primo film fu Minaccia occulta di Umberto Paolessi. È così?

No, assolutamente.

Lei ha preso parte anche a qualche spaghetti western. Joe, cercati un posto per morire, Los Amigos e soprattutto I quattro dell’Apocalisse di Fulci. Che ricordo ha della lavorazione dei western italiani?

Erano molto interessanti perché allora facevamo tutto noi, non c’erano gli effetti speciali. Ho dovuto e voluto fare anche un po’ il cascatore, ovvero lo stuntman. Si andava a cavallo… Allora non si viaggiava come adesso, quindi andare in Spagna, in Almeria, a girare questi spaghetti-western era un’avventura piacevole, ma certo non avevano niente a che fare con le grandi interpretazioni di attore di teatro che io avrei voluto fare. Io ero nato per il teatro, poi è arrivato il cinema e chiaramente mi ha un po’ assorbito.

 Quindi preferisce più il teatro al cinema?

Senza dubbio. Il cinema? Sì, è bello vedere i film, ma a farli non c’è una grande soddisfazione perché non c’è il tempo di preparare bene il personaggio, di entrare nell’introspezione. Si è legati a tante cose, a tempi precisi, a movimenti… All’attore di cinema capita anche di rivedersi nei film e dire: “Ma io questa cosa non l’ho fatta!”, perché il film viene fatto al montaggio, dal regista e dal montatore. Se uno ha un dialogo con una persona seduto ad un tavolo, può fare tutte le espressioni meravigliose che vuole, ma può darsi che venga inquadrato di spalle! È solo per fare un esempio, per dire che il montaggio è tutto. Poi ci sono le musiche, i rumori. Viene messo tutto nel frullatore e viene fuori un prodotto. Ma di quello che uno fa realmente quando interpreta il personaggio, rimane ben poco. Rimane quello che interessa al regista, al produttore, al mercato. Invece in teatro no, sei allo sbaraglio, puoi fare ciò che vuoi. Sì, sempre seguendo gli ordini del regista, ma si ha una certa libertà e si ha un risultato subito.

Lei ha partecipato anche al carosello della Lambretta nel 1970. Se lo ricorda?

Per niente.

Che ricordo conserva della lavorazione di Una ragione per vivere e una per morire di Tonino Valerii, di Povero Cristo di Pier Carpi e del film a episodi Vedove inconsolabili in cerca di distrazioni con Luisa Rivelli.

Del film di Valerii ricordo solo James Coburn. Quello con la Rivelli era un filmaccio. Se uno fa l’attore di mestiere deve pur campare. Quindi, si accettano film anche malvolentieri, ma non ho nessun ricordo. Ho cercato di cancellare parecchie cose, ne voglio ricordare solo alcune. Qualcosa di teatro, ma di grandi cose in questi film non ne ho mai viste. Sono film che si fanno così, per lavorare e via.

Scorrendo la sua filmografia, troviamo film di produzione francese: La banda Bonnot di Philippe Fourastié con Jacques Brel e Annie Girardot. Borsalino & Co. e Flic Story di Jacques Deray con Alain Delon. Come arrivò a lavorare con registi d’oltralpe?

Ho lavorato molto in Francia perché ero grande amico di Alain Delon. Lui mi chiamò per fare Borsalino… Li ho girati tutti in francese perché lì bisogna recitare in francese, ma la cosa ridicola era che molti film in Italia allora si giravano in inglese. La prima cosa che chiedevano in Italia era se si conosceva bene l’inglese. Facevano questo genere di domande. Io feci anche un provino con Billy Wilder per un film con Jack Lemmon, progetto che poi non andò in porto perché io ero impegnato in Spagna sul set di Una ragione per vivere e una per morire. In Francia feci questa Banda Bonnot con Annie Girardot e Jacques Brel, una piccola parte. Prima però mi aveva chiamato la televisione francese per fare L’éducation sentimentale, un romanzo-sceneggiato dove avevo una bella parte. Su Il Messaggero uscì anche un servizio con una mia foto in cui si diceva che fossi l’unico attore italiano.

Lei è famoso soprattutto per aver interpretato l’impasticcato Ciccio Paternò ne Il Giustiziere sfida la città di Umberto Lenzi con Tomas Milian. Che ricordo ha di quel film?

 Lì Tomas alla fine mi uccide. Di quel film ho un bel ricordo. Soprattutto perché conobbi quel grande attore internazionale che faceva la parte di mio padre: Joseph Cotten. Questi divi americani che venivano in Italia a fare delle partecipazioni, mi insegnavano molto, anche se poi noi italiani li abbiamo a volte superati. Però allora c’era da imparare. Con Joseph ebbi scambi di opinione su cinema, teatro…

La chiamavano spesso in ruoli di cattivo, di killer…

È stato sempre il mio cruccio. Io sono un buono di natura, quindi l’essere chiamato sempre per il ruolo del cattivo infame, mi metteva in crisi. Però d’altronde mi faceva piacere perché dovevo veramente trasformarmi, quindi facevo un grande studio sulla trasformazione della personalità. Non ho mai fatto veramente quel che avrei voluto fare. Se non si producono i propri film, se non si è autonomi, se non si hanno le spalle ben coperte è difficile fare ciò che veramente si vuol fare.

Lei ha lavorato molto anche in tv. La ricordiamo nel Commissario Maigret, nella soap Vivere e in Padre Pio con Castellitto. Ha qualche curiosità da raccontare sul mondo della tv?

Per Padre Pio feci proprio una particina. Vivere fu un’esperienza interessante, perché io non avevo mai visto una soap-opera in vita mia. Mi chiamarono per questa parte con un contratto di quattro anni e non ho saputo dire di no. Però, insomma, non ero nato per fare le soap-opere… Con la tv cominciai proprio con Il Commissario Maigret di Gino Cervi negli anni Sessanta. E poi Una donna dal romanzo di Sibilla Aleramo, che segnava l’esordio di Giuliana De Sio, che aveva 18 anni. La regia era di Andrea Camilleri, mio maestro all’Accademia. L’ho rivisto dopo una decina d’anni, negli anni Settanta, che faceva il regista in Rai.

Lei ha avuto a che fare col mondo del doppiaggio…

Si. Ma io il doppiaggio non l’ho mai considerato un lavoro da attore, ma solo un altro mestiere, perché il personaggio è costruito dall’attore che recita sullo schermo, quindi il doppiatore non fa altro che seguire… Diciamo che è un bravo imitatore. Non fa altro che seguire quello che fa chi è sullo schermo. Se ride, se sorride, se piange… devi ridere, sorridere e piangere, anche se magari io per interpretare quel personaggio non avrei riso o sorriso in quel momento. Quindi, non c’è creatività. Dove non c’è la creatività, non c’è l’attore.

Infatti doppiò Kitt di Supercar

(ride). Appunto, quella era una macchina. Me la presentarono anche, a Los Angeles, la macchina. Ero andato a Los Angeles per doppiare una serie dove ero protagonista, ma che poi in Italia non uscì perché successe un putiferio con i sindacati e le case di doppiaggio, perché non volevano che si andasse a doppiare i film direttamente in America. Quando mi chiamarono, però, io non sapevo niente di tutto questo, di quello che poi successe. Per punizione, non mi fecero lavorare per un anno (ride). Comunque, di doppiaggi ne ho fatti molti, ma sempre piccoli personaggi. Ho doppiato in molti episodi Spock di Star Trek… Non mi ricordo altro, sai al doppiaggio si sta al buio, in piedi per nove ore e si torna a casa distrutti, senza aver più voglia di vedere la televisione e col mal di gambe. È un mestiere infame. Veramente brutto, non so come fanno a chiamarlo ‘lavoro da attore’. Gli attori sono un’altra cosa. Lo stesso Ferruccio Amendola, che era mio amico, era bravissimo. Ma bravissimo nell’imitare… poi dal petto in giù sono inesistenti. Mettili su un palcoscenico e vediamo cosa sanno fare questi doppiatori. Non è un mestiere da attore come lo intendo io, come lo intendevamo al tempo dell’Accademia, studiare la psicologia dei personaggi, avere una cultura generale sui costumi, sui movimenti… Noi avevamo il grande libro di Stanislavskij, lo studiavamo, andavamo allo Studio Fersen, che era geniale, dove c’era anche Tomas Milian. Lo frequentammo insieme, dopo l’Accademia. Tomas Milian infatti è un bravissimo attore, ma magari se lo metti a fare doppiaggio, non lo sa fare. Anche io ebbi molte difficoltà, agli inizi, per il doppiaggio, ma ebbi un grande maestro che si chiamava Emilio Cigoli, che nessuno conosce, ma che doppiava Gregory Peck, Glenn Ford e tutti gli altri divi di quel periodo. Provarono a cambiargli voce, ma non hanno reso come Cigoli. Se cambi le voci a quei vecchi film in bianco e nero, non sono più loro… Diciamo che Amendola è stato l’erede di Cigoli.

Cosa fa oggi e che bilancio trae dalla sua carriera?

Io sono in una situazione molto particolare. Ho smesso di occuparmi del mondo dello spettacolo nel 2003, esattamente quando ho finito di fare quella soap-opera, Vivere. È stata veramente l’ultima cosa, non ho più voluto saperne di niente perché il mondo è cambiato e io non so stare ai tempi. Quindi mi sono ritirato in Maremma tra la natura e gli animali. Sono stato un po’ in crisi sulla valutazione degli uomini, non credo più nel pubblico, mi dà fastidio l’applauso, per esempio. Negli ultimi tempi, a teatro, mi dava fastidio sentire gli applausi perché mi accorgevo che applaudono sempre, applaudono tutto e tutti, qualsiasi cosa uno faccia. Se uno è un po’ sulla cresta dell’onda, un po’ famoso, scatta subito l’applauso. Se uno parla, anche nei talk-show, c’è l’applauso; poi, l’altro dice il contrario e applaudono di nuovo. Una cosa molto fastidiosa. L’applauso dovrebbe essere un riconoscimento dato una volta ogni tanto… Una volta esistevano i fischi anche. (ride) Se vai a teatro e fischi, ti arrestano. Non ci sono più termini di paragone, mi sembra che se uno fa una cosa sulla quale ha studiato tanto, magari viene paragonato a un altro che ha fatto soltanto della pubblicità, sia a livello economico che di popolarità. Io avrei dovuto rifugiarmi, come ha fatto Tino Carraro, Strehler, i grandissimi Salvo Randone, Enrico Maria Salerno – che oggi nessuno sa chi siano – nei teatri stabili per fare dei personaggi, per fare gli attori, con grande soddisfazione personale perché si trasformano, dimenticando loro stessi per due ore al giorno, che è una cosa meravigliosa. Quello è il vero lavoro dell’attore, il resto si fa per vivere. Io dopo aver fatto Vivere ho chiuso definitivamente. Ogni tanto mi chiamano, mi volevano far lavorare in una Scuola di Teatro qui in Maremma, ma non ne ho più voglia. E poi mi piacciono troppo gli animali, quindi sto con gli animali in una vita serena. Ho provato un po’ tutto nella vita, ma non mi pento di niente.