A Different Man. Autopsia di un film differente

Uno dei titoli più potenti della Berlinale. Il film di Aaron Schimberg ha vinto il premio per la migliore interpretazione a Sebastian Stan. I critici non l'hanno capito, perché è davvero diverso da tutto. Una guida per comprenderlo e amarlo
Featured Image

Quando, alla conferenza stampa della 74esima edizione Festival di Berlino, viene chiesto al giovane regista Aaron Schimberg, se fossero state intenzionali le sue citazioni e referenze a Woody Allen, egli risponde, con un’ironia del tutto spontanea, che, oramai, qualsiasi cosa di “queerly weird” (che mi permetto di tradurre con “sfigatamente strano”), girato a New York, ricorda, cita, transita su Woody Allen. Come se la persona, l’arte stessa e le peculiarità caratterizzanti di certe opere e personaggi, diventano, come suole in semiotica, una significazione universale. New York, la commedia grottesca, i personaggi e le situazioni stravagantemente taglienti, le battute sardoniche, l’abbigliamento singolare, gli interni di uno squallido boho maleodorante, i condomini di una Brooklyn ancora accessibile e fatiscente.

Questi sono alcuni degli ingredienti che si mescolano nella ricetta cinematografica di A Different Man, in concorso alla Berlinale e vincitore del premio per la migliore interpretazione a Sebastian Stan. Film che solo apparentemente si manifesta come opera manierista, ma che si esplicita e funziona su tanti livelli culturali, sociali e metalinguistici e lo rende uno dei film più interessanti in concorso. Fin dalle prime sequenze avvolte nelle musiche del compositore Umberto Smerilli, quando la regia, con un lento piano sequenza, ci presenta Edward (Sebastian Stan), giovane attore sfigurato, alle prese con un’interpretazione che viene interrotta perché troppo “esagerata”. Dalla diegesi del set, si passa alla diegesi del personaggio e della vicenda, che rivela la vita solitaria e articolata non tanto di un giovane deformato, quanto di un giovane attore alle prese con una città e un mestiere più grande di lui. Da un provino all’altro, in fila con altri attori, incorniciato dalle righe verticali di una città che delle sue vertiginosità (non solo architettoniche) ha creato uno stereotipo psicanalitico e qualificante, appunto. Una fattezza ancora tipica della Grande Mela, che magistralmente John Schlesinger e Paul Morrisey, tra gli altri, hanno saputo interpretare. Del resto Frank Sinatra cantava a proposito If you can make it there, you can make it anywhere

Screenshot 2024-02-27 144914

Edward vive in appartamento di un condominio rumoroso, affollato, fatiscente ma quanto mai riconoscibile e contraddistinguente, sia in termini peculiari – luogo come topoi propri del soggetto stesso – sia in termini universali e filmologici – sappiamo di essere a N.Y senza mai vedere la Statua della Libertà o Times Square… E molto si svolge e si palesa nell’appartamento, che metaforicamente rappresenta, come in Kafka – citato nella sua metamorfosi, quando uno scarafaggio cade nella tazza di Edward -, un luogo che muta, cambia, degenera, si trasforma, come si trasforma Edward. Egli si riconosce e viene riconosciuto dai suoi coinquilini, che, senza false ipocrisie moralizzanti, lo amano, lo disprezzano, lo ignorano e lo giudicano; come goffo dirimpettaio della collettività, non come mostro sfigurato da compatire. Il volto deturpato di Edward, infatti, non è il motore della narrazione, il motivo identificante del personaggio, come accade in The Elephant Man Anzi, questa deformità sembra non essere accettata solo da lui. Lo spettatore stesso non soffre guardandolo, poiché ne apprezza il carattere, la fisicità stessa della sua postura e della sua camminata alla “Allen”, appunto; del suo modo diretto e punzecchiante di rispondere e di dialogare; del suo vivere condizioni umoristiche che rappresentano la commedia come genere, non l’estetica come punto di riferimento.

Non infastidisce neanche Ingrid (Renate Reinsve), la sua nuova vicina di casa, che si interessa perché genuinamente attratta da lui e non incuriosita dalla sua tragica sembianza. Edward, erroneamente, pensa di non avere chance con la bellissima ragazza e fantastica, ad occhi aperti, osservando il suo vicino astioso che ne infila una dopo l’altra. Si renderà conto, solo in seguito, di quanto quel crudele essere giudicante sia sull’orlo del suo tragico epilogo. La scienza, come spesso accade, gli viene in (dubbioso) ausilio. Un team di medici ingessati, perfettamente in sintonia con il resto dei personaggi pacchiani della vicenda, propone a Edward una cura sperimentale, alla quale, egli decide di sottoporsi. La cura dovrebbe eliminare completamente le cicatrici e renderlo un uomo normale. A questo punto il film devia su tinture cronenberghiane mentre, giorno dopo giorno, la faccia di Edward si liquefa, gocciolando brandelli di carne e sangue. Con lui cambia anche il suo appartamento. Una perdita dal soffitto, appena accennata all’inizio della vicenda, diventa una voragine che cola mostruosità… come fosse il ritratto di Dorian Gray che si appropria di quelle squame che si dissolvono dalla faccia di Edward. Egli si isola, vive questa sua metamorfosi strappandosi di dosso la carne morta che rivela un volto non solo “normale”, ma accattivante… diventa un gran figo.

adifferent

Qui la vicenda si stratifica ulteriormente. Irriconoscibile, prende la palla al balzo per scomparire, per crearsi un’altra vita, non per migliorare la sua (che si renderà, conto solo dopo, essere perfetta). Nella più consapevole riflessione pirandelliana – dal mascheramento di Pascal alle epifanie di Vitangelo Moscarda – il nostro mette in atto dinamiche conturbanti e alquanto inquietanti. Ottenuto lo scopo superficiale di un’estetica apprezzabile e riconoscibile al mondo sociale, egli non intende conquistare la donna amata e la fama attoriale… No! Diventa il nuovo, affascinante, attraente, meraviglioso, splendido volto del mercato immobiliare newyorkese. Geniale! Perché se è vero (come è vero) che vanno considerati tre fattori quando si cerca una casa (location, location, location!), è altrettanto vero che una dimora (si torna sempre lì) a New York rappresenta e ha sempre rappresentato uno status symbol che ancora oggi limita il normale newyorkese a vivere la città come andrebbe vissuta (lo disse anche Abel Ferrara, che oramai preferisce Roma ai pomodori senza gusto dell’Upper East side). Edward è un altro uomo. Cambia casa, cambia entourage, gode del suo successo lavorativo e della sua disinvoltura sociale, fino a quando — e qui il racconto svela ancora un altro strato — incontra, mesi, forse anni dopo, Ingrid, la quale sta mettendo in scena uno spettacolo indipendente off Broadway sulla loro storia. Cerca attori “sfigurati” per la parte di Edward… Edward, sotto falso nome, si presenta al provino e interpreta perfettamente la parte, ma il suo nuovo volto non funziona. Si mette, così, un’ulteriore maschera, un calco che i medici gli avevano fatto anni prima, del suo volto deturpato.

Qui Schimberg, di proposito o meno, ammicca ironicamente all’ipocrisia del “gender/color-blind casting” che sta cambiando, non sempre in meglio, il “volto”, appunto della cinematografia mondiale. Per non parlare dell’impostura che vede gli studios estremizzare il metodo stanislavskiano, forzando ruoli con caratteristiche tipiche solo ad attori con tali caratteristiche (ne sa qualcosa Bradley Cooper, criticato per aver indossato un naso prostetico troppo “semita” in Maestro). Edward vive due vite adesso; di giorno è ancora il bellissimo agente immobiliare, di sera l’orrendo e maldestro personaggio della commedia. Ma i livelli non finiscono qui. Come le stratificazioni del volto di Edward, così la narrazione si torce ancora una volta. Si svela Oswald (Adam Pearson), personaggio e attore, sia nella diegesi che nel mondo filmologico reale. È realmente sfigurato e assomiglia in modo sconcertante a Edward. E non solo, Oswald è sarcastico, divertente, passionale, talentuoso, disinvolto, accattivante e infine… affascinante. Conquista non solo Ingrid, che si innamora perdutamente di lui, ma anche noi pubblico.

different3

Il film esplode a questo punto in una supernova pirandelliana che si sublima, appunto, nel gioco delle parti. La vita di Edward inizia a frantumarsi, egli si scioglie, si disfa, come fece la sua faccia nel primo atto della narrazione, impazzisce fino a commettere misfatti che lo condurranno alla disfatta totale. Oswald invece – ecco il vero ritratto di Gray infine – si sublima; conquista la parte da protagonista, la donna e la famiglia, il successo e l’affermazione sociale. Il film si conclude in maniera tanto magistrale, quanto mordacemente scioccante. In un epilogo devastante, Edward, finalmente senile, uscito di galera, incontra Ingrid e Oswald. Oswald chiama Edward con il suo vero nome – Edward, appunto – come a far intendere che era sempre stato al corrente del suo inganno, della sua maschera (tuttavia sua vera identità). Volutamente bullizzato, denigrato, offeso, dunque, da colui che dovrebbe, per la legge della bellezza spettacolare, essere accantonato e compatito, si trasforma in angelo sterminatore e punisce la spocchia di Edward che non ha saputo cogliere la bellezza della sua essenza.

Il regista Aaron Schimberg, egli stesso nato con una malformazione al palato, dice di aver messo quest’ultima battuta in sceneggiatura senza rendersene conto, nella più classica delle dinamiche freudiane e Adam Pearson, eccellente interprete di Oswald, attraverso il suo autentico charme deturpante, rivela al mondo intero quanto basti osservare intensamente le diversità non solo per comprenderle, ma per apprezzarne la bellezza. In un’epoca dove gli sproloqui sull’identità sono arrivati a livelli sovradimensionati, questo piccolo film indipendente ci fa pensare e analizzare le identità in un modo profondamente filosofico e cinematograficamente integro; perché il cinema è l’arte duplicabile per eccellenza. Nasce come doppelgängere, ha un’anima “negativa” e una “positiva” che si compensano e ha la capacità si farsi vedere contemporaneamente in tutto il mondo, nello stesso momento! La sua unicità si rispetta solo prendendone atto e riconoscendone le innumerevoli sfaccettature.