Featured Image

Three Thousand Years of Longing

2022
REGIA:
George Miller
CAST:
Idris Elba (il Genio)
Tilda Swinton (Alithea Binnie)
Kaan Guldur (Murad IV)

Il nostro giudizio

Three Thousand Years of Longing è un film del 2022, diretto da George Miller.

Mai sottovalutare il potere delle storie. Sì, perché, una buona storia, se ben raccontata, può cambiare, se non il mondo, quantomeno una vita. O, più semplicemente, anche una singola giornata. E se a raccontarla, questa storia, è uno come George Miller, beh, state pur certi che nessun occhio o orecchio potranno rimanere indifferenti. Anche quando, come in questo caso, il soggetto è quello della scrittrice Antonia Susan Byatt. È, infatti, sua la penna celata dietro a Il genio nell’occhio d’usignolo, il piccolo suadente racconto che da il titolo all’omonima raccolta mitologico-fiabesca concepita nel 1994 e che, così come l’irrequieto sovrannaturale essere per metà umano e per metà angelico che ne è co-protagonista, da vita a quella che è, sino ad oggi, la più barocca, eccessiva e visionaria fra le mirabolanti creature che popolano il variegato cinematografico serraglio del più rockettaro fra i registi australiani. È indubbiamente un’entità maestosa ed abbacinante Three Thousand Years of Longing, capace di strappare ben sei minuti di standig ovation al Festival di Cannes 2022 dopo i 60 milioni di dollari spesi e sparsi per dargli corpo. Un vero e proprio felliniano inno alla grandeur dell’immaginazione che, così come il fantasmagorico e altrettanto opulento Parnassus di Gilliam, attraverso un complicato marchingegno di leve, finti specchi e fumo negli occhi, finisce per confezionare un’avvolgente e onirica ora e quaranta degna di un viaggio in ottovolante fra i caldi effluvi d’oppio de Le Mille e una notte. Un viaggio avventuroso, immersivo e indubbiamente accidentato, tutt’altro che conciliante e sicuramente non adatto a tutti i palati, spesso schiacciato sotto al peso della propria mole ma proprio per questo fisiologicamente incapace di lasciare indifferenti.

Ma sia chiaro che per il buon George Three Thousand Years of Longing non è un semplice racconto. Si tratta piuttosto del suo personalissimo Racconto dei racconti: una labirintica matrioska visiva e narrativa che riesce straordinariamente a evocare terre lontane, regni incantanti, tirannici sovrani e affascinanti principesse con il puro e semplice potere icastico della parola, rimanendo per lo più confinato fra le sciccose quattro mura di una spaziosa camera d’albergo in pieno centro di Istanbul. Quella stessa prigione d’orata nella quale la fiera e indipendente Alithea (Tilda Swinton), rinomata accademica britannica appassionata di letteratura antica e saltuariamente perseguitata da demoniache visioni, si trova a vivere un’allucinante avventura degna di quelle stesse novelle da lei tanto amate e studiate. Aprendo accidentalmente una preziosa ampolla di vetro acquistata in un misterioso bazar, la nostra incauta letterata libererà nientemeno che un Djinn (Idris Elba), il celebre essere di puro fumo e spirito partorito dalla tradizione mitologica araba, cugino e amante della splendida regina di Saba e costretto all’esilio, oltre tremila anni addietro, dal re Salomone in persona. Catapultato in un modo a lui quasi estraneo, dominato da dispositivi tecnologici non poi così tanto differenti dalla vera magia di cui egli è maestro, l’avvenente Genio proporrà alla sua nuova padrona umana di esaudire i consueti tre desideri, cercando così di guadagnarsi il meritato riposo eterno dopo secoli di solitaria prigionia. Non prima però di aver mascolinamente incarnato il ruolo di novelliere, trasportando l’ipnotizzata Alithea e gli altrettanto incantati spettatori attraverso i tre più salienti episodi del suo avventuroso e fantasmagorico passato, fra gli assolati tramonti del regno di Sheba, i violenti intrighi celati nel palazzo di Solimano il Magnifico e l’unico momento di vero amore bagnato dalle calde acque del Bosforo.

Come ogni storia che si rispetti,anche Three Thous and Years of Longing inizia con quel cerimoniale C’era una volta che, da un presente grigio e asettico racchiuso fra i freddi schermi di televisori, tablet e smartphone, ci trascina di peso fra le sabbie di un favoleggiante passato, con la stessa veemenza dei grotteschi balzi spaziotemporali che costituiscono la disorientante cartina di tornasole di Everything Everywhere All at Once. Ma, a differenza delle aride lande post apocalittiche percorse a tutto gas dalla violentissima marmaglia post-punk del devastato universo di Mad Max, stavolta le sabbie non sono altro che quelle di esotici e favoleggianti diorami capaci, così come il baroccheggiante e stratificato delirio metanarrativo del visionario The Fall di Tarsem Singh, di abbattere definitivamente il già precario muro che divide la granitica realtà dallo sconfinato regno della fantasia. E non vi è alcun dubbio che la fantasia del buon Miller, al pari dei muscolosi e lucidi destrieri lanciati nel fuoco della battaglia dalle spietate orde assassine del Sultano Murad IV, stavolta sia stata lasciata a briglia più che mai sciolta, dando vita a un racconto immersivo e attanagliante tanto quanto un sano trip allucinogeno, capace di passare con straordinaria disinvoltura da un registro solidamente drammatico ad uno squisitamente grottesco – con persino un gustoso pizzicorino di puro horror – con la stessa aromatica dolcezza di un çay servito bollente e zuccherato su di una terrazza di Cipro. Ma non lasciatevi incantare dai colorati e avvolgenti fumi delle apparenze, poiché, sotto tutto questo stordente sfarzo fatto di drappi cangianti, mosaici multicolori e tramonti infuocati, si cela in realtà nulla una tenera, intensa e appassionata love story capace di abbattere le barriere dello spazio e del tempo, sfidando persino le solitamente inviolabili leggi di natura al punto da permettere a due anime egualmente solitarie, una di polvere e l’altra di spirito, di potersi finalmente unire così come nella più bella e appassionata delle favole. E se è vero che, come amava ripetere quel gran cicerone di Oscar Wilde, è sempre bene pensare con attenzione a ciò che si desidera, poiché il rischio di ottenerlo è davvero molto alto, allora non vi è dubbio che, nonostante gli appena 16 milioni racimolati al botteghino, lo scaltro e anarchico Miller abbia stavolta desiderato come mai prima d’ora di raccontare la sua Storia, con i modi e i tempi che gli sono propri, senza curarsi minimamente di accontentare gli uni o di scontentare gli altri.