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Milano Calibro 9

1972
Titolo Originale:
Milano Calibro 9
REGIA:
Fernando Di Leo
CAST:
Gastone Moschin (Ugo Piazza)
Barbara Bouchet (Nelly Bordon)
Mario Adorf (Rocco Musco)

Il nostro giudizio

Milano calibro 9 è un film del 1971, diretto da Fernando di Leo.

L’ultima immagine di Milano calibro 9 è una sigaretta che lentamente si consuma. Una sintesi perfetta dello spirito di tutto il film. I personaggi, quelli “buoni” e quelli “cattivi”, o meglio: quelli all’apparenza “buoni” e quelli sicuramente cattivi, si sono consumati pian piano, come quella sigaretta, nel corso della vicenda. È un processo che parte lento e del quale lo spettatore non si rende quasi conto, ma che man mano che avanza si fa sensibile fino a culminare in un vortice dal quale niente e nessuno viene risparmiato. La cenere è quel che resta; un secco siamo polvere ed ombra, la morale. Nel primo capitolo della “Trilogia del Milieu”, l’incedere progressivo e ineluttabile del destino è un’evidenza non solo concettuale: anche se nelle versioni del film oggi diffuse non ne è rimasta traccia, la copia cinematografica originale, con la sovraimpressione dei giorni e delle ore (un “trucco” derivato da Le samourai di Melville), insisteva su questa marcia scandita degli uomini e delle cose verso il Nulla (Fernando di Leo scriverà anni dopo un romanzo poliziesco utilizzando il titolo Da lunedì a lunedì, che rimanda all’arco temporale entro cui si svolge la parabola di Ugo Piazza in Milano calibro 9 e che avrebbe dovuto essere il primo titolo del film). Gastone Moschin è un segnato. Fin dal momento in cui, appena fuori dal carcere di San Vittore, l’ignota sagoma rossastra ne spia i movimenti. Ma di Leo è astuto a non lasciare il tempo di riflettere alo spettatore e a depistarlo, con la roboante entrata in scena dei vecchi compari di Piazza. Solleva polvere, confonde tatticamente le idee.

Eppure, di quando in quando, quel filo pendente riappare, discreto, ai margini dell’azione, srotolandosi e rivelandosi finalmente per un cappio che qualcuno è andato man mano stringendo intorno al collo dello scaltro protagonista che verrà fregato, per un beffardo contrappasso, con la più ingloriosa delle disfatte. Gli ultimi metri di pellicola testimoniano come la forma del noir sia pura filosofia: nel precipitare finale di tutto, il gioco delle apparenze su cui si è retto il film – su cui si regge la vita – collassa, trasformando le implicazioni scontate nel loro esatto contrario: la furbizia in fesseria, l’amore in tradimento bieco, l’ostilità in rispetto. Che poi questo non abbia in Milano calibro 9 la freddezza del teorema o la pesantezza della dimostrazione, ma raggiunga “un lirismo criminale che ha riscontro solo in Huston Melville e Nick Ray” lo si deve a un maestro di cinema che è anche ottimo conoscitore delle speci umane. Con idee molto chiare in partenza: le sceneggiature della trilogia sono già i film; pochissimi gli aggiustamenti in corsa, e insignificanti, come in questo caso la figura dell’“Americano” che nello script si chiamava il “Foggiano”.

Gastone Moschin, sfruttato al di fuori del genere comico, è perfetto per la faccia granitica (un po’ da duro un po’ da buono) di Ugo Piazza. Un “uomo del Nord”, freddo, calcolatore, imprevedibile, con un’unica debolezza, in cui il destino farà breccia. Mario Adorf è il suo controcanto mediterraneo e sudista, la forza in movimento, bruta e irriflessa, tanto quanto Piazza ne incarna la potenza statica. Al di là delle considerazioni sulla giustezza dell’ethos criminale che di Leo rappresenta in Rocco e dell’istrionismo di Adorf (doppiato da Stefano Satta Flores, al quale va reso quanto che gli spetta nella caratterizzazione), il suo personaggio emerge come nessun altro in Milano calibro 9, tant’è che il regista gli lascia il grande assolo dell’inizio e chiude il film su di lui, custode del codice morale che non permette di lasciare invendicata la morte di un “giusto”. Poi la grande messa in luce di Barbara Bouchet, nello sguardo della quale brillavano – disse di Leo – come delle “cattiverie”; poi Philippe Leroy, Chino nervoso e incanottierato; poi il nostalgico boss cieco, Ivo Garrani, poi Lionel Standler, che pare una chioccia più che un mastino; poi l’opposizione dei due poliziotti, Frank Wolff il fascista, e Luigi Pistilli il progressista; poi i picciotti, colti ciascuno in un vezzo, in uno schizzo espressivo, in un tic, tutti veri e pregnanti; poi Milano, azzurracea e nebbiosa, stessa che entra come personaggio nella storia. E Fernando di Leo in quella del cinema.