10 film di paura da (ri)scoprire ad Halloween

Una lista di gioielli del terrore ripescati dalle nebbie del tempo
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Implacabile come le tasse e la morte, anche quest’anno la beneamata vigilia d’Ognissanti torna, bella e pimpante, a far capolino dalle nostre parti, portandosi appresso il consueto corredo di dolcetti, scherzetti e brividi più o meno freddi. Ma mentre i più saranno già pronti a inforcare maschera e mantello per tuffarsi a capofitto in qualche festicciola alcolica a tema Freddy Krueger o Pennywise, altri si apprestano invece a vivere la notte delle streghe chiusi nelle quattro calde mura della propria casetta, fra zucche intagliante, qualche birra non troppo compromettente e l’immancabile appuntamento col terrore ben spalmato su piccolo schermo. Ed è appunto ai pantofolai più incalliti e grandi intenditori dei piaceri casalinghi che questo nostro piccolo “vademecum de paura” è rivolto, una gustosa selezione dei migliori film di paura, gioiellini del terrore appositamente ripescati dalle nebbie del tempo e ripuliti dalla sozza patina dell’oblio, serviti per voi su di un piatto d’argento fra teschi di marzapane e ragni gommosi da ingollarsi fino a rischio indigestione. E sì, perché Halloween non è sempre e solo bambole assassine, dolci famigliole cannibali e pazzoidi ammazzattutti con la maschera da hockey, ma anche e soprattutto la scoperta e la ri-scoperta di quelle misconosciute perle di genere che, nel bene e nel male, in salute e in malattia, hanno contribuito ad accapponare ancora di più la nostra già ipersensibile pellaccia di cinefili incalliti.

1. Il castello degli spettri (1927), Paul Leni

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Tanto tanto tempo fa, in una galassia cinematografica lontana ancora orfana del colore, vi fu una gloriosa era in cui, per far davvero paura, non serviva sparare decibel a manetta. Anzi; non serviva nemmeno il suono a dirla tutta! Ed è appunto in questo mondo di silenzi in bianco e nero che il grande Paul Leni, uno dei massimi esponenti dello storico espressionismo, decise per primo di portare sul grande schermo, con la sua consueta maestria ed eleganza, uno dei primi grandi esempi di paura cinematografica racchiusa fra le quattro spettrali mura di una magione sperduta e potenzialmente infestata da sinistre presenze. Correva l’ormai fumoso anno 1927 quando la pièce teatrale di John Willard Il castello degli spettri fece il decisivo passo dal palcoscenico al grande schermo, mostrando appieno tutte le ansie e gli orrori di uno sparuto gruppo di familiari riuniti in un goticissimo castello maledetto – divenuto una vera e propria icona del genere, ripreso tanto dal Frankenstein di Whale quanto dall’Hitchcock di Rebecca la prima moglie – per leggere il testamento del defunto Cyrus West, condotto alla pazzia e all’altro mondo dalla cupidigia dei famelici eredi. Ma una volta lette le volontà del defunto e rivelata l’identità del fortunato beneficiario, una notte di terrore si prepara per i nostri incauti avventori, costretti a rimanere rinchiusi nel sinistro maniero a causa di una torrenziale bufera con tutti i sacri e profani crismi. Considerato uno dei primi esperimenti orrorifici targati Universal in preparazione alla gloriosa stagione dei “Mostri” anni ’30 e ’40, questo racconto gotico ha letteralmente segnato un’epoca, grazie a una magistrale fotografia piena zeppa di ombre contrastate e un gustosissimo mix di paura e risata, senza ovviamente dimenticare gli arditissimi movimenti di macchina e i lunghi piani-sequenza che all’epoca fecero letteralmente gridare al capolavoro. E di capolavoro è giustissimo parlare, tenendo conto che si tratta di uno degli horror con all’attivo il più alto numero di remake: ben tre fra il 1930 e il 1978. Da qui in avanti nulla sarà più come prima, e la spigolosa silhouette di un castello bombardato da raffiche di fulmini sullo sfondo di un cielo plumbeo entrerà meritatamente a far parte della Storia del Cinema.

2. Il segreto del Tibet (1935), Stuart Walker

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Dimenticate i licantropi dagli impomatati muscoloni dei vari Twilight e Underworld. Scordatevi pure gli ululanti raccapricci di Joe Dante e i mannari americani in trasferta di John Landis. Mettete infine da parte anche i famelici Dog Soldiers di Neil Marshall. Sei anni prima che il mitico Lon Chaney Jr. gorgheggiasse alla splendente luce della luna targata Universal, Stuart Walker aveva già iniziato a fare le prove generali per conto di tutta la futura progenie di lycans cinematografici con Werewolf of London. Sdoganato dalle nostre parti con il titolo ben più misterioso ed esotico di Il segreto del Tibet, questo capostipite dei pelosi lupacchiotti umanoidi di celluloide – accantonato il mitologico e purtroppo perduto The Warewolf del 1913 – mette in scena l’avventura davvero poco piacevole di un botanico londinese in missione in quel delle alture himalayane, con lo scopo di individuare una preziosa e rara varietà floreale in grado di germogliare soltanto col favore del plenilunio. Ma proprio durante una notte di luna piena il nostro amico verrà aggredito e mozzicato da un licantropo sbucato dal nulla, divenendo esperto ululatore lui medesimo e seminando paura e panico per tutta la bella e piovosa Londra. Progettato inizialmente per il suggestivo grugno di un Bela Lugosi reduce dal successo vampiresco di Dracula – che purtroppo diede buca all’ultimo momento –, il film è riuscito ugualmente a ritagliarsi un posticino d’onore nella storia della Settima Arte, nonostante i capricci del nuovo protagonista Henry Hull, non particolarmente disposto a rimanere ore e ore sotto i ferri del trucco che, in condizioni migliori, lo avrebbero reso ben più mannaro di quanto infine non sia stato. Paura d’altri tempi, rigorosamente no color e con una colonna sonora da far drizzare il pelo e affilare gli artigli.

3. La casa sulla scogliera (1944), Lewis Allen

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Dopo anni e anni passati a fuggire a perdifiato da manieri infestati, ville accanto ai cimiteri e condomini demoniaci, possiamo onestamente affermare di aver imparato come non sia buona cosa entrare in quella tal casa, soprattutto se sta a sinistra, sperduta in un parco e con una scala che da dritta nel buio. Ma quando ancora nessuno di noi aveva avuto il privilegio di gettare il proprio acuto vagito in questo nostro mondo, nel lontano 1944 Lewis Allen aveva già iniziato a mettere in seria difficoltà il settore immobiliare con La casa sulla scogliera, una tesissima e affascinante fiaba gotica, progenitrice del genere haunted house tratta da un racconto di Dorothy Macardle, che vede una coppia di fratelli acquistare un’antica villa incuneata sul cucuzzolo di un’altura a strapiombo sul mare, salvo poi rendersi ben presto conto non essere gli unici ospiti a scorrazzare fra le gelide e oscure stanze, rallegrati da terrificanti pianti notturni e presenze fantasmatiche non meglio identificate. Da qui ai vari Amytiville e The Conjuring il passo è davvero breve, a dimostrazione di come scricchiolii, porte sbattute e tendaggi svolazzanti non portino certo il copyright di James Wan. Fra inquietanti deliri onirici ben conditi di psicanalisi e le care vecchie atmosfere di una paura tanto rientrò quanto sempre attuale, questo splendido racconto in bianco e nero, che anticipa di quasi due decadi Gli Invasati di Robert Wise, ci proietta a capofitto in una spirale di angoscia capace come pochi di farci rizzare le orecchie una volta spenta la luce e poggiata la testolina sul cuscino.

4. Labirinto (1953), William Cameron Menzies

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Mettiamoci ben in mente che noi, uomini e donne del Ventunesimo secolo, non abbiamo inventato proprio nulla. Men che meno il cinema in tre dimensioni. Ne è una prova la grande infornata di titoli stereoscopici prodotti e distribuiti nel corso degli anni ’50 e ’60, quando ancora robaccia come Spy Kids – Missione 3D, Viaggio al centro della terra 3D e San Valentino di sangue non era nemmeno stata concepita. Così, nel glorioso anno domini 1953, mentre pezzi da novanta del calibro di Alfred Hitchcock e André De Toth tentava con discreto successo la pionieristica strada dell’anaglifo con ottimi prodotti come Delitto perfetto e La maschera di cera, un altro veterano della celluloide come William Cameron Menzies, ancora fresco dal successo del cult sci-fi Gli invasori spaziali, ebbe l’idea di proporre uno dei primissimi brividi a tre dimensioni con Labirinto. Uno splendido horror psicologico, precursore a suo modo dei millanta e più kidnapping movie onnipresenti oggigiorno sui nostri grandi e piccoli schermi, che vede una sposina novella e la sua amata zietta recarsi in quel della piovosa Scozia per tentare di ritrovare il bel maritino, partito tempo addietro alla ricerca di una villa di proprietà di un oscuro zio e mai più ritornato. Inutile dire che, giunte a destinazione, le due sparute madamigelle dovranno fare i conticini con una mostruosa forza oscura che sembra annidarsi nelle viscere dell’intricato labirinto – vi rammenta qualcosa?! – situato affianco alla tenebrosa magione, dove morte e devastazione sembrano aver messo grosse radici. Sfruttando sapientemente una suspense di stampo classico, ben costruita attraverso un uso simpatico e  ruffiano di un 3D ad uso e consumo, Menzies si congeda dal pantheon dei grandi registi, lasciandoci in eredità un piccolo capolavoro di tensione che è sempre bene rispolverare e tirare nuovamente a lucido, fresco e pimpante come fosse uscito l’altro ieri.

5. Jigoku (1960), Nobuo Nakagaua

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Ben prima che la putrefatta Samara e i suoi ultramondani amichetti di pozzo dalla lunga chioma nerastra iniziassero a sgocciolare dai nostri schermi, il caro vecchio Nakagaua Nobuo era già intento a far tremare il Sol Levante da almeno una trentina d’anni. Considerato a merito e ragione il padre putativo del terrore cinematografico della terra del riso al vapore, il cineasta nipponico getterà i semi da cui poi, a distanza di molti decenni, germoglierà la prolifica e schizofrenica corrente del J-horror, assicurando il sushi quotidiano ai vari Hideo Nakata e Takashi Shimizu di turno. E così, dopo anni passati a costruire mattone su mattone la fama e la fortuna dei kwaidan-eiga (i film di demoni e spettri), dopo aver portato sul grande schermo il terrificante mito del vendicativo fantasma di Yotsuya quando ancora di Takashi Miike non esisteva nemmeno una cellula, il nostro Mario Bava ghiotto di Ramen decise di scioccare il mondo intero con Jigoku, una delirante, onirica e spaventosa esemplificazione di cosa voglia dire andare letteralmente all’Inferno. Ebbene sì, perché quando l’incauto Shiro si trova a investire accidentalmente un ubriaco nel mezzo di una strada buia e scivolosa, da quel momento dovrà fare i conti con la morte improvvisa di tutti coloro che gli gravitano attorno, personaggi abbietti e senza scrupoli che si ritroveranno infine a festeggiare in compagnia nel regno del fuoco eterno. Ma non è certo l’allegra dimora dei rossi satanelli con le corna e i forconi quella che ci viene proposta, bensì il desolante e ben più terribile Altro Mondo con gli occhi a mandorla, dove i demoni non hanno certo remore a spaccarti le ossa e a scuoiarti per l’eternità, un Altrove senza speranza dove persino le anime dei bambini “colpevoli” di essere trapassati prima dei loro genitori avranno ben di che patire. Portato a termine fra mille peripezie produttive che segnarono il fallimento della storica Shin-Toho, costringendo la troupe e il cast a collaborare gratuitamente alla costruzione dei deliranti scenari infernali, questo piccolo inquietante capolavoro – a cui sarebbe dovuto seguire un ulteriore capitolo mai realizzato dedicato al Paradiso – non sembra minimamente accusare il peso degli oltre sei decenni che si porta sul groppone, capacissimo ancora oggi di gareggiare ad armi pari con un qualunque sadismo prodotto da un Lars von Trier che si trovasse a passare per caso da queste parti.

6. Passi nella notte (1964) William Castle

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Partiamo dal presupposto che chi ancor oggi non conosce il sacro nome di William Castle o proviene da qualche remoto pianeta extrasolare oppure deve aver vissuto a lungo ben rintanato in un bunker sperduto nella steppa siberiana. Detto ciò, per chi invece è parte della nostra combriccola di fedelissimi della pelle d’oca d’annata, il Maestro del terrore a basso costo, idolo della generazione di Tim Burton e con un passato come assistente alla regia nientepopodimeno che di Orson Welles in persona, sarà certamente una presenza ben nota e apprezzata, non fosse che per la grande eredità lasciataci con piccoli capolavori divertenti e inquietanti come The Tingler – Il mostro di sangue e La casa dei fantasmi, realizzati in gran parte con gli spiccioli e gli scampoli sottratti di soppiatto alle grandi produzioni ben più blasonate. Ma se titoli come Il castello maledetto e Cinque corpi senza testa fanno subito scattare una scintilla nella mente e nel cuore di tutti i grandi appassionati dei brividi di serie B, ben pochi forse ricorderanno che nel 1964 Passi nella notte contribuì a gettare le basi per tutta una futura stirpe di pellicole in cui la pazzia e l’angoscia di una povera donna, sola e abbandonata nel mezzo di una sinistra magione infestata dalle peggio cose, finiranno per condurre la poveretta a un destino poco piacevole. Lo stesso nefasto destino che pare attendere un’inerme e sensazionale Barbara Standwyck, novella sposa dell’eccentrico e possessivo milionario Robert Taylor, desideroso di tenere perennemente sotto controllo ogni fantasia segreta della moglie registrando su nastro ogni cosa gli capiti a tiro, in quanto parecchio cecato e altrettanto geloso.  Rimasta improvvisamente vedova e con un gran bel gruzzolo fra le mani, la nostra povera pulzella inizia a vedere la propria sanità mentale compromessa da sogni alquanto sinistri e decisamente troppo reali, pronti a farle saltare nervi e rotelle in un colpo solo. I tempi di Le verità nascoste sono ancora lontani, ma la lezione impartita da Freda con Lo spettro è ancora ben viva nella mente di Castle, il quale ci offe una chicca di adrenalina e sudori freddi da consumarsi preferibilmente prima o dopo i pasti.

7. Ma come si può uccidere un bambino? (1976), Narciso Ibáñez Serrador

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Bella domanda! Un delicato quesito morale a cui nel 1976 il compianto e mai sufficientemente valorizzato Narciso Ibáñez Serrador aveva già provato a rispondere con il suo omonimo slasher in piena assolata terra iberica, presentandoci la terrificante epopea di una coppia di allegri coniugi inglesi che, giunti su di una remota isoletta al largo delle coste spagnole, scopre con orrore che tutta la popolazione adulta è stata orribilmente eliminata da un branco di bambini assetati di sangue. Dovendo fare i conti con una misteriosa e quasi sovrannaturale follia omicida che sembra dilagare come un virus, capace di trasformare ogni tenero preadolescente in un sadico assassino senza scrupoli, i nostri incauti protagonisti dovranno cercare di tener cara la pelle e di fuggire al più presto da questo piccolo Villaggio dei dannati in mezzo al Mediterraneo, sperando nel frattempo di non diventare il nuovo giocattolo prediletto con cui sollazzare i letali appetiti delle piccole canaglie in calzoncini corti. Ispirato all’ottimo romanzo di José Plans e corredato da una palpabile e crescente tensione che si concretizza con la terribile quanto ovvia risposta al summenzionato titolo, questo inquietante racconto – sapientemente plasmato sul modello di un’inspiegabile apocalisse (sovra)naturale già sintetizzata dagli Uccelli di Hitchcock – ha permesso di aggiungere un importante tassello al lungo e travagliato percorso che ha infine sdoganato il genere dei “bambini terribili”, conservando tuttavia un inquietante potere anarchico e sovversivo che ancora oggi si respira in gran parte degli home invasion, trovando forse il suo più diretto erede nel Them – Loro sono là fuori della coppia Moreau-Palud. E se leggendo queste righe un vago campanello avesse per caso iniziato a trillarvi nella mente, niente paura, poiché nel 2012 il controverso Makinov ha deciso di rimetter mano alla creatura di Serrador con Come Out and Play, un onesto quanto indolore remake a cui si rimanda la visione in mancanza di altre migliori occupazioni.

8. Striscia ragazza striscia (1986), David Schmoeller

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È ovvio che non tutti possono sperare di essere uno Stuart Gordon o men che meno un Brian Yuzna. Ma aver avuto l’onore di aprire le danze della storica Full Moon Features di Charles Band con un piccolo gioiellino sadico come Puppet Master, beh, ha comunque il suo peso, no? Un onore che è toccato nel 1986 a David Schmoeller, discretissimo e onesto mestierante della paura a costo (quasi) zero che, tre anni prima, aveva già iniziato a costruirsi un certo seguito con un piccolo cult – o scult, dipende dai punti di vista – come Crawlspace. Uscito da noi con il solleticante titolo di Striscia ragazza striscia, si tratta di uno dei più deliranti psycho-thriller partoriti dal brulicante utero degli splendenti anni ’80, un racconto decisamente morboso che vede un altrettanto delirante e morboso Klaus Kinski, nazista fino al midollo, intento a spiare porcacciosamente le inquiline del proprio palazzo, strisciando come un ratto negli strettissimi condotti di areazione sparsi un po’ dovunque. Il tutto, manco a dirlo, nel mentre in cui progetta e costruisce terribili macchine di morte destinate proprio alle incaute protagoniste dei propri peep show casalinghi privati. A cavallo fra schizofrenia, erotismo di seconda mano e qualche sana dose di trash non si sa bene quanto involontario, la pellicola di Schmoeller risulterà forse una delle meno battute all’interno di una filmografia che conta titoli di ben altra levatura come Catacombs – La prigione del diavolo e The Arrival, ma state pur sicuri che, dopo averla vista – o ri-vista –, sarete ben felici di tappare ogni possibile sfiatatoio situato nei muri della vostra calda e accogliete casuccia.

9. Dark Waters (1993), Mariano Baino

film da vedere 8

Ci sono registi che costruiscono la propria fama nel corso degli anni, attraverso una prolifica e variegata filmografia. Ci sono poi certi personaggi che, come Mariano Baino, per un motivo o per l’altro vengono ad oggi ricordati per una sola fuggevole opera. E nel caso del nostro cineasta partenopeo trapiantato in terra americana quell’unica opera, datata 1993, è appunto Dark Waters. Un horror demoniaco, passato parecchio in sordina alla sua uscita e decisamente snobbato nel corso degli anni, che vede come protagonista una giovane orfana alle prese con terribili visioni provenienti da un passato familiare parecchio confuso, allucinazioni decisamente perverse che la conducono su di una sperduta isola del Mar Nero dove un equivoco gruppo di suore pare solito compiere macabri rituali nei sotterranei di un monastero, votandosi anima e corpo a un’antica e temibile entità dell’Oltretomba. In una magistrale commistione fra antico e moderno, con uno stile di regia che non nasconde le numerose strizzatine d’occhio alle atmosfere argentiane, l’unicum cinematografico di Baino tira in ballo senza troppi complimenti I Diavoli di Russell accanto al Demonia di Fulci, con il risultato di dar vita a un racconto morboso e inquietante che, in fondo in fondo, non sfigurerebbe affatto fra le pagine di un buon Lovecraft d’annata.

10. Lord of Tears (2013), Lawrie Brewster

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Ci sono film che, nonostante un grande budget e parecchi mezzi a disposizione, non sono in grado di cavar fuori uno spavento nemmeno sotto tortura. Poi ecco invece piccole perle come Lord of Tears (conosciuto anche come Owlman), realizzato con poco meno di dodicimila sterline racimolate dal talentuoso Lawrie Brewster attraverso un umilissimo Crowdfounding su Kickstarter che, oltre a fare una fottutissima paura del diavolo, si è anche portato a casa ben due premi dal prestigioso Bram Stoker International Film Festival 2013. Non male per un indie horror diretto da un allora esordiente e del tutto sconosciuto cineasta scozzese col pallino per David Lynch e il cinema espressionista. Va detto fin da subito infatti che la pellicola in questione appare come un vero e proprio delirio ad occhi aperti dal ritmo e dal montaggio parecchio schizofrenici, dove le inquietanti visioni del suddetto Uomo Gufo, partorite dalla mente distorta di un insegnate la cui infanzia sembra segnata da un oscuro trauma, si fondono con deliranti flashback evocati da ogni singolo oggetto situato nella misteriosa casa di famiglia, ricettacolo di ancestrali forze occulte pronte a far sentire nuovamente la propria voce. Più che la storia in sé, ciò che stuzzica maggiormente l’appetito è sicuramente la surreale e stordente messa in scena di Brewster, condita di filtri e viraggi che rendono ogni singola inquadratura tanto affascinante quanto profondamente disturbante, creando una trasognata atmosfera tenebrosa degna dei nostri peggiori incubi. Provare per credere!