10 film da vedere ad Halloween

Una carrellata di pellicole misconosciute dai lontani anni '20 sino ai giorni nostri
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Reduci da mesi di autentico orrore, costretti a rimanere infrattati come topi in gabbia per paura di cedere il passo a una sempre più probabile apocalisse zombie, ci apprestiamo ora a vivere una vigilia di Ognissanti forse meno caotica e godereccia del solito, senza più locali notturni disposti per ora ad accogliere i nostri bagordi mascherati.  Poco male, poiché, puntali come solo noi sappiamo esserlo, ecco pronta come ogni anno una ricca e variegata selezione di film da vedere ad Halloween, piccole chicche cinematografiche con cui dare un senso compiuto alla fatidica Notte delle Streghe. Una carrellata di pellicole per lo più misconosciute che, dai lontani anni ’20 sino ai giorni nostri, meritano a nostro avviso di essere rispolverate e riaddocchiate a dovere, per testimoniare ancora una volta come non ci possa essere un Halloween che si rispetti senza un’adeguata scorta di cinefile leccornie ad aprirne le danze, con maschere e mascherine che siano.

1. La scala di Satana (Benjamin Christensen, 1928)

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La vita è strana, questo si sa. Basta meno di un quarto d’ora per passare dalla padella alla brace, rischiando non tanto di bruciarsi, quanto piuttosto di lasciarci la pellaccia per intero. Ne sa qualcosa il povero Jim Kirkham (Chighton Hale), riccastro figlio di papà con il pallino dell’esplorazione che, assieme alla fidanzatina Eva (Thelma Todd), si ritrova ben presto nelle grinfie di un manipolo di oscuri figuri intenti ad aggirarsi in una vera e propria magione degli orrori, dove, fra torture, trabocchetti, urla strazianti e una miriade di strambissimi personaggi degni del miglior Lynch, un diabolico quanto misterioso figuro che si fa chiamare, manco a dirlo, Dottor Satana, ha ben pensato di imbastire un sadico gioco all’ultimo sangue. Settima trasferta americana del mitico cineasta danese autore del cult La stregoneria attraverso i secoli, questa folle e perturbate perla condensa in poco meno di settanta minuti tutti i peggiori incubi partoriti dal romanzo Seven Footprints to Satan di Abraham Merritt, il tutto con il suggestivo e rigoroso silenzio di un cinema fatto di tante atmosfere e zero inutili parole.

2. Il caso Valdemar (Gianni Hoepli, Ubaldo Magnaghi, 1936)

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Si può far paura in appena dieci minuti? Per chi conosce la coppia Hoepli-Magnaghi la risposta è certamente affermativa, soprattutto se alla base vi è la volontà di adattare, in un modo totalmente folle e personalissimo, uno dei grandi capolavori del brivido targato Edgar Allan Poe. La delirante avventura di un uomo posto sotto ipnosi mesmerica in punto di morte e impossibilitato così a lasciare in pace il regno dei vivi viene qui trasposta in un autentico incubo espressionista fatto di primissimi piani, silenzi e parecchi sperimentalismi visivi da pura avanguardia, in un turbinio di forme, atmosfere e suggestioni che il graffiante bianco e nero non può che accentuare all’ennesima potenza. Il tutto sorprendentemente prodotto e filmato in un triste ventennio dove il grande schermo ospitava per lo più commediole accomodanti e ruspanti documentari di propaganda, a dimostrazione di come, quando alla base ci sono talento e volontà, anche dai tempi bui può venir fuori qualcosa di buono.

3. La morte viene da Scotland Yard (Don Siegel, 1946)

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Tutti devono pur cominciare da qualcosa, compreso un gigante come Don Siegel. Ben prima delle ultracorpiche invasioni aliene e delle pistolettate al profumo di Callaghan, il Nostro esordì in terra britannica con un suggestivo thriller bagnato dalle fredde nebbie di Londra, nel quale un ex ispettore (Sydney Greenstreet), costretto alla pensione anticipata dopo aver erroneamente mandato al patibolo un innocente, si trova nuovamente in pista ad affiancare gli incompetenti colleghi chiamati a scovare il vero assassino ancora in circolazione, il quale nel frattempo ha ben pensato di darsi da fare accoppando un parente della prima vittima. Il giallo sembra avviato verso i soliti pigri binari, fino a quando una sorpresa finale lascerà tutti quanti con la bocca ben spalancata. Niente fronzoli, tanto impegno e parecchia maestria registica ancora prossima a sbocciare sono gli ingredienti di un mistery pulito, godibile e gelido al punto giusto, il massimo per una piovosa seratina vogliosa di sani brividi in bianco e nero.

4. La belva dell’autostrada (Ida Lupino, 1953)

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Se c’è una cosa che il cinema ci ha insegnato nei suoi oltre centoventi anni di storia è che non è mai cosa buona concedersi un autostop, almeno se ci si tiene alla propria pellaccia. Ancor prima dei vari The Hitcher e Radio Killer, in un’epoca in cui la macchina da presa era esclusivo dominio del cromosoma XY, la bella e brava Ida Lupino sfidò tutto e tutti mettendo in scena un autentico terrore on the road, nel quale due poveri ignari vagabondi dell’asfalto si trovano a passare ore disperatissime dopo aver preso a bordo della propria automobile uno spietato serial killer, divenuto famoso per aver recentemente stempiato parecchi colleghi di volante. Graffiato dalle contrastatissime luci di Nicholas Musuraca, punzecchiato dalle tesissime note di Leith Stevens e magistralmente sceneggiato a quattro mani dalla stessa Lupino in collaborazione con Collier Young, questo suggestivo thriller di strada al sapore decisamente noir è divenuto col tempo un piccolo cult degli amanti del brivido, un angosciante gioco psicologico di prede e predatori che solo il sagace sguardo lungo della RKO avrebbe potuto produrre. Anche perché, sospensione dell’incredulità a parte, il tutto è realmente accaduto!

5. La lama nel corpo (Lionello De Felice, 1966)

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Di solito tutti hanno i propri scheletri nell’armadio. Il Dottor Vance (William Berger) invece ne ha parecchi in una bella buca scavata nel fitto del bosco, giusto affianco alla sua goticheggiante clinica nella quale, all’insaputa di tutti, rapisce e accoppa giovani pulzelle da usare come materia prima per i propri esperimenti di rinvigorimento cellulare, con cui spera di poter ridare l’antica bellezza al ripugnante volto della cognata, deturpata a causa di un non ben specificato incidente e costretta a nascondersi in soffitta come un ratto. Tutto fila più o meno liscio fino a quando il nostro pazzoide in camice bianco viene colto con le mani nella marmellata da una signorina di passaggio (Françoise Prévost), la quale inizia a ricattarlo senza ritegno, rischiando però di svegliare incautamente il repellente can che dorme qualche piano più in alto, con tutte le suggestive conseguenze del caso. il gotico tira sempre, ieri come oggi, a patto di lasciarsi andare ad antri bui, sgocciolanti candele e ragnatele come se piovesse.

6. Au rendez-vous de la mort joyeuse (Juan Luis Buñuel, 1973)

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Essere figlio di papà non è mai semplice. Soprattutto se di cognome fai Buñuel e il tuo babbo è nientepopodimeno che il vate del surrealismo cinematografico in persona. Dunque puoi fare due cose: o tenti di emulare le orme paterne con La ragazza dagli stivali rossi, fallendo miseramente, oppure fai tesoro del genitoriale insegnamento per creare qualcosa di totalmente personale, con risultati ben più consistenti. Un’opera seconda che, sulla carta, pare una comunissima storiella di case infestate pre Poltergeist, con una bella famigliola di artisti che, dopo essersi trasferita in un’immensa villa sperduta nella campagna, inizia ad essere vittima di strani fenomeni paranormali che paiono avere come fulcro lo sboccio puberale della giovane figlia. Di qui le cose iniziano a prendere una piega tutt’altro che rassicurante, con una squadra di parapsicologi – in cui figura un giovanissimo Gérard Daperdieu – chiamata a documentare i misteriosi accadimenti e una masnada di giovani escursioniste capitanate da un equivoco sacerdote che domandano rifugio per la notte. Incesti in sottotraccia, sordida pedofilia e una strisciante angoscia accompagnano tutta la seconda parte di questo scarno e a suo modo suggestivo thriller psicologico, fino a un delirante epilogo che difficilmente potrà schiodarsi dalla mente con facilità.

7. Non entrate in quel collegio (Mark Rosman, 1982)

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Di slasher è pieno il mondo quanto il cinema. La solfa è sempre la stessa: un gruppetto di poveri carni da macello umane rinchiuse in uno spazio angusto per il divertimento di uno o più sadici tagliomuniti. A volte però, come in questo caso, nonostante il puzzo di già visto e sentito, non si può fare a meno di divertirsi un mondo nell’assistere alle disavventure di sette attraenti universitarie che, dopo essersi viste negare il permesso di organizzare un’alcolica festa di fine corso dall’arcigna padrona della pensione in cui risiedono, pensano bene di vendicarsi giocando alla stessa uno scherzetto talmente ben riuscito da farci scappare persino il morto. Occultato in fretta e furia il cadavere della vecchiaccia nella grande piscina in giardino e chiamata a raccolta l’imberbe ciurma di coetanei come se nulla fosse successo, le nostre ragassuole si danno ai più selvaggi bagordi. Almeno fino a quando, dopo l’improvvisa sparizione della vetusta salma, una misteriosa presenza inizia a mietere vittime per tutto il campus, usando come arma nientemeno che il bastone da passeggio dell’anziana dipartita. Un po’ Black Christmas, un po’ Halloween e un bel po’ Venerdì 13, questo claustrofobico horror ha il pregio di divertire un sacco con ingredienti triti e ritriti, grazie a una buona idea di base e a una dose generosa di cattiverie gratuite.

8. Habit (Larry Fessenden, 1995)

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Canini aguzzi e succhiotti sul collo sono sempre una carta vincente. Anche quando ti muovi nei sottoboschi del cinema indipendente e il tuo intento è quello di raccontare una storia di sozzura, depravazione e amori tossici. Proprio quello che il buon Larry Fessenden tenta di fare con questa malatissima e drogatissima love story a tinte horror in cui egli medesimo veste i panni del classico nullafacente e scroccone bohémien newyorkese, lurido, allucinato, tabagista e perennemente in bolletta, il quale, durante una tristissima festa di Halloween, fa la conoscenza della sensuale Anna (Meredith Snaider), misteriosa femmina vogliosa di rapporti carnali e decisamente troppo interessata all’emoglobina che scorre nelle altrui vene. Basta infatti un morso troppo spinto al labbro e il nostro artistoide da strapazzo inizia ad accusare un progressivo deperimento psicofisico, il quale, tuttavia, va di pari passo con la morbosa attrazione carnale per la rapace consorte. Che la nostra sia o meno una succiasangue a tradimento poco importa, poiché la distruzione verso cui la donna trascina il proprio amante avrà un epilogo decisamente tragico, sotto tutti i punti di vista.

9. The Living and the Dead (Simon Rumley, 2005)

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Tre attori, una grande casa e parecchia follia. Ecco i pochi e semplici ingredienti che servono per confezionare un allucinato psycho-thriller made in UK, una pellicola misconosciuta ai più che, nonostante il suo impianto gloriosamente indipendente, una volta visionata si imprimerà indelebilmente nella mente e nelle iridi per molto molto tempo. Con un montaggio decisamente schizofrenico degno del miglior Nicholas Roeg, il film mette in scena la vicenda di una famigliola inglese formata da un’anziana madre paraplegica, un ombroso padre e un figlioccio con parecchie rotelle fuori posto. Costretto a una sortita di lavoro, il capofamiglia lascia il primo e unico genito con la debilitata moglie, con la sicurezza che di li a poco la solita infermiera sarebbe giunta per prendere in mano le redini della situazione. Ma, una volta rimasto solo nell’immensa decadente magione, il pazzo ragazzotto pensa bene di cambiare le carte in tavola, allontanando la badante e dimostrando alla madre di essere in grado di prendersene cura in totale autonomia. Peccato che, con il protrarsi di una malattia mentale già in stadio più che avanzato, il figlio adorato inizierà ben presto a dar fuori di matto, mettendo a repentaglio  la propria incolumità e quella della terrorizzata genitrice. Una cruda e spietata discesa negli abissi della follia, messa in scena con una freddezza sconcertante, condita da incursioni visive dal sapore sperimentale che rendono questo piccolo gioiellino un’esperienza assolutamente imperdibile per chiunque.

10. The Last Will and Testament of Rosalind Leigh (Rodrigo Gudiño, 2012)

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In un altro tempo e in un altro luogo, in un universo cinematografico parallelo, il nome di Rodrigo Gudiño campeggerebbe accanto ai grandi maestri nel nuovo horror iberico come Amenabar, Byjona e Balaguerò. Ma per una inspiegabile congiuntura di eventi, ciò non è accaduto. Un gran peccato, se si tiene conto di un’opera prima (e unica) capace seriamente di inquietare come poche altre. Un one-man movie interamente plasmato sull’ombrosa figura di Aaron Poole, un artista in profonda crisi creativa chiamato a prendere possesso dell’immensa e casa appartenuta alla madre da poco deceduta (la voce over di Vanessa Redgrave), fervente cattolica con cui da tempo il ragazzo non aveva più contatti. Fra un’immensità di inquietanti oggetti votivi, altrettanto sinistre statue di angeli che affollano ogni anfratto e machiavellici proverbi ricamati all’uncinetto a decorare ogni superficie, l’uomo inizierà ben presto a percepire un’oscura presenza aggirarsi fra le fredde e scricchiolanti mura della magione, a testimonianza che gli indecifrabili ricordi di un nebuloso passato risultano tutt’altro che sepolti. Un film di grande atmosfera, teso, coinvolgente e, per chi sa leggere fra le righe, incredibilmente metaforico, dove i mostri e i fantasmi risultano ben diversi da quanto ci si potrebbe aspettare. Fatevi del bene: dateci un’occhiata. Ne va della vostra cinefilia!