Zoofilia sullo schermo

I migliori amici dell'uomo. E della donna...
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Per i prodromi ad un discorso circa la zoofilia su grande schermo, Ado Kirou col suo poderoso Amour-erotisme & cinema continua a sembrarci lo strumento più utile. Tanto più che il teorico abborda l’argomento secondo l’angolo d’incidenza del tema della bella e della bestia connesso a King Kong e passa a discutere di tutti quei film in cui le scimmie corteggiano o addirittura insidiano femmine della nostra specie, pur se in maniera spesso simbolica e senza mai giungere a concludere alcun ”atto”. La sfilza delle attrici che han rischiato grosso, nel cinema delle origini, comprende Bessie Love in Mondo perduto (1925), Yola D’Avril, Anita Louise e Leila Hyams (la Venere di Freaks), che in The Wizard (1927) tratto dal romanzo di Gaston Leroux Balaoo, veniva fatta oggetto delle pesanti attenzioni del gorilla George Kotsonaros. Certo, allora e in seguito, la zoofilia estrinsecantesi con una razza animale tutto sommato simile e pressoché contigua alla nostra, come le scimmie, appariva – al cinema – una forma di zoofilia (o zooerastia termine più tecnico) “morbida”, tollerabile. Talvolta gli esiti poterono addirittura approdare all’idillio tra  bella e bestia e a una convivenza more uxorio, come vediamo accadere in The Bride and the Beast, film del 1958 diretto da Adrian Weiss, dove Charlotte Austin scopre di essere la reincarnazione di una gorilla e pianta così in asso il marito per abbracciare la vita nella giungla con un  partner della sua antica razza. E vissero felici e contenti.

La scimmia non parla (o come sospirava l’esploratore violentato da un gorilla in Africa, all’amico che cercava di rincuorarlo, dicendogli che tanto “il gorilla non parla”: «Non parla, non scrive…»); salvo che nel film del 1927 di Raoul Walsh The Monkey Talks, in cui la vertigine zoofila si colora di sentimento e di poesia, quando il piccolo scimpanzé protagonista – in realtà un uomo – smette di dire, durante la sua esibizione in un circo: «Jocko ama padrone» e grida «Jocko ama Dora»: Dora sarebbe la bellissima Olive Borden, una delle attrici più eroticamente appetibili dell’era del muto, sicché Jocko aveva del tutto ragione. La bestia, comunque, è sempre innocente, perché vive nello stato di natura e gli è sconosciuta la malizia. Così, la scimmietta che in un classico dello sleazy come Jungle Erotic (o Africa Erotica, 1970), palpa, carezza e annusa le bianche carni di Carrie Rochelle svenuta, riesce a generare solo tenerezza. Il film diretto da Louis Soulanès e Zygmund Sulistrowsky (che i ricercatori di questo genere di cose dicono fosse, in realtà, una sola persona) merita anche per altre suggestioni “animaliste”, tra un boa e l’altrimenti sconosciuta Rochelle. Dieci anni più tardi, in Tanya’s Island, di Alfred Sole, Vanity è contesa in un atollo deserto dal suo uomo e da un pelosissimo gorillone di nome Blue, che due o tre volte è proprio lì lì per possedere sessualmente la sprovveduta e ingenua protagonista. Le scimmie si sono anche prestate a fare da terzo vertice di un triangolo, come accade nel morboso e raffinato The Mafu Cage (1978) di Karen Arthur, con un orango -eredità paterna- messo tra le due stravaganti sorelle Lee Grant e Carol Kane. In fondo, anche la bête di Borowczyk – quella che nel bosco caccia, possiede ed è a sua volta posseduta da Sirpa Lane – ha caratteristiche, colore, arti e hasta virilis di un grande gorilla.

Nessuno ignora che La bestia sia un capolavoro surrealista; e che i surrealisti amassero visceralmente King Kong dipende forse dal fatto che essi ravvisavano in esso il manifestarsi di quell’amour fou che procede in direzione di oggetti “impossibili”. Ma esiste, l’oggetto impossibile? Arrabal, quel genio poetico e negletto di Fernando Arrabal, in Andrò come un cavallo pazzo (1973) lega Hachemi Marzouk alla sua capretta in un rapporto simpatetico che non ha nulla di perverso ma respira secondo quelle stesse leggi di natura ai quali entrambi, armoniosamente, soggiaciono. Però, muovendosi lungo il crinale surrealista ci si imbatte in ben altro: Jérôme Savary, per esempio, in Le boucher, la star e l’orpheline (1975) fa accoppiare, sul bancone di una macelleria, un maialino alla pingue Sarah Sterling in guêpiere. Il belga Thierry Zeno, un anno prima, esclusivamente sul rapporto – muto – tra un uomo (Dominique Garny) e una scrofa, ci aveva costruito un incredibile film di 80 minuti, dal titolo Vase de noces, di cui coloro che di solito collezionano questo genere di cimeli non hanno certo gli strumenti per riuscire a comprendere la portata filosofico-ermetico-estetica. Che è notevole. Comunque, il bestiario zoofilo – al cinema come nella realtà – più in là di tanto non si estende: perché se è vero che Dario Argento è riuscito a immaginare che Julian Sands si masturbasse con un topo nella sua versione di Il fantasma dell’Opera – roba di uno schifo sublime -, è altresì vero che maneggiare belve come le pantere nere che si uniscono alle donne in Cat People (1982) di Paul Schrader, potrebbe risultare piuttosto pericoloso.

Il cane, invece, nessuno mette in dubbio che sia il migliore amico dell’uomo. E soprattutto della donna, come dimostra la pratica, relativamente comune un tempo, dei cosidetti “cani da lecca”: cioé di animaletti che fanno alle loro padrone quel che Monica Nickel si fa fare dal suo yorkshire – allettandolo con biscottini – nel delizioso hard di Joe D’Amato Superclimax (1980). Che l’uomo sia, al contrario, il miglior amico del cane è già più dubbio: prova ne sia lo sgradevolissimo Caniche (1979) di Bigas Luna, al centro del quale ci sono un fratello e una sorella, due laidi borghesi di mezza età, che con i cani ci fanno tutto: li accudiscono come figli, li mangiano, li usano a scopi sessuali, fino al giorno in cui scoprono che la loro parafilia altro non maschera se non una passione incestuosa dell’uno per l’altra, che esploderà improvvisamente con esiti mortali. Nel film messicano di Jorge Fons Los Cachorros (1973), tratto da una racconto di Mario Vargas Llosa, non è in gioco la zoofilia, benché il clima paia un po’ quello, visto che si racconta dei tormenti esistenziali di un ragazzo che da piccolo ha subito l’aggressione di un alano, rimanendone evirato. In Italia lo distribuirono – manipolato – come Eviration, bramosia dei sensi e per il regista si inventarono lo pseudonimo Igor Boryowski, onde equivocare con l’autore della Bestia. Ovunque ci si giri, alla Bestia si ritorna: e quindi ai cavalli – di cui il film di Boro proponeva accoppiamenti live in fotogrammi che il cinema italiano trafugò e ripropose in qualsiasi contesto -, che hanno il posto d’onore nella zoologia erotica, insieme a scimmie, cani, serpenti e maiali. Solo che l’”amore equino” pare essersi prestato, più degli altri, a venire tradotto dal cinema in forme figurativamente ricercate, persino colte, tipo la cavalla d’oro entro cui – novella Pasifae -, si accoscia Lidia Zuaso aspettando di ricevere il membro di uno stallone in La visita del vicio (da noi Sodomia), diretto nel 1978 da José Ramon Larraz – uno che alla causa tornerà a contribuire con le caprette “inchiappettate” dai satanisti di Los ritos sexuales del Diablo (1982). Per non parlare di come un morboso rapporto con i cavalli sia alla base del labirinto psicanalitico di Equus (1977), di Sidney Lumet.