Verrà Nick Bougas e avrà i tuoi occhi

La trilogia insostenibile dei Death Scenes, in cui nulla viene risparmiato all’occhio, ai nervi, al cuore degli spettatori…
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Metti una sera a cena con Nick Bougas e Jack Huddleston, falla cucinare e servire da Anton La Vey e l’effetto ottenuto sarà pari allo scontro tra un tir di coca cola e un tir di mentos. Il primo, oltre a essere infaticabile illustratore, è un ardimentoso collezionista dei materiali più strambi, singolari e trucidi che il pianeta Terra abbia mai offerto (soprattutto criminali: tra questi, la maschera mortuaria di John Dillinger), ancorché al servizio della video-compagnia produttiva Wave Lenght; il secondo era un detective fotografo noto per un libro raccolta di oltre 1000 spaventose foto scattate sulla scena del crimine dagli anni 20 ai 50, intitolato apoditticamente Death Scenes. Il terzo non abbisognerebbe presentazioni, ma per i non addetti diremo che fondò la Church of Satan, dopo essere stato anch’egli a lungo fotografo per la polizia. Dopo un intenso rapporto epistolare Bougas e La Vey si incontrano, si piacciono, accarezzano l’idea di tradurre cinematograficamente il tomo; Ray Atherton, capo della Wavelenght, la avalla e foraggia, La Vey aggiunge il carico a 90 del proprio archivio, e da carta fotografica Death Scenes diventa in un amen nitrato argenteo.

In principio era Niepce: Death Scenes 1

«What this world needs is a good weeping!»: Sua Maestà La Vey fa capolino ed è subito obitorio. Tira brezza di cadaverina e idrogeno fosforato nei traumatizzanti 88′ minuti ad elevatissimo tasso tanatofilo (i primi di un trittico vieppiù impietoso). Al punto che se non si ha quel minimo sindacale di spirito necrofilo o di inscalfibile imperturbabilità – o di gioioso sadismo – si corre il serio rischio di fuoriuscire profondamente lesi da questa catabasi che ha nel fu nostromo della Church of Satan il proprio sobrio, ieratico e serafico traghettatore. Della morte, dell’amore per la (altrui paura della) morte è tutto maestade e l’esplosione di corpo umano ha subito inizio, senza preamboli o perifrasi, e si scala ad ampie e decise falcate una necro-ziggurat da far impallidire un monaco tibetano, passando al vaglio centinaia di agghiaccianti foto d’archivio criminale degli anni 20, 30 e 40 estrapolate in parte dal Necronomicon di Huddleson e in parte dal nero cilindro di quel La Vey che giovine si ritrovò a sbarcare il lunario come fotografo per la cronaca nera (chi ben comincia…), dai toni ora ocra ora seppia ora lillà, ritmicamente scandite dalla circense Danse macabre di Saint-Seans (che determinerà passaggi dal montaggio ejzenstainiano) e dalla lunare e disturbante partitura di Lucifer rising, che documentano la dark side di un’America già allora indegna della A maiuscola e funestata dai più feroci serial killer, pervertiti e criminali che si possano immaginare.

Nulla viene risparmiato all’occhio, ai nervi, al cuore del fruitore: le letterali imago di corpi in frammenti scaraventateci contro non si fermano davanti a niente e nessuno. Arduo descriverle, difficile cernitarle, impossibile dimenticarle. La vittoria della fissità sulla dynamia profetizzata da Kafka. Al punto che certe deformità post-mortem eccedono, paradossalmente, l’effetto-vérité finendo col dare l’impressione di una mostra di lavori di Witkin, Serrano, Bosch, Goya o Bacon visitata previa cavallina assunzione di PCP. Il contraccolpo baconiano è schiacciante. La magnitudo necrofila eccede zenit insostenibili, l’attacco ai sensi è costante, massiccio: Death Scenes non è, tuttavia, d’approccio triviale e di impostazione cialtrona come quell’apologia dell’appositamente ricostruito in studio di Faces of Death, né in qualche trasversale modo gratuito e sfacciato come i derivativi collages di Traces of Death appositamente concepiti per alzar moneta colpendo sotto la cintura, e ha i suoi punti di forza in uno sguardo neutrale, quasi serenamente distaccato, in un’oggettività lontana dall’infantile sadismo da épater-le-bourgeois o da tono da mercante del pesce che determina la quasi totalità dei death-movies e dei mondos, e nella documentazione impressionante – e interessante – che abbraccia Dillinger, la Dalia Nera, Jack lo squartatore, Jayne Mansfield su fino ai peggiori orrori della prima guerra mondiale; ma è pur sempre uno shockumentario, probabilmente il più devastante che essere umano possa mai affrontare, e davanti a frames di bambini strangolati o neonati con crani sfondati da un cacciavite viene da implorare pietà in lacrime, da domandarsi cosa – masochismo e morbosità a parte – spinge a perpetrare una visione di tal fatta e da prendere a calci a sudovest chiunque soggiaccia al sempreverde appiglio logico della volontà di dio.
La Vey chiude chiosando saggiamente che l’ineluttabilità della morte non deve mai deviarci dalla passione per la vita, ma la posticcia morale della favola arriva tardi ed è più appendicite che appendice, ed è pochissima cosa per farci davvero riavere dallo stordimento e per sopperire a non pochi momenti che torneranno a farci cucù nel dormiveglia. Non c’è abreazione, non c’è catarsi, la vera morale è che non c’è nessuna favola: la vita fa schifo e poi muori, e se muori di malo modo al danno si aggiunge la beffa del ritrovarsi immortalati per dimostrare all’ardimentoso voyeur quanto la vita sia un’illusione, la morte una sovrana realtà e il corpo umano una canna in balia del vento della catastrofe, della fatalità e dell’altrui nequizia/follia. Dopo questo terrifico affondo viene quasi da pensare che nessun altro mondo è più ipotizzabile. Quasi, perché Bougas si armerà di simpatia e allucinanti cose buone dal mondo bastevoli per cucinare altri due sequel, naturalmente uno più indigesto e venefico dell’altro. L’idea di un orrore-limite non è di questo mondo(movie).

We shall overkill: Death Scenes 2

In Death Scenes 2 morte è infaticabile e fantasiosa, e Bougas non le è secondo: servendosi di un inesausto ed estenuante bric-a-brac di un repertoriato (in parte ancora fotografico: spiccano soprattutto le più rivoltanti pagine delle incredibili death-mags messicane quali El nuevo alarma, Peligro, Nota roja) che fa vacillare anche i più scafati, bissa e supera se stesso, reggendo alla nera signora la veste nuziale e rovesciando il batailliano Je suis la Joie devant la Mort in un sussiegoso Je suis la Mort devant la Joie. Sparito dal timone il satanasso La Vey e appoggiato su una più ortodossa voice-over (mai comunque cinica, compiaciuta o strafottente: il contrario, insomma, dei pecorecci commenti tricolore), questo secondo bastimento sovraccarico di thanatos, riprende filologicamente laddove il precedente calava il sipario (la prima guerra mondiale) su fino ai primi strazi del conflitto inter-etnico jugoslavo. Di mezzo, la necrobulimia della telecamera non si lascia scappare mezzo centilitro di sangue né lesina in dettagli e tutto quanto inghiotte ce lo rivomita con gli interessi addosso. Se da una parte si tiene ancora desto l’interesse grazie a un tono tutto sommato neutrale e para-storiografico con documenti sulla guerra (Korea e Vietnam sugli scudi), sulla morte a Hollywood e sugli allora inediti exploit sul massacro della Manson family (atti a provare la falsità di certi miti legati allo Zio Charlie), dall’altro si scorge la chiara volontà di elevare a potenza gli choc del primo bloodbuster, spinta che rende sia vana che metastorica la masquerade culturale. La sintesi superiore tra l’indubbio interesse per alcuni documenti e l’umore funebre che tutto neutralizza, prevarica, soffoca, non trova insomma alcuna risanazione.

E allora via a tutto rigor mortis con una balordissima guernica di cadaveri smembrati e mutilati in tutte le salse e minestre, incidenti automobilistici (clip estrapolate dai famigerati educationals proiettati nelle scuole per sensibilizzare i prepuberi ai rischi dell’alcool) , suicidi (resta insorreggibile quello ormai celebre di Budd Dweyer), omicidi, feti clandestinamente abortiti, autopsie, neonati deformi, e via orripilando. Senza sosta. Senza pietas. Laddove La Vey cercava nei risicatissimi limiti del possibile di umanizzare e contestualizzare il tutto, e di offrire in dirittura d’arrivo un pur flebile spiffero di speranza al fruitore, qua si rasenta il mero sadismo con un quarto d’ora finale che oltre a proporre con marcata insistenza la tragica fine di Vic Morrow (falciato da un elicottero sul set di Ai confini della realtà) da diverse angolazioni e con un esasperato uso di maligna pedanteria del ralenty e del frame-by-frame, si candida ad essere il più inaffrontabile test di resistenza spettatoriale mai perpetrato su pellicola, un cut-up di orrori al termine dei quali si ha voglia di rivedersi Heidi per disintossicarsi. L’inquadratura finale è il freeze-frame della spilla orgogliosamente ostentata da un mercenario bosniaco: we shall overkill. È un mondo senza riscatto, e dimentichiamoci che le cose possano migliorare, checché ne blaterino i new agers; né bastano i titoli di coda a recare sollievo: l’impressione che accompagna per giorni dopo la visione è di essere passati in un tritacarne ed esserne usciti vivi. Una chiave per una sacca resistenziale per sopravvivere a un’infera totentanz simile tuttavia c’è, ed è il costante tenere a mente e nel cuore che testimoniare l’orrore ne risarcisce le vittime. Se si riesce nell’impresa di tenersi stretto per tutto il viaggio quest’assunto di base, si passa – sebbene iperventilati – il Rubicone, viceversa è difficile non uscire almeno enormemente scossi da un simile colmo di cupio dissolvi.

Alla terza si bastona: Death Scenes 3

Anche in Death Scenes 3 Nick Bougas non abbassa la guardia, non concede sconti e non fa prigionieri. Del resto la morte non fa credito a nessuno, quindi inutile decaffeinare i chicchi e servire zuccherato. E dunque, servita su vassoio d’argento un’epigrafe celiniana così per gradire, aridaje con interessi da cravattari: un’altra megatonica e ciclotronica deflagrazione di organi, un’altra atomica di thanatos alla porta, un’altra inesausta passerella di corpi scempiati, un altro ferino memorandum della fragilità della carne e della caducità della vita, un terzo ribadire che tutto il pianeta è obitorio e il mondo è un film di guerra: Osijek o Rwanda, Perù o Iraq che differenza fa? La morte è democratica, onnivora e ninfomane. In casi simili, anche vanesia: guardarla ammiccare mentre ci fa la ruota da pavone davanti, fa di noi solo dei provvisoriamente privilegiati bystanders.

Ogni scappatoia metafisica bandita. La pietà non abita più qui: solo un bell’assestato – e meritato – choc di 88’, a noi impenitenti scopofili, resta. Nel farsi travolgere da simili operazioni di dubbia etica e altrettanta relativa necessità e importanza, si esperisce cosa provava Alex nella tortura della cura Ludovico. Quando poi vengono sbattute in faccia devastanti foto del massacro in Polonia del ‘39 o di feti e neonati deformi a livelli da patafisica, estraniarsi diventa cosa impossibile e si deve cercare il più possibile di tenersi in modalità zen. Naturalmente non si fa a tempo a credere di averne conquistata una mezza briciola che entrano in scena anche cadaveri di bambini e il confine tra vedere uno shockumentario e finire in cardiologia si fa sempre più labile. Gli assoggettati alla credenza di un inferno quale temibile castigo post-mortem dovranno avvedersi: il vero inferno lo stiamo esperendo in terra.
Ora. È risaputo quanto le ammonizioni generino effetti contrari innescando il doppio della curiosità, ma se mai c’è tra voi chi acquolina alla bocca sta pensando di passare dall’articolo alla ricerca dei film e avventurarsi in questo trittico è bene lo faccia sapendo che non è un’azione diversa dal tuffarsi da una scogliera di 10 metri su un fondale da mezzo metro. Più prosaicamente, è materiale di ardua sostenibilità che toglie la voglia di un pasto o lo fa tornare da dove è venuto, rigorosamente per anime imperturbabili e tempratissime. And I really mean issime.