Star Wars George Lucas

Esponente della New Hollywood, il creatore di Guerre Stellari è diventato lui stesso il “graffiti” di un periodo
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Bilancio critico della carriera di George Lucas: incerto. Il bilancio economico, figuriamoci, non si tocca, ma in queste righe vorremmo ragionare un po’ su quel che è successo in tanti anni di carriera, senza accontentarci di conteggiare i miliardi di dollari messi da parte dal quasi settantenne originario di Modesto, California. Anzitutto, dici Lucas e ti viene in mente una sola cosa, quella. Guerre stellari ha l’impact factor sulle citazioni e i discorsi più alto di tutti, forse a quel film e a quella saga va fatta risalire l’origine della pratica fandom moderna di fronte ai prodotti audiovisivi (stante il primato di Star Trek sulle operazioni di cultizzazione arcaiche). Il resto è storia: George Lucas è il maggior creatore di nuove mitologie cinematografiche, avendo creato il franchise più longevo e complesso di sempre. Non bastassero i sei episodi che tra 1977 e 2005 hanno incassato nel mondo oltre 4 miliardi di dollari, ha saputo costruire una lunga coda di serializzazioni in grado di moltiplicare l’universo narrativo in ogni direzione: spin-off cinematografici (Le avventure degli Ewok, J. Korty, 1984, per esempio), serie animate (tra cui The Clone Wars), fumetti (Marvel), romanzi (di Allan Dean Foster e altri), adattamenti radiofonici, videogame, giochi di ruolo, per non parlare dell’indotto grazie al merchandising di giocattoli, costumi e altri articoli. Poi, nel 1997, per festeggiare i venti anni dalla prima realizzazione, Lucas ha proposto al pubblico la trilogia originale restaurata e rimasterizzata, con aggiunta di sequenze e miglioramenti tecnologici, aprendo un vasto dibattito sulla finitezza dell’opera filmica. Nuova riedizione nel 2011 degli Episodi I, II e III questa volta sfruttando il 3D. E tacciamo di molti altri sviluppi dell’universo Star Wars.

E quindi applausi, che altro puoi dire di fronte a un bernoccolo per gli affari così gonfio e a una pertinacia di ampliamento narrativo tanto grintosa? Il pubblico apprezza, e tanto basta. Ma oggi, che anche la critica si è un po’ stufata di chiedersi se i Jedi sono di destra o di sinistra o di analizzare le forme del capitalismo e dei subappalti della Morte Nera (ricordate Clerks?), l’astro di Lucas appare francamente un po’ meno luminoso. Anzitutto, per un regista che aveva girato L’uomo che fuggì dal futuro e American Graffiti, pregni dell’umore anni Settanta e della contro-Hollywood creata dai nerd cinefili, le aspettative erano alt(r)e. Il film con Robert Duvall, in particolare, capitalizzava nel 1971 il post-2001 e la nuova fantascienza sociologica con un senso del racconto e una lucidità di sguardo ancora oggi notevolissimi. Nessuno osa mettere in dubbio l’opportunità di Star Wars, sia chiaro, ma è altrettanto vero che pochi avrebbero pronosticato che Lucas si sarebbe occupato solo della sua creatura leggendaria per così tanti anni. Si dirà: Lucas non ha certo perso tempo, e ha costruito un impero plurale, inafferrabile, capillare… In fondo, con Lucas e Spielberg, e con la restaurazione hollywoodiana che il duo ha contribuito a consolidare, lo stesso concetto di autore si appanna. Lucas come produttore ha posto la sua impronta su numerosi film e, attraverso la Industrial Light & Magic, ha marchiato l’iconografia degli effetti speciali del cinema contemporaneo. E ovviamente si rischia di ricordare con malizia il peggio invece del meglio. Che dire oggi (e in fondo già allora) di titoli come American Graffiti 2 (1979), Howard e il destino del mondo (1986), o della pletorica serie animata Alla ricerca della valle incantata? Però Lucas ha prodotto anche Akira Kurosawa (Kagemusha, Ran, Sogni), Paul Schrader (Mishima), Godfrey Reggio (Powaqqatsi), Francis Ford Coppola (Tucker – Un uomo e il suo sogno), insomma non proprio gli ultimi arrivati. Bulimia, certo, con un occhio al cinema per famiglie e uno al cinema d’autore, riuscendo quasi sempre a cavarsi d’impaccio, anche quando gli altri tracollavano con imperi finanziari costruiti sulla sabbia.

Tutto vero, però le ambizioni si sono lentamente arenate, man mano che il cinema cambiava nel profondo. In fondo, proprio la differenza tra la prima trilogia (in ordine di distribuzione, e non in ordine di narrazione, anche se i fan si irritano) e la seconda dimostra che il tempo passa anche per chi ha facilitato il passaggio dalla Hollywood Renaissance alla New Hollywood degli anni Ottanta. La capacità di incidere sull’immaginario – e su un nuovo pubblico in attesa di essere intercettato – ha sfiorato il miracolo alla fine degli anni Settanta. I mitologemi rinnovati e impacchettati dentro il fantasy/science fiction delle guerre stellari sono stati forse il più squillante atto di nascita che il postmoderno cinematografico potesse immaginare. Quanto è “rimasta”, invece, la nuova trilogia? A parte i casi incresciosi come quello di Jar Jar Binks, qualcuno può seriamente affermare di aver palpitato di fronte a La minaccia fantasma o a La vendetta dei Sith? Esiste un qualche lascito iconografico, narrativo, simbolico, filosofico, mitologico che gli episodi I-III hanno saputo proporre, anche lontanamente paragonabili alla penetrazione socioculturale della trilogia 1977-1983? È vero, in mezzo sono passati Matrix e soprattutto la trilogia del Signore degli Anelli, poi Avatar ha messo i chiodi sulla bara; si aggiunga l’11 settembre, che ha scompigliato la nuova saga dopo il primo capitolo, ma a Lucas non gliel’aveva ordinato il dottore di dar seguito all’epos. Il girare a vuoto dei tre capitoli realizzati nel 1999, 2002 e 2005 ha comunque portato a casa una valanga di quattrini. Eppure, già oggi, ci si accorge che non fanno parte della cultura popolare, nessuno li cita se non per farne gag verbali (ancora Kevin Smith, nel celebre dialogo “Star Wars vs. Lord of the Rings” in Clerks II). In un certo qual modo, vanno situati in un contesto di sfruttamento parassitario, piuttosto che considerarli l’antefatto tanto atteso: qualcuno ricorderà, dopo La minaccia fantasma, la petizione plateale di migliaia di fan che chiedevano la testa di Lucas e la consegna dei restanti capitoli nella mani di Peter Jackson.

Forse, allora, bisognerebbe rivalutare il Lucas sceneggiatore, quella pratica di scrittura tra antichi riti e nuovi miti, capace di forgiare immaginari innovativi e sorprendenti. Non bisogna dimenticare infatti l’influenza avuta su Steven Spielberg e in particolare sulla serie di Indiana Jones. Detto che la sceneggiatura di Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, farraginosa fin dal titolo, ha confermato la mancanza di smalto del Lucas odierno (come se tutto ciò che risultava semplice, fluido e fantasioso allora, fosse diventato obsoleto e stanco oggi, materia per cinefili indulgenti), c’è tuttavia nel mito di Indy ancora un nocciolo lucasiano forte. Mentre Guerre stellari, attraverso Anakin Skywalker, ripropone il romanzo di formazione come testo inglobante del frullato pop che vortica tutto intorno, la saga dell’avventuriero archeologo mostra invece la dimensione adulta e fairbanksiana dell’eroe. Si tratta di archetipi purissimi – e puramente hollywoodiani – immersi in una cultura sintetica e accumulatoria da cui si esce solo attraverso l’azione e l’ironia.

Questo, forse, il gesto più eclatante di Lucas autore (inteso dunque in tutte le sue forme, da regista a sceneggiatore, da produttore a imprenditore): l’idea che dentro la Hollywood sospesa tra anarchia e neocapitalismo anni Settanta si rischiasse di indebolire la potenza mitopoietica del moloch californiano, e dunque di disperdere la grandiosa, e persino spaventosa, colonizzazione poetica ed economica che aveva segnato il Novecento. E dunque, il progetto di mettersi alla testa di una Hollywood Reborn, basata sui blockbuster e su una serie aggregata di opere e mercati, possiede anche una dimensione affascinante, gagliarda, maschia, persino per gli anticapitalisti. Un traditore nascosto tra gli “indies”? Un doppiogiochista che ha accoltellato alle spalle i colleghi? Le tesi in proposito, si sa, sono molteplici e già da tempo – cinefili esclusi – si tende a non mitizzare più di tanto quel periodo, spesso segnato da rivalità, gelosie, avidità. L’impressione, comunque la si voglia pensare, è che anche questa fase, durata trent’anni e partorita proprio dalla mente di George Lucas, sia ormai tramontata. La “Kolossal Hollywood” del post-Duemila si sta dirigendo verso i mercati emergenti, e i film americani più costosi vengono ormai pensati per il pubblico di Brasile, India, Far East asiatico, in vista di imminenti, non più occasionali, alleanze con la Cina. È un’americanità che cambia, e Lucas che – insieme a Spielberg – l’ha rappresentata nel modo più evidente (seminando qua e là figli illegittimi, come Michael Bay), è diventato lui stesso “graffiti” di un periodo, l’infinito postmoderno, agli ultimi fuochi.