Soubrette: la parola al regista

Quattro chiacchiere con Marco Mingolla, autore di un corto-rivelazione
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Soubrette nasce come esame di diploma alla Film Academy di Cinecittà. Si tratta di un corto, diretto da Marco Mingolla e sceneggiato da Alessandra Pieroni, che arriva dritto al cuore. Un colpo di proiettile ben sparato. Le radici della storia affondano nel terreno della televisione anni Novanta; della televisione della leggerezza che tendeva a farsi volatilità, vacuità, Nulla. Il primo movente è la celebre gaffe di Antonella Elia che, in diretta, a Non è la Rai, mentre sculettava, scosciata, davanti al Cruciverbone, si paragonò a un’handicappata. E apriti cielo…  

Sì appunto, e la Bonaccorti la riprese e la bacchettò, perché cose del genere non si dovevano dire in tv e in una diretta. Ovviamente, noi l’abbiamo romanzato un po’, questo episodio, e ci siamo allontanati dalla vicenda di Antonella Elia. La riflessione di partenza su Soubrette è stata: “Chi sono tutte quelle ragazze che 25 hanno fatto Non è la Rai e che oggi non sono… nessuno? Abbiamo principalmente lavorato su questo. Abbiamo scelto una serie di storie e ne abbiamo fatto una sintesi.

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Blu Yoshimi

Quindi, il personaggio interpretato nel tuo corto da Lidia Vitale incarna un po’ la summa di tutte queste… “perdenti”. Ho scritto su Nocturno, recensendo Soubrette, che oggi si ha  paura a raccontare dei perdenti. C’è come un pudore e si preferisce, anche dal punto di vista spettacolare, stare su chi vince, su chi ce la fa. La Vitale è molto brava nel rendere il personaggio. Pochi atteggiamenti, pochi dettagli le bastano per alludere a una grossa backstory. Come l’hai scelta?

Devo dire che è stata la nostra prima scelta, quindi siamo stati fortunatissimi, anche a ricevere subito il suo sì e ad avere, ciosì, sia la madre sia la figlia per lo stesso personaggio: Lidia Vitale e Blu Yoshimi. Tra l’altro, non avevamo alternative, non avevamo pensato a un’alternativa vera. Abbiamo contattato prima Blu, che era più vicina a noi come età, le abbiamo proposto il progetto, dicendole che lo avremmo inviato anche a sua madre, Lidia Vitale, che però, in quel momento, era in America a girare. E quindi non aveva il tempo di leggere la sceneggiatura. Tant’è che la sua agente, all’inizio, ci congedò abbastanza in fretta. L’insistenza di Blu ha fatto sì che anche sua madre fosse dei nostri, anche perché quello che volevamo fare andava oltre il semplice cortometraggio. E Lidia si è convinta. A me, lei è sempre piaciuta, anche per quel suo sguardo malinconico, sconfitto, che è riuscita a riportare, totalmente, nel corto. È una bellissima donna, ma i segni del tempo si vedono, sono palesi e lei non ha cercato di nascondere nulla. Mi piaceva costruire questo personaggio decadente sul viso di Lidia.

Quanto tempo ci hai messo a girare Soubrette?

Abbiamo dovuto seguire i tempi della Roma Film Academy. L’idea ci è venuta a maggio, abbiamo girato a luglio, avendo una prima bozza subito, dopo aver girato, mentre la versione definitiva con tutto compiuto, compresa la color correction, è di ottobre. Mi ricordo anche la data, il 3 ottobre.

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Blu Yoshimi studia la parte

Sei soddisfatto? Direi di sì, perché il risultato è ottimo…

Sì, sono molto soddisfatto. Diciamo che avevo in mente delle cose ben precise. E quando vai sul set con delle idee chiare, hai più possibilità di farcela, diciamo così.

Quali idee avevi chiare?

Più che la storia socio-politica dell’Italia degli ultimi vent’anni, volevamo raccontare una sensazione precisa che, secondo me, Lidia è riuscita a restituirci, soprattutto nel piano-sequenza finale: l’angoscia che viene fuori da questi ultimi 25 anni di storia italiana. Lo sviluppo – o il sotto-sviluppo – della televisione, con la scelta di queste ragazzine che facevano trasmissioni come Non è la Rai, senza avere particolari qualità… questo passa tutto in secondo piano. Io mi sono concentrato – soprattutto perché si tratta di un corto di 13 minuti – sulla scelta, per esempio, di personaggi come le due gemelle e di altri caratteri che si vedono nel finale. E mi sono concentrato sulle inquadrature, sempre molto statiche, o realizzate con dei carelli lentissimi, per enfatizzare la decadenza morale dei costumi ma anche e soprattutto questa angoscia che ci portiamo dentro nella ricerca del successo.

Venendo al piano-sequenza finale: è volutamente ambiguo. Almeno, io l’ho letto in questo modo. Difficile dire che cosa sia, in realtà, quel piano-sequenza: è effettivamente la realtà o una visione? Come lo dobbiamo interpretare?  Forse sta alla sensibilità di ciascuno “leggerlo”, decrittarlo, ma il regista quali indicazioni ci dà? Io non l’ho interpretato, banalmente, come se fosse lei che va a questo show e si gusta il successo, per quanto effimero e anche squallido nelle motivazioni, visto che è stata recuperata solo perché all’epoca fece l’enorme gaffe. Il regista quale interpretazione ci dice che dobbiamo dare di questo piano-sequenza?

Per me, l’ultima parte di questo cortometraggio, è un po’ una storia in sintesi. Già il cortometraggio è compresso, come possibilità di narrazione, ma volevo qualcosa che ricalcasse tutto quello che c’eravamo detti fino a quel momento, in maniera, però, onirica. Lei accetta di prendere parte a questo gioco strano, che è una specie di Grande fratello Vip, e quindi questa diventa la ricerca vera del successo che lei capisce, a un certo punto, essere effimero. Per noi era un modo di raccontare questa storia attraverso, forse, anche una ripetizione. Era un modo per ricalcare quel sentimento.

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Marco Mingolla sul set

Torna il discorso che facevi prima, sul tentativo di rendere una sensazione piuttosto che di narrare linearmente una storia…

Certo. Sai, io credo che una delle mie caratteristiche sia, spesso, sospendere la narrazione. E infatti mi piace molto usare la slow-motion, proprio perché mi dà la sensazione del tempo dilatato. Non amo arrivare a una conclusione ma mi piace focalizzarmi su “quel momento lì”. E penso che il corto sia proprio l’ideale per focalizzarsi non tanto su una storia quanto su un momento.

Vero. Però nel resto del documentario ci sono anche momenti più ritmati, più veloci. Esiste un buon equilibrio, complessivamente…

Sì, perché volevamo dare un tocco pop al corto, ma non snaturarci del tutto, perché veniamo da quel mondo lì, dove lo cose vanno veloci…

Adesso che progetti hai?

Abbiamo in cantiere un cortomtraggio, su temi molto simili…

Per me devi fare un lungo…

In realtà, ci hanno detto che Soubrette potrebbe diventare un lungo…

 Ah, beh, certo, sarà intrigante sviluppare la storia di un’attrice che non ha mai sfondato, che è rimasta sempre ai margini. E non credo sia stata mai fatta…

Il mondo di Non è La Rai non è mai stato raccontato, è vero. Se non con qualche accenno, dentro 1992…Il possibile sviluppo in un lungo di Soubrette sarebbe proprio entrare nella quotidianità della protagonista, al di là del colloquio con la produttrice. Il corto che stiamo progettando, sempre in collaborazione con il mio collettivo, Cattive produzioni – all’inizio dell’anno prossimo speriamo di riuscire a diventare anche un’impresa –, come dicevo è un po’ sulla stessa linea di questo. Perché vogliamo proprio definirci come temi, quindi anche da un punto di vista autoriale. Ti dico solo che tra noi definiamo questo nuovo corto un Soubrette 2.0: parla di un altro episodio realmente accaduto, di un’altra violenza, se vogliamo non classica ma comunque una violenza, e del modo in cui viene mostrata in tv. Si intitola Aquarius e lo stiamo proprio mettendo a punto in questi giorni. Uno studio televisivo può essere assimilato a un aquario. Ti posso solo anticipare che ci sono delle “vittime” che vengono fatte diventare, quasi forzatamente, paladine di qualcosa che non vogliono. È sempre un’altra storia, raccontata attraverso il filtro della televisione…