Featured Image

Le porte del silenzio

1991
REGIA:
Lucio Fulci
CAST:
John Savage
Sandi Schultz

Il nostro giudizio

Un film che rielabora tanto cinema amato e vissuto dal suo autore e lo trasforma in qualcosa di diverso, di assolutamente personale.

Marvin Devereux mentre partecipa al funerale del padre, viene avvicinato da una bellissima ragazza che lo chiama per nome ma che egli non ricorda di avere mai conosciuto. Incontratala una seconda volta, Marvin decide di seguirla in un motel per fare sesso con lei, ma la donna scompare improvvisamente lasciandogli un messaggio scritto col rossetto: «ormai non c’è più tempo».

Le porte del silenzio è l’ultimo film diretto da Lucio Fulci; film sfortunato che, come diceva il produttore Aristide Massaccesi, «non ha venduto nemmeno una brochure». In Italia è uscito in videocassetta, mentre in gran parte del mondo è rimasto inedito, anche in seguito al fallimento della casa produttrice, la Filmirage. Eppure sia a Fulci che a Massaccesi il film piaceva moltissimo, anzi, erano proprio innamorati di questa storia surreale sospesa tra la vita e la morte. In effetti, l’idea di base, tratta da un racconto breve dello stesso Fulci (Porte del nulla, pubblicato nell’antologia Le lune nere) pensato insieme a Piero Regnoli, è originale e intrigante; anzi, decisamente in anticipo sui tempi, se si pensa a quello che sarebbe venuto da Il sesto senso in avanti. Il problema del fallimento del progetto, in realtà, sta altrove: dalla sceneggiatura, poco curata e attenta a non far scoprire con troppo anticipo il “giochetto” allo spettatore, alla fattura del film (terribile la fotografia di Ferrando e il montaggio di Rosanna Landi), al protagonista (John Savage assolutamente fuori forma il quale, anche se può essere scusato per la sua taglia extralarge e i suoi capelli sempre unti – che del resto ben si confanno a un viscido come Melvin Devereux – non è giustificabile per l’evidente svogliatezza che caratterizza la sua performance), fino alle musiche di Franco Piana, jazzista voluto da Fulci, che ha regalato al film uno score degno di un telefilm anni Settanta.

Un film che rielabora tanto cinema (con Detour in cima alla lista) amato e vissuto dal suo autore e lo trasforma in qualcosa di diverso, di assolutamente personale. Un viaggio nella profondità dell’animo umano, una riflessione sulla morte che negli ultimi anni della vita ha accompagnato giorno dopo giorno Lucio Fulci. Le porte del silenzio è, così, il film più autoriale di Fulci, proprio perché profondamente legato alle sue esigenze, alle sue credenze, al suo modo di concepire il cinema. Tutto questo naturalmente a livello teorico, perché il risultato è ampiamente al di sotto delle aspettative. Il novanta per cento della colpa è da attribuirsi allo scarso budget e all’attore poco in parte; ma Fulci ha le sue responsabilità. Sembra addirittura che, di ritorno dalla Louisiana dove il film è stata girato, il regista abbia presentato a Massaccesi un metraggio largamente inferiore all’ora e mezza e che lo stesso Aristide sia dovuto tornare a New Orleans per girare alcuni momenti di raccordo “dimenticati”.

Le attenuanti però ci sono, e girare questa sorta di Duel metafisico non deve essere stata impresa facile; in fondo un’ora e mezzo di inseguimenti tra una macchina e un carro funebre metterebbero a dura prova chiunque. Forse proprio qui sta il bandolo della matassa: aver voluto portare sullo schermo una storia irrappresentabile. Non a caso Fulci, rispetto al romanzo, si è dovuto inventare non pochi espedienti per dilatare la vicenda (la zia maga, il funerale all’inizio, i flash back del padre, i vari intoppi che bloccano la strada a Melvin) e trasformare un bel cortometraggio in un film noioso. L’unico tra questi espedienti, di per sé inutili, degno di un qualche interesse è l’introduzione del personaggio di Sandy Schultz che, sotto le sembianze di un’ammaliante e misteriosa sconosciuta che tenta a più riprese Melvin, nasconde invece la morte. Al momento della distribuzione internazionale del film, Massaccesi, visti i drammatici risultati dei precedenti film di Fulci, ha costretto il regista, per la prima volta nella sua carriera, ad assumere lo pseudonimo di Henry Simon Kittay.