QUALIS ARTIFEX PEREO! Approfondimento su GG Allin

Dove sta la vera radicalità? Dove si nasconde?
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È più terminale l’assoluta mancanza di filtro rappresentativo in un raid di GG Allin o una spaventosa pièce della Fura dels Baus? Erompe maggiormente la smania di mandarti a casa con lo stomaco sottosopra di un Ron Athey o un quarto d’ora a caso della Raffaello Sanzio? Domande ovviamente retoriche, ma di fatto, in una costellazione dell’estremo non si può non tenere da conto chi ha fatto dell’oscenità ontologica un’arte (di vivere). In una gravosa mappale dei performers più scavezzacollo spicca il poker di videografie rispondenti ai nomi di Sick – the Life and Death of Bob Flanagan, supermasochist, The Ballad of Genesis and Lady Jaye, Sex – the Annabel Chong Story e Hated!, documentari ove sublimazione artistica e sabotaggio di questa stessa sublimazione sono un indistinguibile magma, con quest’ultimo a determinare e scompaginare un’intera esistenza prima e più ancora delle singole performance che ne sono sineddoche. Trattasi anche di opere oscillanti tra il bello e l’interessante, che –epopea di Allin a parte – in sé non hanno niente di graficamente scioccante da offrire ai cani da tartufo del gratuito, a parte qualche frammento performativo di Flanagan da far rattrappire il cicciolo (la famigerata performance Nailed, che Buttgereit terrà da conto per una delle scene più impressionanti di Schramm), che è comunque poca cosa se messa a raffronto con la struggente e insostenibile agonia delle sue ultime ore catturate con un puntiglio da far impallidire il Wenders di Nick’s Movie; a turbare è essenzialmente la totale dissoluzione tra arte estrema e vita bruciata per essa, e il modo in cui la fragilità, l’umanità e l’intelligenza di queste persone (non più personaggi) viene messa impietosamente a nudo, mostrandoceli come iper-sensibili creature viventi una persistente condizione di paradosso e contraddizione, e non più come icone pop dell’underground. Insomma mica detto che shockumentario debba giocoforza equivalere a cervella e budella asperse un tanto al minuto. Se è questo che proprio si cerca, è sintomatico che Flanagan si ritrovi presto sorpassato sulle proprie pratiche da serie quali Pain, per tacere dell’indigesta epopea dell’Atomica Film di Luigi Zanuso (uno che quanto a riempire di vomito la glottide dell’incauto spettatore in cerca di fisiologici punti-limite ecceduti non ha affatto scherzato), e che dall’epater il malcapitato bourgeois nelle art-gallery, si sia passati all’amuser le bourgeois nella comodità di casa propria, dalla quale avrà di che sollazzarsi a piacere con tutto quel che potete fantasticare sul genital torture più off-limits ma non avete mai osato vedere: peni, vagine, seni, retti devastati da pesi, corpi estranei di ogni sorta (animali, vegetali, minerali, contundenti), graffettatrici, tenaglie, martelli, bifrontali, spilloni arroventati, ami in una cafarnao di supplizi da far impallidire Gunther Brus e / o Schwartzkoegler. Ma questi prodotti sono il fuori tema, casi ove è la sola reificazione dell’estremo che conta, in cui trionfa la richiesta che fa il prodotto e l’arte è la prima esclusa, un ricordo preistorico.

Sebbene legate a una sovraesposizione biografica e psicologica (due ipoteche sempre turpi in arte), le pratiche esponenzialmente autolesive di Flanagan beneficiavano di una loro precisa prospettiva: malato di una fibrosi cistica che malgrado il suo combattimento estetico ed esorcismo creativo finirà con l’avere impietosamente la meglio su di lui consegnandolo alla vita immortale a soli 43 anni, decide di combattere scientemente il dolore endogeno con il dolore esogeno scientemente perseguito e procacciato con un puntiglio enciclopedico di tutto quel che si può arrecare a ogni parte del corpo (ne vediamo appena una parte su oltre 100 ore di girato). Nel dedicarcisi assecondato dalla sua compagna dominatrix di tutta una vita Sheree Rose, Bob scopre presto l’hybris barkeriana che dal dolore porta al misticismo, alla catarsi (talvolta anche umoristica, si veda la performance ove, interrato in una bara, canta la sua hit “It’s fun to be dead” filo-diffondendola nell’art gallery), del massimo piacere sessuale e di quel potenziamento della psiche e della coscienza fondanti il medesimo sottotesto motivazionale della danger art di Genesis P.Orridge. Sconcerta senz’altro (e non poco) testimoniare quello che Bob –tratteggiato come un supereroe Marvel del Bdsm – è capace di combinare alle proprie membra (chi vuole un petit résumé può rispolverare la clip fatta per Happiness in Slavery dei Nine Inch Nails, che lo ritrae costretto a un macchinario di tortura degno dei Mutoid, che gliene combina di ogni in tempo reale senza ricorso agli f/x), ma si resta non di meno ammirati nell’udirne l’assetto teoretico illustrato da un eloquio brillante, sagace e genialoide: nel compendiare e tramandare a imperitura memoria gesta e teorie di una istrionica ed iperespressiva maschera tragicomica sottratta al cinema, il regista Kirby Dick schiva nobilmente la vis exploitativa, non specula sulla sua bio-diversità, lascia che ci si affezioni a lui senza compatimenti, al punto che si resta commossi e straziati dai reels delle sue ultime ore che lui stesso ha voluto fossero immortalate come performance finale.

Allo stesso modo, ma decentrato verso l’overload sessuale, il gioioso cupio dissolvi di Annabel Chong (al secolo Grace Quaek) tradottosi in una maratona gang-bang da 10 ore di 251 uomini (l’obiettivo numerico era di oltre 300, ma una grave emorragia interna procuratale da un partner la costrinse a fermarsi), viene da Gough Lewis immortalato senza morbosità, con un occhio di riguardo alla complessa psicologia, biografia e umanità dell’interpellata che sopravanza e in parte giustifica la pornografica impresa olimpionica che le darà esattamente quel che più desiderava: un’enorme notorietà internazionale comparabile a quella della sua eroina Madonna, ottenuta col massimo della sensazionalità al minimo sforzo, dato che la nostra gode un mondo di quel che fa. Ma sarà un successo effimero: del suo record lo show-biz hardcore non tarderà a subodorare l’affare, facendolo presto diventare un’empia griffe da guinness dei primati, superata di lì a breve da una Sparxxx che totalizzerà nel pallottoliere ben 919 unità): a essere indagato è soprattutto lo squilibrato e arzigogolato rapporto con la famiglia e il risvolto intellettuale del gesto, sigillato come atto estremo di emancipazione femminile e dalla dissociazione da colpa e vergogna che intercedono tra donna e libertà sessuale: il nobile intento verrà però soverchiato dalla dura lex dello sfruttamento della prostituzione (i loschi produttori spariranno senza metterle in tasca un cent dei 10mila dollari pattuiti) e nello scoppiare in lacrime della protagonista che racconta come il progetto le abbia recato più danno che sollievo (specie nei rapporti con la madre, e con la droga) percepiamo che bastimento di thanatos si trascina l’eros fattosi industria.

Chi dell’in viva morte morta vita vivo e del full force thanatos ha invece fatto il proprio vessillo senza freno, rimorso, vergogna, colpa, rimpianto alcuno, è GG Allin. A Hated!, bio-docupic di Todd Philips, bastano appena 54′ per farci dimenticare quei buontemponi dei Sex Pistols o i provocatori più o meno teorici (e più o meno poseur) dell’industrial culture: Allin è un sacrilegio d’essere, infervorato dal complesso di Erostrato, che salta la staccionata del punk iconicamente inteso e culturalmente perimetrato da chi blatera di rivoluzione in abito da sera, dismette i comodi scudi estetici e come un ariete sfonda le muraglie spettatoriali non offrendo né accettando limiti, incurante di leggi, morale, etica e super ego: indomabile e sciroccatissimo Caino iperaggressivo e autolesivo oltre ogni concetto, mangia e scaglia le proprie feci, malmena e ferisce gli spettatori con tutto quel che gli capita per le mani, spezza e si fa spezzare ossa e denti, mena e cerca di stuprare le ragazze, per poco non uccide dissanguata una groupie, corca di cazzotti una giornalista che lo provoca a un reading, sfida a singolar tenzone la morte con ogni mezzo concesso dalle circostanze, e non fa sconti a chicchessia in scorribande live che diventano risse in un amen in un forsennato tripudio escrementizio di percosse e sangue; sedizioni delle quali non si tiene il numero dei bystanders fuoriusciti con fratture multiple, e che lasciano di stucco per la condiscendenza di un pubblico che quasi mai reagisce massivamente ai suoi arrembaggi taurini, ma che restano notevoli anche solo per la durata che di rado supera il quarto d’ora senza che intervenga la polizia: in pochi anni Allin collezionerà un impressionante numero di arresti che toccherà quota 53 per un totale di tre anni di prigionia, uno dei quali continuativo, dovuto a un carteggio con Hinckley (l’attentatore di Reagan) ove gli proponeva di portare assieme quel che aveva tentato di fare senza successo nell’81 non appena rilasciato. Tanto gli bastò per entrare nelle grazie dei servizi segreti che fecero di tutto per tenerlo al gabbio il più possibile, usando come pretesto reati pregressi, e appellandosi –stranamente senza successo- all’internamento in un manicomio criminale.

Reticente alla canonizzazione, il documentario ce ne illustra in modalità hard and fast, e senza nulla edulcorare, tutta l’immorale spirale discendente ma non mancando di mettere la spunta anche sulla scaltra ratio di fondo di chi ha consapevolmente scelto di immolare la propria esistenza a una tale successione di eccessi da far sembrare Morrison e Rotten sprovveduti pischelli della via Pal; contrassegno che a onta del più volte ventilato proposito di uccidersi in scena eliminando prima quanti più spettatori possibile con una 357, conoscerà capolinea nel più banale e stereotipato the end delle rockstar maudit: l’overdose per eroina, avvenuta dopo un ultimo gig culminato in un tutti contro tutti che dal Garage Club esonderà per le strade fino all’arrivo di un’attonita polizia incapace di capacitarsi, confusione che darà a GG la possibilità di sgattaiolare trovando asilo da amici, e con esso la tanto sfidata morte, spernacchiata una volta per sempre da una sepoltura non meno squallida e oltraggiosa delle sue performance: verrà interrato interamente cosparso dei propri escrementi, mentre gli amici gli riempiono bocca e bara di alcool e eroina. Se la prima idea che va formandosi entro il primo quarto d’ora è quella di uno scocomerato psicopatico prestato all’ambito punk-rock, le interviste in back stage e gli spezzoni degli ‘uno contro tutti’ da Geraldo e da Jerry Springler lasciano intravedere una personalità a suo modo affabile e brillante, acuta, spietatamente lucida, consapevole delle scelte fatte e dell’estrema solitudine che queste hanno inevitabilmente comportato. Serial killer mancato o artista? Giudicate voi. È certamente interessante la risonanza eucaristica, messianica e sacrificale del vero nome anagrafico di GG: Jesus Christ, assegnatogli da un padre estremamente baciapile e non meno aggressivo di lui. E resta di certo la più didascalica dimostrazione che tra arte e crimine non c’è differenza.

A compendiare in un eccentrico mosaico la rechereche du corps perdu di Flanagan, l’aggressiva dissoluzione tra pubblico e privato di Allin, e l’esubero pornografico della Chong provvede un inclassificabile personaggio multi-task come l’ambito performativo e musicale non ha mai avuto, che ha fatto della continua mutevolezza e manipolazione di forma, suono, immagine, stile e infine del corpo il trademark di tutta una vita: nuvola in gabbia, uomo da mille e una diramazione, il camaleontico P-Orridge, dopo un pioneristico e impressionante excursus esoterico di body e danger art, una viscerale esplorazione della tribalità, dello sciamanesimo, del piercing, della scarificazione e del tatuaggio che ha fatto di lui un primitivo moderno per eccellenza, una full-immersion in ogni possibile forma di psicotropia (anche extra-tossicologica, vedasi l’ossessione per la dream-machine, tra i numerosi refrain del Tempio della Gioventù Psichica), una full immersion in ogni deviata forma di contro-informazione, P-Orridge trasla il processo che si fa prodotto che si fa processo artistico nelle proprie carni, sin da fare del proprio corpo un’opera d’arte mutante, della propria vita un’installazione ambulante, una curiosità da museo, un burroughsiano cut-up che respira, fondendo, tramite la pandroginia, il proprio sé-soma con quello dell’amato/a Lady Jaye, oggettivizzando l’orgasmo, rendendo fattuale e quotidiano l’essere una cosa sola oltre quella morte che, inaspettatamente, verrà a pignorare malamente l’amore, lasciando GPO in balia dello strazio per la perdita del proprio doppio. Il documentario di Marie Losier comprime e cattura gioia e agonia che la divora, in una morphé filmica a cavallo tra home movies sperimentali e ipercinesi jarmaniana, tra sentita elegia funebre e un’agiografia a tratti spudorata. Quali che siano i livelli di guardia superati o ancora da superare, il paradossale minimo comune denominatore rimpallato di biopic in biopic resta inalterato: l’arte, per renderci immortali, deve ucciderci. Solo allora il No si rovescia in un On, in un’accensione, in un soprastare.