Psyco e l’ignoto tema del doppio

Il capolavoro più dissociato della storia del cinema
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Psyco è indubbiamente il maggior successo commerciale del re della suspense Alfred Hitchcock. Nel 1960, anno della sua uscita, la critica lo accoglie molto severamente, al contrario del pubblico, che ne decreta il successo sin da subito, perché coinvolto emotivamente e divenuto volentieri vittima di un intenso effetto travolgente. Fedele al romanzo di Robert Bloch (1959), Psyco è un film capolavoro grazie principalmente alla purezza della sua tecnica – come rilasciò lo stesso Hitchcock; l’utilizzo del montaggio, del suono e della fotografia, sono la chiave di riuscita e lettura di questa immensa opera, le cui fondamenta sono da individuare anche nel tema del doppio. Il significato del termine, in questo perimetro cinematografico, va inteso nella sua effusa totalità: Psyco è già di per sé un “film doppio”, dal momento che si racconta attraverso il rapporto di luci ed ombre con la divisione matematica di muto e sonoro; nonché costruzione di una sorta di meta-cinematograficità caratterizzata da un lineare sdoppiamento. Il quid in più è rappresentato, poi, dall’adattare questa peculiarità sia sui personaggi, che sul piano tecnico-registico. Norman (Anthony Perkins) è un soggetto diviso tra le sue due abitazioni, il Bates Motel e la casa della madre: anche le semplici disposizioni nello spazio tridimensionale – il primo orizzontale, la seconda verticale – raccontano dell’altalenante ossimoro umano mammone-misogino, che corre da una parte all’altra senza tregua.

Psyco 3

Solo nel finale, e nella piena identificazione con la madre, troverà la sua dimora. Visivamente, questa inquadratura rispecchia perfettamente la politica del doppio: la mdp si avvicina sino a mostrare una sovrimpressione tra il volto di Norman e il teschio della donna, condita sapientemente col monologo di chiusura del film, in cui è “lui, ma lei”, a parlare. Questo sdoppiamento è da considerarsi letteralmente fantasma, poiché Hitchcock inserisce una più diretta duplicità con la protagonista Marion (Janet Leigh), in modo da far emergere l’interiorità enigmatica dei due caratteri. Un esempio si ha quando la protagonista sta fuggendo in macchina (dopo aver rubato i soldi) e sente le voci del suo capo: improvvisamente, sul suo volto si disegna un sorriso tra il nervoso e il maniacale, identico a quello che rivedremo sull’assassino negli ultimissimi fotogrammi. Oppure, le esitazioni di entrambi durante il check-in al Bates Motel: nello stesso arco temporale sono indecisi sul da dirsi, e, nello stesso istante, si rispondono velocemente (Los Angeles, camera 1). O ancora, la sottile linea fra bene e male che si viene a definire durante il campo-controcampo più famoso del cinema (salottino del motel): Marion incarna il bene, Norman il male; la regia e la fotografia hitchcockiane realizzano una bidirezionalità di linguaggio straordinaria, data dalla contiguità e asimmetria – tipiche del maestro, dai forti cambi di luce che circondano i personaggi, delineando i poli opposti, e dai dettagli subliminali, come i gufi impagliati. In un modo o nell’altro, Norman e Marion hanno molto in comune, a partire dal dover vestire un dato ruolo che va oltre la materialità e l’umanità.

Psycho 2

In un certo senso, i protagonisti coincidono. Anche sul piano tecnico-registico, Hitchcock si supera nella rappresentazione di due fulcri. Prendiamo ad esempio la famosissima sequenza della doccia, dove elemento visivo ed elemento sonoro sono intimamente posizionati e ibridati fra loro: il silenzio musicale che precede e segue l’omicidio è volutamente rappresentato dal rumore diegetico dello scorrere dell’acqua, chiaramente anempatico – ossia indifferente alla situazione e impassibile rispetto alla totalità della scena. La melodia di Herrmann, realizzata con le note più alte del cantino, suona solo durante l’omicidio; il pre è caratterizzato dal getto della doccia, il post dallo scolo, chiara metafora visiva, che raggiunge qui la sua più potente carica simbolica: il tempo non si ferma davanti a nulla e inghiotte ogni cosa; acqua, sangue, dolore e morte. Hitchcock, da un lato, innalza il tema del doppio per mezzo dello spegnimento del commento extra-diegetico e della celebre dissolvenza fra lo scolo e l’occhio della vittima; dall’altro, mantiene la sua prima posizione di maestro della suspense, rendendo protagonista assoluta proprio la spiazzante anempatia del suono rispetto all’atroce delitto della protagonista avvenuto a metà film, inaspettata novità. Hitchcock, quindi, trasforma il tema del doppio nell’ennesima caratteristica del suo cinema e della sua tecnica. Non si limita più ad essere elemento finalizzato alla sola spettacolarizzazione: il doppio rappresenta ora un buco nero, una voragine che divora e annienta i protagonisti. La dualità, Hitchcock, la fa personale, drammatica e thriller. In poche parole, la rende sua.