Officine Necromeccaniche Schwartz

Il ciclo delle Facce della morte fonda una nuova frontiera per la tanatologia portata su grande schermo.
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Memore ed erede di un Gualtiero Jacopetti i cui epigoni erano ormai divenuti demodé, la cuspide 70-80’s ha, tra le altre cose, tenuto a battesimo Le facce della morte, prima diramazione a tutto thanatos del mondo-movie, che vanterà ben 4 capitoli ufficiali e due apocrifi, dando, senza probabilmente volerlo o calcolarlo, la stura a un sotto-filone che evolvendosi man mano non avrà più bisogno di un illustre Caronte né di una gnomica voice-over che finge di umanizzare il peggio, invero schernendolo ipocritamente tra raggelante cinismo e umorismo da villico marmitta-movie (e che più coerentemente vedremo sostituita da score degli S.P.K. o di grindcore o da un più consono raggelante silenzio). E nemmeno si avvarrà più, come vedremo, del cinema, inteso come platonico nihil locus e come viatico formale.

Con il suo indomito defilé di decessi e cadaveri “dal vero” un tanto al metro, Le facce della morte serviva i croissants al peggio fin là testimoniato da chi si era fatto strappare i biglietti per Addio ultimo uomo (che nel suo essere ideale anello mancante tra gli africa-movies e il cinema da camera mortuaria a venire, scherzava mica, tra false evirazioni elargite con sadica pedanteria e veri war-footage da far rattrappire l’anima). Conan Le Cilaire (al secolo John Alan Schwartz) l’addio all’uomo lo darà stricto sensu: una vera e propria anabasi con un falso anatomopatologo a far da guida museale (il cui moniker, Francis Gross – cognomen omen – significa, putacaso, crasso) in un ideale necro-stabilimento platonico, idea che Le Cilaire commutò in seguito alla visione di The Hellstrom Chronicle, un finto documentario del 1971 centrato su un insetto immaginario che egemonizzava il pianeta. Fedele a quell’abilità da pokerista baro tipica del famigerato cinema verité, implicitamente richiesta come passaporto, inattendibile si rivelerà col tempo anche buona parte del materiale repertoriato (una delle sequenze più famose del film, quella del pasto con cervello di scimmia appena scalottata, oltre a essere palesemente ricostruita, viene dritta da Sadismo, un mondo di ben 12 anni prima, oggi irriperibile; ma poco importa dato che per la platea affamata di Mito l’importante è crederci e dato che quando si è talmente falsi da sembrare veri è l’atmosfera d’insieme a spuntarla, e quella torva e tutt’altro che salubre di Le Cilaire non era certo assimilabile ai film di Zanussi.

Non bastassero le avvisaglie di flani e locandine ad ammonire lo spettatore di lasciare ogni speranza una volta entrato (con tanto di “produzione e direzione del locale che declinano ogni responsabilità per eventuali malori causati dalla visione del film”), le mani avanti vengono messe dalla prima scena: il film si apre con una dettagliata operazione di cardiochirurgia, e da lì in poi sarà un susseguirsi inesausto di colpi sotto la cintura, in una fricassea di suicidi, esecuzioni capitali di ogni sorta (camera a gas, sedia elettrica e decapitazione sugli scudi), animali macellati o torturati, scorribande obitoriali con riporto autoptico, pasti umani di grizzly e di coccodrillo (reel quest’ultimo, che verrà più avanti rimpallato da Nudo e crudele), sacrifici umani di una setta satanica (un falso ove lo stesso regista si concederà un hitchcockiano cammeo nei panni del mansoniano guru della setta), in un amalgama indigesto che innesta l’autentico e il repertoriale (terribile in tal senso la news-reel del ciclista letteralmente spalmato sull’autostrada da un tir, così come occorre un cuore in cemento armato davanti alla visione di cuccioli di foca impietosamente decimati a bastonate) con l’abilmente ricostruito, per poi chiosare bel bello con immagini finali dell’amicizia tra una ragazza e un passerotto (Heidi anyone?) e di una donna incinta che passeggia serafica sul bagnasciuga mentre la canzone Life riempie lo score. Curiosamente, mentre veniva girato questo ipocrita inno alla vita, a pochi metri di distanza le onde restituivano alla spiaggia un surfista morto: una nemesi metapsichica e uno schiaffo morale che il regista non si sentì di includere nel film.

Sarà sintomatico che a mettere mano all’edizione italiana sarà proprio quel Mario Morra reduce di una manciata di mondo-movies, dando al film una diversa colonna sonora (a opera di quel Daniele Patucchi che verrà successivamente riarruolato per i suoi Dolce e selvaggio e Dimensione violenza), e rimpolpando il corpus con un una ventina di scene in più rispetto a quella americana: dall’immancabile corsa di tori nelle vie cittadine ormai stravista e strarisaputa, a elefanti e cervi cacciati, dai cadaveri nel Gange (presumibilmente ripescati da Shocking Asia e da pregressi lavori con Climati) a imbalsamatori di teste di cadaveri in Amazzonia e di cadaveri in America, mentre immagini alla Quark di comportamenti di scarabei e facoceri sembrano voler fare da metaforico viatico alla soppressione dei prigionieri di guerra. Il perché di questa supervisione non ci è dato sapere né comprendere; gli è che come pegno Morra riciclerà le scene delle autopsie e delle foche bastonate per il suo ultimo approdo al genere, Dimensione violenza.

Ovviamente quasi superfluo aggiungere che il coté culturale di quest’operazione, che pure si sforza o fa spudoratamente finta di darsi un tono para antroposofico e finanche introspettivo, sta a zero (a meno che non vogliamo intendere come dato culturale il suo segnare un ampio passo verso una decadenza vieppiù meschina della rappresentazione), e mira esplicitamente a soddisfare quella brutta bestia che è la morbosa curiosità delle masse borghesi, peraltro allora impreparate a un colpo basso simile. Come già i suoi prozii, Schwartz ha semplicemente subodorato un affare fondato sull’ultima frontiera di una verginità di sguardo oggi del tutto impensabile. Tutte le ciance di guarnizione e contorno servono a confondere le cristalline acque del compiacimento spinto fino allo sfottò (poco prima che il suicida salti dal cornicione, lo score che lo accompagna è quello di un allegro motivetto vaudeville con una vocina che scandisce “…and one …and two! …and one, two, three, four!”, in un ignobile modus commentandi che nobiluomini come Cazazza e Tjersland faranno proprio), e a infinocchiare lorsignori censori che, vuoi perché davvero convinti di trovarsi davanti a un documento parascientifico, vuoi per motivi che trascendono l’umana comprensione, stanno al gioco e fanno approdare in sala il film senza nulla obiettare e senza imporgli un solo cm di tagli, limitandosi a vietarlo ai minori di anni 18.

Pur rimestando nell’artificioso e nel risaputo, la frittata era fatta. E se in Italia, a parte una breve parentesi di polemos, il film non èstato quel che potremmo definire un campione d’incassi, il prodotto furoreggiò in Giappone ove svettò primo in classifica 10 settimane (così Schwartz in merito: «In Giappone hanno una diversa concezione della morte, una fascinazione del tutto opposta a quella degli occidentali, che danno un’occhiata e poi si voltano di scatto dall’altra parte con disgusto»), sì da avere i suoi inevitabili sequel a ridosso di un battage pubblicitario che vantava un ban da 48 Paesi. Vera o falsa che fosse la messa all’indice, si erano spalancati i battenti della deathploitation: se da una parte c’era chi ancora si incaponiva in un’impostazione formale da cinegiornale errabondo che apre anche al weirdo, al bizarre, all’erotique e a sprazzi di choc quali punti congiuntivi di diverse geo-culture, tutto quel che Le Cilaire ha da mostrare è esclusivamente ricondotto a una visura obitoriale, a un nichilismo posticcio, a un approccio escatologico, a una passione tanatofila. È l’assenza di vita a riempire lo schermo. Se i Castiglioni o Vanderbes sono ancora più o meno sinceramente interessati alla decadenza di una nazione, a John Alan Schwartz preme esclusivamente quella del corpo umano, che è legge uguale per tutti gli angoli del pianeta, e che nel più caleidoscopico e verosimile Facce della morte 2 verrà passato in graticola con un piglio più tetro e tassonomico.

Concorrenziale nei confronti dei tg che all’epoca iniziavano a darci sempre più seriamente dentro con servizi efferati, il secondo blocco dei Faces of death è per un buon 95% costituito da scene terribilmente vere, e sebbene buona parte di esse non siano pesanti nemmeno la metà di quelle proposte nel capostipite, la percezione del dato reale è un plusvalore atmosferico che lo rende ancora più ammorbante e raggelante del primo. Incidenti stradali, valanghe, incendi, guerre e guerriglie, rapine in tempo reale (un altro falso, in cui questa volta Schwartz impersona uno dei malviventi freddati all’uscita del negozio) e l’immancabile masnada di mattatoi e vili sperimentazioni laboratoriali sul regno animale. Di tutto il film, restano impresse nella memoria le allucinanti immagini dei ragazzi morti sotto il napalm o negli scontri in Iran, un carosello di giovani corpi semi-carbonizzati sul quale la cinepresa indugia dettagliatamente prima che vengano avvolti nei sudari, con tanto di posticcio ronzio di mosche a farci da stabilo boss. Essendo perlopiù costituito da trovarobato, la grana è sporca, cosa che rende la confezione trucida, dubbia e anti- cinematografica. Il commento specula, more solito cinico e baro, sul truce campionario mostrato e per disquisire di morte non si manca di screditare o denigrare la vita con un bignami di speculazioni agnostiche di terza mano. Anche in tal caso, curiosamente Medea Censura non ha nulla da ridire e il film esce in tutta tranquillità con un solo severo divieto ai 18.

Un vero e proprio mistero attorno a questa seconda parte è dato dall’edizione nostrana, curata questa volta da Renato Polselli, che di pari passo a quanto fatto nel N.1 da Morra la rimaneggerà e rimpolperà di circa 20’ supplementari, scompaginando l’editing primevo e offrendo le proprie corde vocali per il commento sonoro ma lasciando stavolta inalterato lo score death-ambient del fido Gene Kauer. In questa versione, la presenza più insistita di Micheal “Dr Gross” Carr, praticamente quasi assente dalla versione originale e probabilmente ottenuta con un taglia-e-cuci degli scarti e delle outtakes del primo, resta inesplicabile (per le sostanziali differenze tra le due versioni rimanderei alla pedante disamina fatta qui). Benché i successivi episodi (un terzo completamente falso e un quarto addirittura pregno di una nerastra vis umoristica) non vedranno la luce delle patrie sale (il genere sembrava ormai mostrare la corda e lo stesso n.2 non tenne botta più di una settimana in pochi cinema), da lì in poi nell’olimpiade necrospettiva se ne vedranno, se così si può dire, delle belle, con la medaglia d’oro per il peggior abominio che passa rapidamente di mano in mano in proporzione alla facilità con cui sarà tecnicamente possibile catturare ogni ipotizzabile peggio in tempo reale: la tv sarà la prima a portarsi al passo d’uomo morto con i tempi, equiparata e superata dal mercato video in un’esponenziale corsa allo choc la cui detenzione del primato non ha conosciuto requie fino ai giorni nostri. Schwartz, parafrasando il comandante Tibbets, si ritroverà a esclamare: «Mio Dio cos’abbiamo fatto!»