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Zombeavers

2014
Titolo Originale:
Zombeavers
REGIA:
Jordan Rubin
CAST:
Rachel Melvin (Mary)
Cortney Palm (Zoe)
Lexi Atkins (Jenn)

Il nostro giudizio

Zombeavers è un film del 2014, diretto da Jordan Rubin.

Nelle rappresentazioni infernali immaginate da Hyeronimus Bosch nei suoi dipinti, una costante sono gli ibridi a metà strada tra l’Uomo e l’Animale. Il mostro, quindi l’ignoto, è come se procedesse sempre dall’accostamento, dalla giustapposizione o dalla fusione di elementi che si conoscono, ma che combinati insieme generano qualcosa di differente che non siamo più in grado di ridurre alla misura del nostro raziocinio. Qualcosa di spaventoso, inquietante, repellente. Su questo meccanismo, semplice ma infallibile nei suoi effetti psicologici, è costruita l’efficacia di un film come Zombeavers, che è esplicito nel dichiarare fin dal titolo i due emisferi horror dentro i quali ha pescato la propria ispirazione per creare una nuova sintesi del terrore. Da una parte, i morti viventi o meglio il concetto della resurrezione dopo la morte in una nuova forma famelica e mossa da stimoli omicidi, secondo quanto canonizzato da George Romero decenni fa e oggi più che mai operante ed efficiente. E dall’altra, il tema dell’animale ostile e virtualmente assassino, che è una delle grandi eredità che il cinema dell’orrore classico ha lasciato al New Horror del Terzo Millennio. Gli zombi, da Romero in poi e particolarmente in questi ultimi anni in cui si è assistito a una loro massiccia invasione dei media, tra cinema, tv e videogiochi, si sono agevolmente prestati a ogni discorso, tanto al commentario sociale e politico quanto alle forme più sfrenate di exploitation. Abbiamo persino visto film sentimentali o lacrima-movie con gente risorta di mezzo. E nel mash-up che si va imponendo quale recentissima tendenza dell’horror, i morti viventi viaggiano nei tornado o arrivano a cavalcare, nell’apoteosi del delirio, squali volanti.

Ma è raro, anzi rarissimo, che il tema degli zombi sia applicato al di fuori della specie umana. I filologi dell’horror saranno in grado di ricordare i cani-zombi visti nel videogioco prima e poi nei film del ciclo di Resident Evil, il gatto diabolico tornato dalla tomba di Pet Sematary, libro di Stephen King e film di Mary Lambert, o i ratti di fogna rianimatisi sugli spiedi dei barboni che li cuocevano per mangiarseli, e che finivano per essere da loro divorati, in un oscuro straight-to-dvd del 2004 dal titolo Return of the Living Dead: Necropolis. Certo, era difficile immaginare che qualcuno, un giorno, sarebbe arrivato a mettere a punto l’idea di castori-zombificati. E che questa idea avrebbe funzionato alla grande. Zombeavers comincia nello stesso identico modo in cui iniziavano molti eco-vengeance classici, con la fuoriuscita accidentale di materiale contaminante nel corso di un trasporto attraverso una zona paludosa degli Stati Uniti. Il carico velenoso rotola via dal furgone e si disperde nelle acque dei paraggi, innescando tutto ciò che di lì a breve succederà. Cioè che i castori della zona, a contatto con i fluidi esiziali, moriranno e risorgeranno immediatamente, con potenziate al sommo grado fame, forza e aggressività. Un gruppo di ragazzi arrivati a passare un week-end di sesso e di sbronze, si ritrova così a dover fare i conti con i parenti malvagi di Don Chuck Castoro.

Ma il punto è che, una volta arrivati a concepire questi mostri, le menti dietro Zombeavers, quella del regista- sceneggiatore Jordan Rubin e degli altri autori dello script Al e Jon Kaplan, non si sono fermate e hanno immaginato che come gli zombi tradizionali con un morso trasformano e rendono simili a sé le vittime, così anche i castori redivivi sono in grado, azzannando, di diffondere il contagio tra uomini e altre bestie, che finiscono per assumere anche le loro caratteristiche fisiche, a cominciare dalla dentatura e dalla coda. Nel bestiario orrorifico che via via il film offre, sviluppando queste premesse, c’è di tutto, persino un orso grizzly con innestata una enorme coda a paletta. L’effetto è certamente grottesco – e sul grottesco Rubin fa decisamente leva, tant’è che più di un commentatore ha avanzato dei paragoni con i primi horror-splatter di Peter Jackson a cominciare da Bad Taste – ma al di sotto di questo livello, al di sotto del riso o dello stupore, il film innesta un profondo disagio e riesce ad arrivare a toccare corde emotive e a titillare un’immaginazione atavica dove sedimentano gli stessi mostri multiformi che popolano gli agghiaccianti incubi colorati di Bosch.