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Voci notturne

1995
Titolo Originale:
Voci Notturne
REGIA:
Fabrizio Laurenti
CAST:
Massimo Bonetti (Carlo Morlisi)
Lorenzo Flaherty (Stefano Baldi)
Carolina Rosi (Silvia)

Il nostro giudizio

Voci notturne è una mini-serie tv del 1995, ideata da Pupi Avati

«Dove finisce la ragione, comincia un territorio che non ci appartiene, nel quale siamo intrusi. Una terra che ha regole che non conosciamo dove si parla una lingua misteriosa e dove le nostre logiche non sono utilizzabili…». Se non fosse per i semi di silfio, una pianta estinta da secoli e utilizzata nell’antichità come droga, che l’esame autoptico rinviene nel suo stomaco; e se i canapi che gli costringono mani e piedi non risultassero spalmati ad arte da un’altrettanto misteriosa salsa – ragione per cui i ratti hanno tripudiato -, il garum, con cui i latini insaporivano i propri cibi, il rinvenimento sul greto del Tevere del cadavere del giovane Giacomo Fiorenza avrebbe tutti i crismi di una vendetta trasversale contro suo padre (Cesare Barbetti), inquisito in una sorta di Tangentopoli e custode di segreti politici tremendi. Questi non irrilevanti dettagli, però, insieme al manifestarsi post-mortem della voce di Giacomo, attraverso alcune telefonate ai famigliari, in cui egli ripete di essere vivo, innescano lo straordinario mistery nel quale presto si dedalizza il percorso di Voci notturne, diretto da Fabrizio Laurenti ma debitore del proprio fascino arcano a una storia ideata e scritta da Pupi Avati. Intuire che dietro la sciarada covi e sogghigni il demone avatiano migliore non è difficile, visto come il viraggio degli eventi, perdendo in fretta le tonalità confortevoli di una comune indagine poliziesca – linea lungo la quale si muovono, a vuoto, gli sforzi del commissario Morlisi (Massimo Bonetti) e degli inquirenti ufficiali -, comincia a screziarsi di quei colori, esoterici in senso lato ma più precisamente ermetico-alchemici, già presenti nello spettro di Zeder e dell’Arcano incantatore. Persino il modo in cui le le fauci del preternaturale si spalancano, sembra il medesimo, qui e nel film del 1980, dove la ricerca di una verità misteriosofica aveva come primo movente sia erudite curiosità classiche – l’ubicazione e le sconvolgenti proprietà dei luoghi sui quali gli antichi erigevano gli oracoli dei morti -, sia le teorie di cui certi testi dell’ermetismo francese di fine Ottocento si sono fatti portavoce.

In Voci notturne, non diversamente, un enigma archeologico allunga le sue ombre sulla storia: quel che di sacro e di demonico celava un ponte della Roma più arcaica, oggi scomparso, il Pons Sublicius, dalle strutture interamente lignee, edificato senza uso di chiodi, e sede – secondo le fonti antiche – di riti sacrificali umani, detti degli Argei. Il Sublicius scopriamo essere stato in più di un modo connesso alla morte – almeno quella fisica – di Giacomo Fiorenza, che, insieme all’amico Stefano Baldi (Lorenzo Flaherty), sul monumento arcaico stava conducendo una ricerca, dopo il ritrovamento dei materiali serviti per una vecchia tesi di laurea. Accade, però, che nella tomba Giacomo abbia portato con sé la preziosa parola d’accesso a un computer, dentro al quale, tra il fiume di notizie raccolte intorno al Sublicius, è certo si trovi anche il perché Giacomo sia stato ucciso. Labilissimo, l’unico filo che Stefano e la sua ragazza, Silvia (Carolina Rosi), possono seguire, per venire a capo di qualcosa – mentre le telefonate di Giacomo, ancora non si capisce se dall’aldiqua o dall’aldilà, continuano – lo dipanano i ricordi di una vecchia minata dal cancro, Elena Valover (Claudia Lawrence), inquilina dello stesso palazzo sul Lungotevere Ripa che per qualche tempo ha dato ricetto all’inafferabile fidanzata americana di Giacomo, Emily Cohen; e che fu frequentato, nella prima metà dello scorso secolo, da un individuo sinistro e affascinante, classicista e profondo conoscitore delle arti esoteriche, Norberto Sinisgalli. Proprio colui, incappando nei cui appunti sulla arcana storia del Sublicius, Giacomo e Stefano si erano lanciati a  capofitto nella ricerca. Avati plasma i tratti di quest’uomo misterioso – che intravvediamo soltanto: da giovane in fotografia e da vecchio in un’unica scena, riconoscibile dal criptico segno di una spiga di grano infilata nell’asola della giacca – su quelli di una figura reale e al contempo fantasmatica. Sinisgalli, a cominciare dal nome, cela infatti Fulcanelli, il “fuoco o vulcano del sole”, fisico e alchimista francese il cui pensiero e i cui insegnamenti sono affidati a due celebri trattati: Il mistero delle cattedrali e Le dimore filosofali.

In questa trasfigurazione, l’identità cucitagli addosso – come si apprende a segmenti, avanzando tra le ombre con Lorenzo Flaherty e con altri personaggi collaterali: uno, molto ben delineato, è il nipote del commissario Morlisi, (, studente di musicologia che decritta delle strane partiture, legate al rituale degli Argei, appartenute a Sinisgalli, e per questo morirà con la sua ragazza (Stefania Rocca) – è di un occultista dotato del potere di ricordare le proprie vite passate, spintosi talmente oltre nello studio dei rituali legati al Sublicius, da riuscire a conquistare – giungendo “all’altro capo del ponte” – il dominio della materia e del tempo. Forse anche della Morte stessa. La spirale dell’arcano si avvita, nel frattempo, da Roma fino in St. Louis, negli Stati Uniti, dove un detective, Mario Fedrigo (Jason Robards III), che per conto del nostro consolato dovrebbe rintracciare Emily Cohen, sbatte suo malgrado e finisce inghiottito prima contro Mary Sellers – una squillo, in apparenza – e poi nelle sabbie mobili di una confraternita pseudoreligiosa: la Società Teosofica per il Ritorno dello Spirito Originario, composta da adepti cui vien fatto credere di poter scampare, con una specie di morte iniziatica, l’ultimo baratro, ma effettivamente fondata e governata da un gotha internazionale di ipsissimi, individui che hanno elevato se stessi alla massima potenza nel regno dell’occulto. Primo tra i quali, il Sinisgalli… Avati tira i fili del tutto – anche se non in modo semplice – con una soluzione sovrannaturale, che funziona però anche come nota idillico-intimista nel pentagramma cupissimo dello sceneggiato: scoperti certi segreti di Sinisgalli – che  si macchiò di crimini orribili contro gli ebrei durante la guerra e che oggi, a quanto pare, è personalità politica di spicco in Italia -, Giacomo fu tolto di mezzo; ma una parte della sua essenza, il suo egregoro, prima di venire drogato e ucciso, è riuscito a  “nascondersi” nella mente di un ragazzo. E, per suo tramite, invia ora al mondo dei vivi – telefonica e labile voce notturna – il disperato appello di chi, senza essere completamente morto, non potrà mai tornare ad esistere… «Dove finisce la ragione, comincia un territorio che non ci appartiene, nel quale siamo intrusi. Una terra che ha regole che non conosciamo, dove si parla una lingua misteriosa e dove le nostre logiche non sono utilizzabili in alcun modo. Noi in questo territorio possiamo solo subire un mistero, che anziché disvelarsi si fa sempre più impenetrabile. Io non so dire se questo è una pena o un premio, io non so dire nulla: ma so che questo luogo dove sono non può essere in alcun modo cercato né in alcun modo trovato…».