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Visions

2015
Titolo Originale:
Visions
REGIA:
Kevin Greutert
CAST:
Isla Fisher (Eveleigh Maddox)
Anson Mount (David Maddox)
Gillian Jacobs (Sadie)

Il nostro giudizio

Visions è un film del 2015, diretto da Kevin Greutert

Intanto la location: una zona rurale tappezzata di vigneti a perdita d’occhio, che sta a nord di Malibu, California. Perché certi film sono prima di ogni altra cosa i posti dove si ambientano. L’esotismo viticolo doveva essere funzionale ad accompagnare lo sviluppo della vicenda di questo Visions, come ha spiegato il regista Kevin Greutert – montatore e regista dei due Saw di fine ciclo, nonché di Jessebelle -, perché lo svilupparsi e la maturazione dei pampini andava di pari passo con il procedere della gravidanza della protagonista Eveleigh Maddox (Isla Fisher dal crine fiammeggiante). “Andava”, all’imperfetto, perché poi il film lo hanno fatto d’inverno e questa dimensione di crescita parallela tra diversi ordini di nature è saltata. Pazienza. Eveleigh si è trasferita con il marito nell’ubertosa contrada per darsi alla produzione del vino, sperando così di tagliare via i brutti ricordi di un passato prossimo marchiato da un incidente automobilistico che, per colpa di Eveleigh, ha lasciato un cadavere sull’asfalto. Quindi, la rossa è fragile. Non solo: ha cominciato a vedere cose che apparentemente non esistono, immagini fantasmatiche, allucinazioni che non si deve capire, e non si capisce, se siano solo residui mentali della realtà traumatica vissuta oppure occhiate gettate su un indecifrabile altrove. È possibile che c’entri anche la casa in cui la coppia è venuta ad abitare? È possibile tutto, in questa produzione di Jason Blum che ricorda tanto quei vecchi tv-movie americani degli anni Settanta, che non erano più solamente thriller ma ancora dovevano raggiungere lo stadio di horror.

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Greutert tira fuori, infatti, come titolo di riferimento, Let’s Scare Jessica To Death, aka La morte corre incontro a Jessica, che è quasi da manuale se parliamo di storie che procedono sul ciglio dell’abisso e dell’ambiguo: di qui la realtà, di là la paranoia che presta, tuttavia, il fianco al dubbio di poter essere qualcosa di indotto, quindi con ricaduta nel regno delle cospirazioni. Il gioco è sempre lo stesso, anche in Visions: la rossa vede le cose strane che vede ma ha intorno persone che non è escluso c’entrino con le immagini che le rimanda il suo terzo occhio. Joanna Cassidy, una grossista di vini, va come in trance davanti al talamo di Eveleigh e traccia scongiuri nell’aria. Poi c’è il marito stesso (Anson Mount) che, si parva licet, fa venire in mente John Cassavetes in Rosemary’s Baby – e il film di Polanski è stato un altro punto di riferimento per Greutert. Eva Longoria è un’amica di famiglia che va per casa ma potrebbe nascondere viperine intenzioni. E che dire del medico che ha in cura la donna (Jim Parsons), pure lui con un’aria strana, da fidarsi poco? Come contrappeso, ecco invece Sadie (Gillian Jacobs), una ragazza, pure lei incinta, che la protagonista ha conosciuto a un corso di yoga e che le sta vicino, a baluardo. Ma anche qui…

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In una scena niente affatto male, la Fisher, nel pieno del giorno, spia degli strani movimenti nel campo dei vicini e questo, senza aggiungere altre cose, è sufficiente a creare un clima di inquieta attesa in cui ha il suo peso la fotografia di Michael Fimognari (le lenti anamorfiche, come ha detto il regista, usano un look widescreen marcato come un cavallo di Troia per portare lo spettatore nella testa di Eveleigh).  Greutert dà anche una bella definizione per Visions, quando dice che si tratta di un racconto basato su una “verità inaffidabile”. E intende dire che le spaventevoli faccende vengono narrate dal punto di vista di una persona nel cui sguardo potrebbe annidarsi il grande inghippo: mettiamo che sia veramente allucinata, Eveleigh, o che sia morta o che la casa-ragnatela in cui è finita entri in qualche strano modo nei suoi pensieri. Oppure che …  Ecco, “l’oppure che” ultimo non è al di là di ogni supposizione, ma arriva a sorprendere e ci sta, tutto sommato, bene nella coda da scorpione di questo film-puzzle che conferma come il Corman del 2000, Jason Blum, oggi è, se non l’unico, tra i pochissimi che riescono a fare un cinema medio di genere, equiparabile alle produzioni di trent’anni fa.