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The theatre bizzarre

2011
Titolo Originale:
The theatre bizzarre
REGIA:
Douglas Buck, Buddy Giovinazzo, David Gregory, Karim Hussain, Jeremy Kasten, Tom Savini, Richard Stanley
CAST:
Udo Kier
Virginia Newcomb
Amanda Marquardt

Il nostro giudizio

Un horror ad episodi che segna il ritorno di grandi (ex) maestri: The theatre bizzarre film a episodi firmato da ben sette registi.

Il 2011 si è chiuso con una modesta, ma comunque gradita, ripresa del cinema horror a episodi. Sarà stata la voglia di colmare quel vuoto lasciato dai Masters of Horror o il tentativo di costruire piccoli film low budget sfruttando nomi di registi che da un po’ faticano a trovare spazio nelle sale cinematografiche, ma che hanno ancora un certo appeal sul pubblico. Così, mentre dall’Inghilterra è approdato anche da noi il trittico di Little Deaths e altrove sono uscite sciocchezzuole innocenti come Chillerama o improponibili boiate come i due Deadtime Stories presentati da zio George (Romero), il piatto più saporito l’ha sfornato la Severin, coraggiosa label americana che ha prodotto The Theatre Bizarre. L’idea è gagliarda: riunire alcune delle promesse mancate del new-new horror degli anni ‘90 (i Richard Stanley, i Buddy Giovinazzo e i Douglas Buck che dopo aver fatto esultare pubblico e critica con i loro primi film sono “misteriosamente” spariti nel nulla), e offrirgli l’opportunità di un grande riscatto. In un vecchio teatro di quartiere un Udo Kier in tenuta da manichino intrattiene una giovane ragazza (Virginia Newcomb) con sei storie dell’orrore e del mistero.

The Mother of Toads di Richard Stanley (Hardware, Demoniaca), è la storia di una coppia di fidanzatini in viaggio nella campagna francese che si imbatte in una inquietante megera (la strepitosa musa di Lucio Fulci, Catriona MacColl). Durante la notte, la donna si trasforma in una lussuriosa teenager e seduce il ragazzo. Ma non sarà l’unica metamorfosi prima dell’alba e, tra un misto di influenze lovecraftiane e atmofere ecovengeance, la strega godrà del suo tributo di sangue.
I Love You di Buddy Giovinazzo (Combat Shock) è invece una storia d’amore andata a finire male, dove Lei abbandona Lui e Lui la fa a pezzi. Tutto costruito con falsi piani temporali che creano smarrimento e tengono alta la tensione, I Love You colpisce allo stomaco per la semplicità con cui lascia trasparire tutta la disperazione che accompagna la fine di un amore. Un po’ quello che succedeva, con opposti risvolti, anche nel segmento Bitch (titolo più diretto, ma il senso non cambia) di Simon Rumley in Little Deaths. Come dire? Quando i ragazzi soffrono…
The Accident di Duglas Buck (Family Portraits) racconta invece di come un incidente lungo la strada (un cervo investito da una macchina) cambia per sempre la prospettiva della vita e della morte di un’innocente bambina. Come già in Family Portraits, ma anche nel sottovalutato Sisters, Buck si dimostra più interessato ai piccoli orrori del quotidiano che non al sovrannaturale fine a sè stesso, e confeziona un episodio intimo e toccante degno dei migliori racconti brevi di Stephen King.
Wet Dreams dell’ex-maestro degli effetti speciali Tom Savini, rappresenta, invece, la prima clamorosa caduta di tono della raccolta. Amatoriale nella confezione e poco ispirato nella storia, l’episodio racconta di come la scream queen Debbie Rochon si vendica del marito che le ha fatto le corna, tra vagine dentate e lame rotanti che segano in due. Passiamo oltre.
Vision Stains segna il ritorno alla regia di Karim Hussain che, dopo gli anatemi per Subconscious Cruelty e qualche lavoretto passato inosservato, sembrava deciso a dedicarsi alla fotografia. La storia è quella drammatica di una ragazza (Kaniehtiio Horn) ossessionata dai ricordi delle persone che la circondano che, per cancellare la mente, si inietta una elisir diabolico dentro la pupilla. Si tira in ballo la droga e altri orrori reali per raccontare una storia di ordinario squallore che però non riesce mai a evocare quel senso di malsana inquietudine che viveva negli episodi di Giovinazzo e Buck. Non fa schifo, ma è meglio che Hussain continui a fare il direttore della fotografia.

Sweet di David Gregory (Plague Town) è il film del produttore, un po’ come lo erano gli episodi di Mick Garris nella serie dei Masters. Prima di diventare socio della Severin e di esordire alla regia, Gregory si era fatto notare con un curioso reportage su Non aprite quella porta, Texas Chainsaw Massacre: The Shocking Truth, e da allora ne ha firmati di documentari per gli extra dei dvd, molti dei quali dedicati al cinema italiano di genere. David è una brava persona ma Sweet è un po’ una cazzata. Una coppia ossessionata dal cibo, trasforma la propria passione in un incubo bulimico in cui sesso e ingordigia si mescolano a sangue e frattaglie, in un trionfo del cattivo gusto che fa sembrare La grande abbuffata un programma nutrizionale della Weight Watchers. Una festa per gli amanti del body splashing, ma un discreta noia per tutti gli altri.
La cornice con Kier l’ha diretta Jeremy Kasten (Horror in the Attic, The Wizard of Gore) come un gustoso omaggio al teatro del grand guignol e del burlesque, come è giusto che sia. Amen.