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The Sleep Curse

2017
Titolo Originale:
Shi mian
REGIA:
Herman Yau
CAST:
Anthony Wong (Lam Sing/Dr. Lam)
Michelle Wai (Man Ching/Man Woon
Jojo Goh (Monique)

Il nostro giudizio

The Sleep Curse è un film del 2017, diretto da Herman Yau.

Per chi conosce e apprezza Herman Yau, non siamo tornati ai bei tempi di The Untold Story o di Ebola Syndrome. Mister Yau ora ha vent’anni in più e una visione del cinema molto più elastica. Prendiamo ad esempio Shockwave, action movie dell’anno scorso, presentato anche al Far East di Udine, dove il regista di Hong Kong ha ammesso in maniera molto bonaria di fare film per portare più pubblico possibile nelle sale. Il talento è rimasto però intatto: ne è prova questo The Sleep Curse, che sancisce non tanto il ritorno all’horror (perché nel frattempo ne ha comunque fatti a iosa), quanto la reunion con il suo attore feticcio Anthony Wong. Il risultato è assai curioso. La sceneggiatura firmata da Erica Lee, sua abituale collaboratrice, riesce nel difficile compito di inserire l’oggetto orrorifico all’interno di una cornice storica. Il professor Lam Sik-ka, neuroscienziato specializzato negli studi sul sonno, viene contattato da Monique, una sua vecchia conoscenza, per indagare su una malattia che affligge i familiari di quest’ultima da generazioni: un’insonnia duratura che porta poi alla follia e alla morte. Il caso clinico fa però tornare la mente di Sik-ka indietro nel tempo, precisamente negli anni Quaranta durante l’invasione nipponica della Cina: suo padre Lam Sing, divenuto interprete dei giapponesi, soffrì e morì infatti della stessa malattia.

Sik-ka (Anthony Wong) rappresenterebbe già da solo, come personaggio, un enorme e complesso topos letterario: uomo della ragione in lotta contro un fenomeno sovrannaturale e, al tempo stesso, mad scientist che brama scoperte contro natura, come rendere l’essere umano immune dal bisogno di dormire. Offrendosi di curare Monique (Jojo Goh), antepone dunque l’interesse personale registrandosi come protagonista estremamente contraddittorio. Attraverso il montaggio parallelo veniamo proiettati nella Cina degli anni Quaranta, invasa dalle truppe nipponiche: il padre di Sik-ka, Sing (interpretato sempre da Wong), è un pavido collaborazionista dei giapponesi, impiegato da loro come interprete e, suo malgrado, complice dei soprusi che essi infliggono alla popolazione locale. La sceneggiatura di The Sleep Curse è talmente flemmatica da dare l’impressione di essersi dimenticata del tema portante, di quella maledizione del sonno che dà il titolo all’opera. Lo script si rivela in realtà mosso da un meccanismo perfetto e coerente che intreccia la cultura e la filosofia orientale con tematiche prettamente occidentali: il filo diretto che lega l’individuo ai propri antenati, la memoria, il karma, la storia come errore che si ripete.

Il risultato è dunque un Heimat in forma ridotta mischiato all’epopea nazionale che ha ancora nella serie cinematografica Once upon a time in China di Tsui Hark il suo capostipite. Ma l’horror di marca Herman Yau dove sta? Ebbene, esso rimane dormiente per la maggior parte del film, salvo scatenarsi infine negli ultimi catartici minuti, quando il doppio intreccio si scioglie definitivamente. Quella che era stata fino a quel momento una tragedia di fantasmi e allucinazioni, come nella miglior tradizione del teatro shakespeariano, trova la propria risoluzione nello spargimento di sangue. Assistiamo dunque al gore più disinvolto ed eccessivo, tra decapitazioni, evirazioni ed atti di cannibalismo. The Sleep Curse ripaga l’attesa, anche se leggermente protratta, offrendo il disegno macabro di un orrore indelebile e sconvolgente, non tanto dissimile purtroppo da quello che gli uomini commettono sulla terra.