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The Open House

2018
Titolo Originale:
The Open House
REGIA:
Matt Angel, Suzanne Coote
CAST:
Dylan Minnette (Logan Wallace)
Piercey Dalton (Naomi Wallace)
Patricia Bethune (Martha)

Il nostro giudizio

The Open House è un film del 2018, diretto da Matt Angel e Suzanne Coote.

Le certezze della vita sono davvero poche e, tra di esse, la più importante riguarda il fatto che, prima o poi, anche i migliori sono costretti a cedere al fallimento. Nemmeno un colosso come Netflix sembra potersi esimere da questa spietata legge di natura, così come ben dimostra The Open House, primo vero (e sonoro) flop di un’istituzione mediatica reduce da ottime prestazioni di genere – da The Babysitter a Il gioco di Gerald –, costretta anch’essa a fare i conti con gli insidiosi spettri della mancanza di originalità che pare aver infettato, come un cancro, l’intera industria dell’audiovisivo contemporaneo. Asettico e straordinariamente soporifero prodotto di una sceneggiatura maldestramente partorita e in seguito filmicamente tradotta dall’ambiziosa (e, forse, ancora troppo inesperta) coppia formata da Matt Angel e Suzanne Coote, The Open House narra del giovane Logan (la young star Dylan Minnette, passato con agilità da Man in the Dark ai fasti televisivi della serie Netflix Tredici), promessa dell’atletica costretto a trasferirsi assieme alla madre (Piercey Dalton) nella casa in vendita di una parente, a causa dell’indigenza economica seguita alla tragica morte del padre (Aaron Abrams). In attesa che la dimora venga acquistata da nuovi inquilini, mentre il rapporto madre-figlio inizia inevitabilmente a incrinarsi, strane presenze ed eventi inquietanti iniziano a manifestarsi, come se qualcuno o qualcosa di malefico e pericoloso, proveniente da un’altra dimensione, avesse deciso di palesarsi.

Il primo vero (grossissimo) problema di The Open House risiede nella profonda indecisione circa la rotta da seguire, se quella di un classico haunted house – dove, per giunta, la dimora incriminata non può fare alcuna paura nella sua patina glitterata da set di soap opera televisiva – oppure quella di un thriller vagamente sovrannaturale che getta tanti (troppi) semi, per poi lasciarli marcire in un terreno narrativo arido e rigurgitante déjà vù d’ogni tipo. La seconda grave pecca – oltre all’aver ingaggiato due imberbi registi/sceneggiatori, evidentemente capaci di padroneggiare esclusivamente il contenitore formale, a totale scapito del contenuto drammaturgico –, si trova nell’assoluta mancanza di situazioni realmente tensive (in gergo volgare, “da paura”), costringendo il narrato a procedere, per oltre tre quarti, senza che nulla di veramente eclatante accada, tra fastidiosi cliché (scricchiolii, porte che sbattono, ombre minacciose) e sporadici jumpscares totalmente privi di qualsiasi potere spaventevole.

L’unico sussulto degno di nota, all’interno di questa spelacchiata e traballante storia, risiede nel controverso e tesissimo rapporto parentale, messo in scena con grande autenticità, tra i due protagonisti, costituendo l’unica azzeccata nota drammatica di un fragile spartito per il resto annacquato e fastidiosamente dissonate. La sensazione più acuta che si prova dinnanzi a un’opera come The Open House è la pura e semplice noia (nulla a che vedere con il celebre spleen poetico-filosofico), come se tutti, dagli autori agli stessi interpreti, non fossero particolarmente convinti del prodotto cui hanno preso parte, dando vita a un vuoto compitino accademico, esteticamente impeccabile ma per il quale ci si è impegnati giusto il minimo sindacale. Qualcuno, infine, potrebbe avere la decenza di spiegare al povero indifeso spettatore il significato di un finale così inutilmente indecifrabile e forzatamente aperto?