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Roma a mano armata

1976
Titolo Originale:
Roma a mano armata
REGIA:
Umberto Lenzi
CAST:
Tomas Milian (Vincenzo Moretto "Il Gobbo")
Maurizio Merli (Commissario Leonardo Tanzi)
Maria Rosaria (Omaggio Anna)

Il nostro giudizio

Roma a mano armata è un film del 1976, diretto da Umberto Lenzi.

Roma a mano armata nasceva, in maniera rocambolesca e un po’ cialtrona, dal desiderio del produttore Luciano Martino (in combutta con Mino Loy) di sfruttare il filone del momento e di contrapporre due attori di sicuro richiamo come Maurizio Merli e Tomas Milian. Ma, mentre Merli veniva via con poco e viveva un momento d’oro particolarmente favorevole destinato (forse) a una veloce iperbole discendente, Milian era tutt’altra gatta da pelare. Attore di razza, con alle spalle una carriera già consacrata tra cinema “alto” e “basso” (soprattutto western), Tomas Milian aveva esigenze di cachet ben superiori a Merli. Così, per contenere i costi senza precludersi la potenzialità contrattuale del nome, Martino pensò bene di rispolverare la vecchia formula della “partecipazione straordinaria”, che significava pagare (comunque tanto) Milian per pochi giorni di lavoro e sbandierare il suo nome in cartellone come fosse il protagonista. Il risultato è Roma a mano armata, una pellicola che nasce già come operazione di patchwork: una serie di episodi di violenza urbana (c’è di tutto, dallo scippo, allo spaccio di droga, allo stupro) cuciti insieme dalle peripezie del commissario Leonardo Tanzi (Merli) che risponde con brutalità alla brutalità. E se alla fine, con voli pindarici di sceneggiatura, le redini di tutto sembrano essere tenute da tale Vincenzo Moretto (Milian), la struttura a sketch diventava funzionale per mascherare non tanto la totale assenza di una storia coerente quanto l’impossibilità di usufruire di entrambe le star per tutto il tempo delle riprese.

Il gioco però funziona e il ritmo non scema mai anche grazie all’abilità di Lenzi di inserire una scazzottata ogni dieci minuti. Quello di cui forse soffre un po’ Roma a mano armata è invece aver sottovalutato proprio il potenziale del personaggio di Milian. Il pubblico in sala infatti sembrava parteggiare più per il cattivo che non per l’eroe e nel finale, quando Moretto viene freddato da Tanzi, gli urli e gli insulti nei confronti delle forze dell’ordine non si sono fatti attendere. Forte della grande performance di Giulio Sacchi in Milano odia, Tomas Milian, nelle poche scene che lo vedono protagonista (sette se ne contano in tutto il film), si cuce addosso questa figura di gobbo maledetto, avvelenato dalla vita, con sensibilità e intelligenza, disegnando una figura di villain assolutamente inedita rispetto ai tanti cattivoni del poliziesco all’italiana. Certo il trucco, la menomazione fisica, quella gobba così invadente gli hanno dato una mano, ma non hanno fatto il personaggio. Quello che più colpisce (e in qualche modo attrae) di Vincenzo Moretto, che verrà meglio approfondito nel successivo La banda del gobbo, è la sua viscerale umanità. Moretto è allo stesso tempo spietato e trucido, ma anche vigliacco e frignone (se la scena in cui piange al commissariato la dice lunga in questo senso, essa concorre, d’altro canto, a far cortocircuitare nel pubblico il processo di identificazione con Merli, che in questa circostanza assume gli urtanti connotati di una specie di sadico, che gode nel pestare un menomato senza alcuna pietà).

ll Gobbo lavora in una macelleria e sfodera un animo operaio (a un certo punto, dice al rigattiere Andrea Aureli che non vuole pagargli il dovuto: «Io sono gobbo e proletario, tu dritto e capitalista», anticipando le istanze comuniste che saranno proprie del Monnezza), ma poi se ne va in giro in Porsche. Si lascia umiliare da Tanzi di fronte alla sorella (interpretata dall’amica Sandra Cardini), che lo obbliga a ingoiare un proiettile, e poi si bulla con gli amici: «So’ miracolato io: hai presente quella santa Chiara là che sputava le margherite perché era protetta da Dio? Ma io che so’ protetto da Satana cago il piombo!». Un personaggio contraddittorio, che vive delle sue contraddizioni, che incute pena e terrore allo stesso modo. Gli piace la battuta spicciola e volgare (quando Aldo Barberito gli sibila: «Sta attento Moretto che la gobba non porta più fortuna!», lui risponde serafico: «S’è per quello manco le corna!») e, come il Monnezza, prima del Monnezza, è figlio di quella Roma che non esiste più. Quella Roma di “canottari” che correvano al cinema per applaudire le sue gesta e si contorcevano dalle risate alla battuta: «Ah Oronzo… nun fa lo stronzo!». E l’attenzione era tutta per lui, anche se nell’economia del film la sua presenza (almeno fisica) era ridotta a meno della metà di quella di Merli. Poche pose che hanno gettato il seme di tutto quello che sarebbe venuto dopo…