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Re:Mind

2017
Titolo Originale:
Re:Mind
REGIA:
Yusuke Ishida, Yûsuke Koroyasu, Akira Uchikata
CAST:
Hiragana Keyakizaka46

Il nostro giudizio

Re:Mind è una serie del 2017 creata da Yasushi Akimoto

So’ pazzi ‘sti giapponesi! Solo a loro può venire in mente di prendere una girl band adoratissima dai giovani nipponici e infilarla in una serie tra il thriller e l’horror. La band in questione è il noto (in patria) gruppo idol Hiragana Keyakizaka46, uno dei tanti prodotti di quel mondo così sgargiante e surreale che è il j-pop. Immaginatevele: dodici ragazzine, di cui alcune ancora minorenni, tutte vestite allo stesso modo, che ballano, cantano e sorridono. Ecco, adesso pensatele sedute attorno a una lunga tavola imbandita in stile Ottocento europeo e immobilizzate per i piedi al pavimento, ignare di dove siano e del perché: un movente da scoprire e da capire a fondo prima che, a una a una, scompaiano nel nulla. È proprio quella voglia di sapere (e anche la breve durata degli episodi) a rendere Re:Mind una serie da divorare in un sol boccone. Ma i giapponesi, si sa, so’ pazzi, nel bene come nel male. L’immediato sospetto di essere davanti ad un Saw in salsa nipponica sembra confortato dalla presenza di indizi che dovrebbero aiutare le ragazze a comprendere il motivo per cui sono prigioniere. “I guess everything reminds you of something”, recita la copertina del libro di Hemingway che troneggia sulla sala. Solo che qui non siamo in presenza di alcuna trappola mortale o strumento di tortura.

O meglio, la tortura c’è: quella di dover ricordare e di dover confessare. Attraverso dodici episodi, i segreti e le bugie di queste apparentemente candide scolarette vengono svelati, tra accuse reciproche e momenti di sincero pentimento. Non si fa certo uno sgarbo ai futuri spettatori della serie nel rivelare che, dietro questo sequestro di gruppo ben orchestrato, c’è la volontà di punire l’ennesimo atto di bullismo. La novità di Re:Mind (trasmessa da Netflix) consiste tutta nell’inserirlo in una narrazione à la Dieci piccoli indiani dove ciò che più preme non è tanto sapere l’identità del sequestratore, quanto conoscere le colpe di ognuna delle ragazze. Infatti, se bisogna trovare un difetto, esso consiste proprio nell’aver voluto dare la risposta da romanzo giallo con il colpo di scena finale, quando tutto il contesto poteva permettere di lasciare in sospeso un elemento così poco importante. Ebbene sì, il colpevole è superfluo, così come sapere dove si trovino effettivamente le vittime: dettaglio, questo, che invece non verrà mai chiarito del tutto.

Ciò che però distingue Re:Mind è un senso di voluta incompiutezza, quasi a voler sottolineare l’impossibilità di comprendere tutte le sfaccettature della storia e delle protagoniste, specialmente quelle che rimarranno in gioco quasi fino alla fine. Lo spettatore è portato a un contrastante sentimento di empatia e di disapprovazione nei loro confronti. L’obiettivo diventa dunque più complesso: descrivere l’adolescenza come un momento positivo per l’affermazione del singolo ma ancora condizionato da un’immaturità di fondo che non fa distinguere nettamente le categorie di giusto e sbagliato, in modo particolare se esso è influenzato dalle spietate dinamiche del gruppo. È dunque importante (e al tempo stesso non lo è) l’episodio speciale che funge da prequel al sequestro: ancora una volta si vuole scoraggiare lo spettatore dalla possibilità di sapere altro. Rompendo la quarta parete, le ragazze si rivolgono a chi le osserva per riaffermare questo concetto: “Pensate ancora di aver conosciuto tutti i nostri segreti?”. In verità avrei preferito sapere ancora di meno. Volendo risultare più digeribile a un pubblico occidentale, Re:Mind ha centrato solo in parte l’obiettivo.