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Prodigy

2017
Titolo Originale:
Prodigy
REGIA:
Alex Haughey, Brian Vidal
CAST:
Richard Neil (Dottor Fonda)
Savannah Liles (Ellie)
Jolene Andersen (Olivia)

Il nostro giudizio

Prodigy è un film del 2017, diretto da Alex Haughey e Brian Vidal.

Piccole serial killer crescono nel torbido e brulicante sottobosco del cinema di genere a stelle e strisce e, stando a quanto si vede, paiono anche parecchio incazzate. Tutta colpa di quei due geniacci di Alex Haughey e Brian Vidal che, dopo un lungo e prolifico training a velocità ridotta, hanno finalmente deciso di compiere un piccolo passo per lo psycho thriller ma decisamente un grande balzo per le proprie inscindibili carriere. Mesti mesti, zitti zitti, quatti quatti, i due propositivi cineasti hanno scelto di prelevare di peso il nutrito (e precocemente abusato) filone degli enfants terribles a ventiquattro fotogrammi al secondo – nato da nobili spermatozoi quali Il giglio nero (1954), Il villaggio dei dannati (1960) e Omen – Il presagio (1976) – e di scaraventarlo contro il già incrinato specchio affisso alla parete delle luride camerette dei (più o meno) celebri pazzoidi su grande schermo, dal Norman Bates di Psycho (1960) all’iconico Dottor Lecter de Il silenzio degli innocenti (1991), dando vita a un inquietante kammerspiel che non ha minimamente idea di dove l’innocenza stia di casa.  Reduce da un fruttuoso e ben speso tour all’interno dei maggiori festival minori del settore, Prodigy vede in prima linea il singolare Dottor Fonda (Richard Neil), psicoterapeuta infantile ingaggiato da una sezione non ben identificata dei servizi segreti statunitensi al fine di svolgere un approfondito e serrato interrogatorio nei confronti di una ragazzina di nome Ellie (un’inquietantissima Savannah Liles in versione psycho-genietto prepuberale), apparentemente candida e innocente ma saldamente legata mani e piedi per un ottimo motivo.

Con poco tempo a disposizione prima che la piccola venga messa a morte (ma dove siamo, in Corea del Nord?!), l’uomo dovrà tentare di sondare e ricostruire le terribili motivazione che hanno spinto la dolce fanciulletta ad accoppare la propria madre, il tutto mentre l’impassibile Hannibal (o Annabelle, come preferite) Lecter in gonnella sembra dar prova di strani poteri non propriamente di questo mondo. Bastava davvero un nonnulla a far venir fuori una sonora vaccata coi controfiocchi, soprattutto tenendo conto dell’espediente di partenza. Invece, grazie a qualche insondabile e provvidenziale congiunzione degli astri di celluloide, Prodigy è venuto al mondo sano, fresco e ben pasciuto, poggiando i piedi su di un solido asfalto narrativo (ovviamente sconnesso da qualche sporadica buca) e su di una confezione estetica di tutto riguardo, soprattutto sul versante dei (pochi ma buoni) effetti speciali. La vera genialata insita nello script di Haughey e Vidal si trova tuttavia nel confronto faccia-a-faccia fra lo psicologo protagonista e una spocchiosa (e alquanto pericolosa) bimbetta letteralmente ai confini della realtà, un tesissimo scambio di battute, interamente giocato nell’asettica geometria di una sala interrogatori, che non può che richiamare alla mente il celeberrimo tête-à-tête Foster-Hopkins mirabilmente filmato da Jonathan Demme, solo con i valori sessuali e anagrafici invertiti.

Quando poi alla Pippi Calzelunghe dell’Ade viene propinata l’immancabile museruola d’ordinanza (a dire il vero più simile allo scafandro facciale de La maschera di ferro), l’omaggio si fa palese come l’evasione fiscale. Ma la vera punta di diamante risplende negli occhi gelidi e nelle livide lentiggini della psycho-protagonista, autentica enfat fatal dall’intelletto fino, lingua lunga e poteri ultramondani capaci di far impallidire la Jodelle Ferland di Case 39 (2008) tanto quanto le varie Carrie e incendiarie kinghiane, un autentico mostro a taglia ridotta per il quale caramelle e balocchi non paiono certo fonte di grande interesse. Giocando magistralmente gran parte delle carte a disposizione sul tavolo dell’atmosfera e intessendo un fraseggio di dialoghi capace di incollare occhi e orecchie allo schermo per ben ottanta minuti, Prodigy sembra violare letteralmente le leggi della fisica cinematografica, consegnando allo spettatore un gran bel racconto in un contenitore tutto sommato piccolo e sobrio, un po’ come la mirabolante borsa da viaggio di Mary Poppins che, seppur all’apparenza poco capiente, una volta spalancata rivelava universi magici e apparentemente senza confini.