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Mute

2018
Titolo Originale:
Mute
REGIA:
Duncan Jones
CAST:
Alexander Skarsgård (Leo)
Paul Rudd (Cactus Bill)
Justin Theroux (Duck Teddington)

Il nostro giudizio

Mute è un film del 2018, diretto da Duncan Jones

Dall’alto dei suoi quarantasette anni, nonostante una filmografia ancora, per lo più, acerba che conta, a oggi, appena quattro titoli, Duncan Jones ha saputo dimostrare una precoce attitudine alla rielaborazione degli stilemi classici del cinema di genere – in special modo, di natura fantascientifica – in chiave profondamente esistenzialista, dando origine a un’innovativa poetica, in cui il fantastico e il filosofico trovano il modo di dialogare tra loro con straordinaria coerenza e fluidità, permettendo, dunque, d’impiegare, con cognizione di causa, l’etichetta di “autore”. Ed è così che, a partire dal folgorante esordio kammerspiel on space che fu Moon (2009), passando attraverso il complesso mind game movie alla base di Source Code (2011) e senza scordare, nel frattempo, la rilettura etnico-linguistica del multiculturalismo fantasy di Warcraft (2016), si è infine giunti a Mute, opera estremamente complessa e stratificata (e per questo stupidamente stroncata ancor prima che Netflix ne annunciasse la distribuzione), capace di filtrare l’attualità e le sue contraddizioni attraverso lo specchio di un futuro prossimo, a tratti forse un po’ troppo futuribile, nel quale forma e contenuto, pur faticando in molte occasioni a coesistere nel medesimo universo visivo, si prodigano per dar forma a un insolito noir Sci-fi, molto lontano (ma al contempo necessariamente molto vicino) al techno-chic minimale di Denis Villeneuve e al distopico cyberpunk di Ridley Scott.

Basato su di una sceneggiatura risalente al 2003 firmata da Jones e Michael Robert Johnson – originariamente plasmata su misura per Sam Rockwell –, Mute vede come protagonista il tosto e brumoso Leo (Alexander Skarsgård), barista di un locale notturno nella multietnica Berlino del 2052, costretto al mutismo da un grave incidente in giovane età non opportunamente curato a causa delle rigide convinzioni Hamish della propria famiglia. Restio a ogni forma d’innovazione tecnologica e grande appassionato dell’intagliatura del legno, Leo vive in relativa tranquillità la propria esistenza, sino a quando la compagna Naadirah non sparisce nel nulla, costringendolo a un’immersione profonda nei bassifondi di una città laida e infame, sino allo scontro finale con due corrotti chirurghi americani, Cactus Bill (Paul Rudd) e Duck Teddington (Justin Theroux). Nonostante le numerose peripezie che ne hanno segnato la genesi e la conseguente realizzazione – tanto da far parlare di un ennesimo Don Quixote cinematografico –, Mute ha infine potuto prendere forma quale ideale “sequel spirituale” del già citato Moon, dando la possibilità a Jones di realizzare un racconto in cui la componente fantascientifica rimane un puro pretesto di fondo attraverso il quale far emergere tutta una serie di implicazioni (nemmeno troppo velate) con l’attualità politica e culturale – il soggetto originale era ambientato nella Londra contemporanea –, dipingendo un futuro prossimo chiaramente orfano del moderno concetto di Europa unita (il ritorno alle valute nazionali, una fortissima xenofobia latente, uno strisciante clima da occupazione militare, le difficoltà di circolazione intra ed extra territoriali) e in cui il feticismo tecnologico ha raggiunto limiti davvero assurdi, come il delivery food gestito da droni piuttosto che la perenne tracciatura telefonico-telematica necessaria per ogni tipo di acquisto.

Tutto ciò viene confezionato da Jones attraverso un impianto formale decisamente debitore all’immaginario classico lasciatoci in dotazione da Blade Runner e dai suoi innumerevoli figliastri, peccando, tuttavia, in un uso a tratti smodato (e tecnicamente non sempre ineccepibile) della CGI, cui si aggiunge una fotografia pulp al neon alla Brazil che crea spesso forti confusioni tra scene notturne e diurne. Profondamente imperfetto sotto numerosi aspetti (durata eccessiva, evidenti cali di tono nella parte centrale, ritmo sincopato e spesso forzatamente estatico, uno stucchevole autocompiacimento formalista, recitazione fastidiosamente sopra le righe e una narrazione evidentemente troppo debole nel suo complesso), Mute risulta, tuttavia, un sincero e personalissimo atto d’amore che Duncan Jonson rivolge all’immaginario poetico del padre David Bowie, richiamando direttamente in causa il difficile tema del rapporto padre-figlio e dedicando l’intera opera a Maron, la donna che lo ha cresciuto come un figlio pur non essendone la madre biologica.