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Mózes il pesce e la colomba

2014
Titolo Originale:
Mózes il pesce e la colomba
REGIA:
Virág Zomborácz
CAST:
Márton Kristóf (Mózes)
László Gálffi (Il Padre/il fantasma)
Eszter Csákányi (Zia Janka)

Il nostro giudizio

Mózes il pesce e la colomba è un film del 2014, diretto da Virág Zomborácz
Non c’è niente da fare. Muri o non muri, cortine di ferro o non cortine di ferro, il cinema che arriva dall’Est ha sempre avuto e continua ad avere un colore particolare. Colore nel senso più lato, sinestesico. Colore, odore, sapore. Quel mondo entra nei film e li permea delle sue tinte e delle sue fragranze. Un mondo dai colori “persi”, aggettivo dantesco che dice più di qualsiasi altra qualificazione. Mózes, il pesce e la colomba arriva dall’Ungheria ed è l’opera di una regista donna, Virág Zomborácz, altra notazione che non è senza peso, perché la sensazione è che le donne riescano sempre a fare il film che vogliono fare, più degli uomini. In quanto vanno diritte al bersaglio e, almeno al cinema non amano l’arabesco. La storia che la bionda magiara dal nome impronunciabile vuole fare ha dentro di sé qualcosa del Macbeth scespiriano, perché colui che per tutti gli altri è morto, si manifesta al protagonista come muta, ingombrante e ineludibile presenza. Il trapassato che si riaffaccia nell’aldiqua è il padre di Márton Kristóf, il Mózes del titolo, un ragazzo che ha appena lasciato le camerate di una clinica psichiatrica per tornare a vivere in famiglia. L’uomo che lo ha generato (László Gálffi) è un pastore protestante e presenza ingombrante, asfissiante nella vita del giovane lo era già prima che un coccolone lo strappasse al mondo dei vivi appena dopo che Mózes ha rimesso piede in casa.
Se un morto ti riappare e ti segue ovunque, che fai? Cerchi di capire, superati paura e stupore, perché sia qui e cosa voglia. Il protagonista si butta quindi sulla pista esoterica onde riuscire a spiegare l’arcano grazie alle indicazioni di un meccanico pratico di esoterismo che gli somministra una serie di consigli – del tutto inutili – per disfarsi della “larva”. Ma a questo punto è chiaro che il padre, un pastore protestante, è lì come residuo onirico della realtà, quale monito e sfida per il giovane a operare una volta per tutte l’eliminazione (uccisione) rituale del genitore che gli è sempre stato, metaforicamente e fisicamente, alle calcagna e con il fiato sul collo. Il pesce del titolo italiano è una carpa o simile che Mózes ha pescato insieme al padre, prima che costui defungesse, e che viene tenuta viva in una boccia di cristallo nel salotto di casa. C’è poi spazio per l’altra bestia, la colomba, e anche per un cane che si rende protagonista di una delle sequenze più impressionanti del film, perché questo cinema dell’Est che sembra sempre muoversi sottotraccia e in punta di silenzio, poi ha delle esplosioni potenti che lasciano segni di sangue.
Mózes, il pesce e la colomba fa ciò che deve fare e lo fa piuttosto bene: racconta lo svincolarsi del protagonista dalle pastoie di un sistema – nel senso più lato del termine – soffocante, ma intanto ne approfitta per tratteggiare una commedia di costume che sfonda, come spesso accade ai prodotti del’Est, nel surreale, qualità che da quelle bande deve respirarsi nell’aria – si vede – tanto è convitata immancabilmente al banchetto di ogni film. Il meglio della narrazione, comunque, a parte gli effetti di quando Mózes si rende conto della immanenza del padre (in una scena sta per masturbarsi nel letto e resta bloccato dallo sguardo glaciale del fantasma) è nel rapporto tra Márton Kristóf e una ragazza ex tossicomane (Andrea Petrik) che gli leva il fardello se non proprio della verginità, di una lunga astinenza dal sesso. Nel finale liberatorio, più del gesto in sé che non sveliamo, colpisce ancora una volta l’orizzonte piatto e ceruleo, apparentemente vuoto ma il realtà traboccante fino all’orlo di cose, che è la marca distintiva di quei luoghi dal colore perso.