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Mio Mao – Fatiche ed avventure di alcuni giovani occidentali per introdurre il vizio in Cina

1970
Titolo Originale:
Mio Mao – Fatiche ed avventure di alcuni giovani occidentali per introdurre il vizio in Cina
REGIA:
Nicolò Ferrari
CAST:
Yves Beneyton (Giuda)
Rosemary Dexter (Jean)
Livio Barbo (Bob)

Il nostro giudizio

Mio Mao – Fatiche ed avventure di alcuni giovani occidentali per introdurre il vizio in Cina è un film del 1970, diretto da Niccolò Ferrari.

«I sentimenti e l’amore non devono più esistere per noi, sono la base dell’individualismo, la peggiore delle droghe!». Il lessico rivoluzionario spinto alle estreme conseguenze è il vocabolario privilegiato dai deliranti dialoghi di Mio Mao, così altisonanti e al tempo stesso così continuamente sopra le righe da far slittare il film su un registro politico-mistico incontrollabile. Ci si potrebbe quasi credere, allo sforzo e alla necessità di questo gruppo di giovani ribelli di introdurre il vizio in Cina  per far sviluppare alla rivoluzione i giusti anticorpi, dicono… – se non fosse per quelle musichette incredibili di Teo Usuelli, elaborate fughe in chiave jazz-beat con coretti settecenteschi, che riportano il tutto al grottesco spinto e all’eccentrismo di fondo dei personaggi e dei luoghi. Eppure, il film non è mai così allegro; vi persiste, anzi, una tragicità di fondo che riscatta qualsiasi momento un po’ easy – rari, a dire il vero, più che altro legati alla follia delle situazioni – e che si dilata mano a mano che i ragazzi compiono il loro viaggio. Ben presto il gruppo inizia a dividersi, a perdersi, andando ognuno per la sua strada. Così come lo spettatore, che non segue più il film, è sempre meno interessato al destino dei suoi protagonisti…

Se l’incipit di Mio Mao è ancora, almeno, curioso, nella sua avventurosa dichiarazione d’intenti (farci vedere un road-movie surreal-contestatario), non occorre attendere molto prima di intuire che il film manca di una vera e propria idea di messa in scena, di una vera e propria drammaticità. Tappa dopo tappa, dalla Turchia al deserto iraniano, dall’India all’Indocina, non è che succeda poi molto (l’unica trovata è quella della tribù di donne bellissime dove Giuda e il suo amico Tom, i soli rimasti uniti, sembrano momentaneamente trovare il loro paradiso terrestre, salvo poi scoprire che il germe del capitalismo è arrivato anche lì…). Nonostante il viaggio che i diversi set ci fanno fare, l’operazione di Niccolò Ferrari mostra una sua povertà pazzesca, iterando per lo più una serie di campi lunghi e panoramiche da documentario etnografico sulle città e i luoghi esotici che i nostri si trovano ad attraversare, anziché inserire i diversi scenari in vere costruzioni narrative in grado di farli vivere.

Latitano anche gli elementi exploitation, che pure avrebbero potuto elevare il film sul piano dell’attrazione spettatoriale (i nudi sono striminziti e non c’è neanche un immaginario minimamente pop come ci si potrebbe aspettare dal tema e dal periodo). Forse sulla sensazione di noia provata grava anche la qualità della versione che si trova (mica tanto) in giro, una copia da master scurissima e quasi evanescente, che non rende certo al meglio il potenziale fotografico di Gerardo Patrizi (4 film all’attivo!). Irresistibile, comunque, l’assurdità dei dialoghi; uno per tutti, Rosemary Dexter, che dopo aver posato come modella, risponde così all‘amico fotografo che le chiede un nuovo servizio per l’indomani: «Mi dispiace, devo partire!»; «Dove vai?»; «Mah, a portare il vizio in Cina, sono già in ritardo, scusa, Giuda mi aspetta!».