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Marjorie Prime

2017
Titolo Originale:
Marjorie Prime
REGIA:
Michael Almereyda
CAST:
Lois Smith (Marjorie)
Jon Hamm (Walter)
Tim Robbins (Jon)

Il nostro giudizio

Marjorie Prime è un film del 2017, diretto da Michael Almereyda

Se il grande maestro Igmar Bergman fosse vissuto un po’ più a lungo, sicuramente si sarebbe trovato straordinariamente a proprio agio dinnanzi a un’opera come Marjorie Prime, fresco e autentico esempio di cinema da camera contemporaneo capace di evocare emozioni e suggestioni profonde grazie a una poetica (bergmaniana per l’appunto) basata sull’armonica interconnessione fra immagine e parola. Trovandosi a dover adattare in forma filmica la celebre pièce di Jordan Harrison – candidata addirittura al Premio Pulitzer –, l’esperto Michael Almereyda sceglie di non rinnegare assolutamente la matrice teatrale d’origine, impostando il proprio diciottesimo lungometraggio sul modello di una toccante fiaba drammatica dal sapore fantascientifico, totalmente scevra da ogni pedante feticismo tecno-futuristico e interamente dedicata al potere evocativo del ricordo attraverso il dialogo. Cullato magnificamente da un ritmo narrativo ipnotico e dilatato, il film narra di un prossimo futuro nel quale una straordinaria tecnologia olografica permette ai vivi di poter (illusoriamente) conversare con coloro che ormai non ci sono più e che sopravvivono solo in forma di ricordi audiovisivi.

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Ed è proprio ciò che cerca di fare l’anziana Marjorie (una straordinaria e misurata Lois Smith), ex musicista affetta dal morbo di Alzheimer intenta a instaurare un rapporto alquanto inusuale con il video-fantasma del marito defunto Walter (Jon Hamm), il tutto mentre la figlia Tess (Geena Davis) e il genero Jon (Tim Robbins) si trovano a vivere la nuova situazione attraverso sentimenti contrastanti. Gli anni passano inesorabili, e con essi il ricordo degli affetti più cari, mentre, uno dopo l’altro, i membri della famiglia diventeranno essi stessi proiezioni di un passato perennemente immutabile. Meritatamente premiato con lo Sloan Feature Film Prize al Sundance 2017, Marjorie Prime concentra il proprio intero fulcro narrativo sul tema della persistenza della memoria – e sul rischio del relativo deterioramento a causa della revisione operata dal passare del tempo –, attraverso un suggestivo rituale catartico che vede i personaggi ancora in vita “istruire” l’intelligenza artificiale riguardo alla propria back story, dando luogo a un espediente drammaturgico a metà strada fra una seduta (auto)psicanalitica e una confessione di matrice cristiana che non ha altro scopo se non quello di evocare il passato con tutte le sue gioie e i suoi dolori, rendendolo finalmente palese e valutabile in maniera oggettiva.

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Il setting dell’intera pellicola si riduce così alle sole quattro mura di un accogliente e anonimo salotto, nel quale il divano diviene oggetto e luogo deputato a ospitare l’entità chiamata a esternare il proprio vissuto, producendo un leitmotiv visivo e narrativo che si ripete ciclicamente a ogni progressivo decesso e conseguente “passaggio” al mondo della video-replicazione. Agendo per sottrazione, sino a generare un impianto figurativo squisitamente minimalista, Almereyda si dimostra ancora una volta un sublime direttore di attori, capace di spremere da ogni espressione e gesto dei propri protagonisti quella scintilla di passione che rende ogni singola parola pronunciata carica di significato, lasciando lo spettatore incantato a guardare il dialogo farsi immagine, proprio come nel cinema “parlato” di Rohmer e di de Oliveira. Un piccolo racconto, lucido e senza pretese, di un sapore antico nonostante una pelle vagamente sci-fi. Una di quelle storie che ormai non si vedono (né si ascoltano) più sul grande schermo ma che meriterebbero certamente una maggiore considerazione nel caotico panorama audiovisivo contemporaneo.